BRUNA MONACO | In pieno Oceano Pacifico, fra le Hawaii e le coste orientali dell’Australia, sorge l’isola di Samoa. Un arcipelago, in realtà, per metà americano. L’altra metà, che fu prima tedesca poi neozelandese, è indipendente dal ’62. Non esistono i teatri sull’isola di Samoa. Eppure è lì che nel 1995 Lemi Ponifasio ha fondato la compagnia MAU, dandole il nome del più importante movimento indipendentista non-violento dell’isola. Un paese senza teatro ma con un collettivo di danza di calibro internazionale. Solo in apparenza un paradosso: non è nei teatri che nasce il teatro, tantomeno la danza. O almeno non solo. Sono i contesti rituali le prime fucine delle arti performative. E se per noi occidentali abituati a sale buie, palchi, platee e applausi, il rapporto tra danza e rito non è che una reminescenza di studio, basta guardare a oriente per ritrovare questo antico legame in tutta (o quasi) la sua verità ed efficacia. Le danze balinesi che incantarono Artaud nei primi anni del Novecento non erano nate per un pubblico ignaro, curioso e plaudente. E probabilmente l’attrazione che quei corpi esercitarono su Artaud non è dissimile da quella provata dagli spettatori dell’ultimo spettacolo di Lemi Ponifasio: la “prodigieuse mathématique” che regolava i movimenti ammirati dal teorico del teatro della crudeltà era rigorosa e altrettanto impressionante negli interpreti di Birds with Skymirrors. E non è questo l’unico punto di contatto tra le danze tradizionali balinesi e questa, invece, originale di Lemi Ponifasio che, benché sia reticente a svelare i segreti e gli ingredienti della propria creazione, non nega un legame con la danza del passato. Punti di contatto dovuti alla relativa vicinanza fra le terre, o al fatto che la civiltà samoana risale all’arrivo delle popolazioni polinesiane.
In Birds with Skymirrors i danzatori (tutti calvi, con tuniche che paiono monacali) incedono sul palcoseguendo immaginarie linee orizzontali: le teste parallele al pavimento, non un’oscillazione, come se un filo sotto l’ombelico li tirasse per farli muovere. Quel punto in basso nel corpo, sotto l’ombelico, è il baricentro: da lì parte ogni impulso. Nessun movimento, nemmeno il più periferico della testa o del gomito, parte senza che il centro ne sia motore. Ed è a questo piccolo punto sotto l’ombelico che si devono la precisione e l’organicità della danza. Le ginocchia flesse e le cosce muscolose lo sostengono, la pianta dei piedi nudi aderisce al suolo, radicando i corpi alla terra e chiudendo così fra le teste calve e i piedi scalzi quel fascio di muscoli ed energia che sono i corpi degli eccellenti interpreti di Birds with Skymirrors. La vibrazione regolare delle dita delle mani e il sollevarsi di quelle dei piedi a ogni stop sono le prove che l’energia attraversa davvero in ogni momento ogni parte del corpo.

Birds with Skymirrors è movimento continuo. Lento e continuo. A farsi garante di questa continuità è la scenografia, che attraverso il dosaggio e il taglio delle le luci si svela progressivamente, poi si modifica ridefinendo gli spazi e ristabilendo il senso dello spettacolo. Sul fondo dei riquadri, finestre in plastica riflettente che restituiscono, deformata, l’immagine di quanto accade in scena. Birds with Skymirrors è un “moto perpetuo” non musicale ma visivo, e rimanda a quello della materia che si trasforma, si deteriora. Un cormorano che dimena le ali impiastrate di petrolio appare in video per pochi secondi: l’apparizione del senso ultimo dello spettacolo. Scuro come il petrolio è ogni elemento: i costumi, le scene, i rossetti delle tre interpreti, sorta di streghe che in una lingua incomprensibile gridano versi che sembrano maledizioni.
Lemi Ponifasio ha creato uno spettacolo ineccepibile sul piano estetico e trascinante proprio per la solennità con cui è trattato il dato esteriore. Dalla composizione scenica alle entrate e uscite degli interpreti (ma bisognerebbe forse parlare di apparizioni e scomparse). Dai movimenti dei singoli danzatori alle coreografie: simultanee, rigorose, quasi ipnotiche.
Per lo spettatore occidentale che ha incontrato Pina Bausch e conosce e ricerca il piacere perverso della “discronia”, ritrovarsi di fronte a questa danza sincronica è come riprovarne uno antico e dimenticato. Quanto sono lontani questi corpi che si muovono all’unisono, come fossero parte di uno stesso organismo, da quelli dei danzatori e delle danzatrici de La sacre di printemps, orgogliosamente diversi, che pur seguendo la stessa partitura, agiscono come se ognuno fosse un armonico della stessa nota. Attenzione all’individuo da un lato, annullamento delle differenze dall’altro. Disequilibrio contro equilibrio. Le frontiere entro cui si muove ogni ricerca espressiva.

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