DOMENICO COLOSI | L’onnipresente monologo, passe-partout per gli staff organizzativi di rassegne e piccoli festival, soluzione privilegiata che diviene puntualmente regola aurea per ragioni di budget e bilancio. Non si libera da questa camicia di forza neanche il SabirFest, manifestazione dedicata al dialogo tra le culture mediterranee che da quattro anni apre ufficialmente la stagione teatrale messinese.
Quattro i monologhi inseriti nel programma allestito dal presidente di Rete Latitudini Gigi Spedale con la collaborazione del Teatro Clan Off di Mauro Failla e Giovanni Maria Currò, un’occasione di confronto sui confini territoriali e metafisici del mondo a partire dal tema delle (s)cortesie per gli ospiti, lieve calembour per omaggiare il sinistro romanzo di Ian McEwan del 1983.
Sul palco del secentesco Monte di Pietà rinunce, sradicamenti, burle e lotte di classe: un viaggio nelle distanze e negli incontri cercati e fortuiti, dal debutto con Salvatore Zinna e il suo Doppio legame (scritto con Maria Piera Regoli a partire dai verbali del celebre maxiprocesso palermitano) all’apolide Saverio La Ruina di Italianesi.
Barriere invalicabili all’interno della stessa città nel caso di Zinna, ambasciatore di un mondo sotterraneo popolato da ladruncoli senza futuro, tristi caricature da gangster-movie condannate ad una via crucis di umiliazioni. L’attore di origine ennese dipinge una Palermo sorretta da un potere parallelo alle istituzioni e al mediocre apparato statale (il gran parlare di pensioni d’invalidità come frequente leitmotiv), una Metropolis della malavita pronta ad ingoiare nelle sue perverse dinamiche ogni insulso operaio del crimine. Tollerati, in questo senso, anche un paio di passaggi a vuoto, spesso semplici preludi a momenti memorabili come la forzata degustazione di cannoli o i piagnucolii per la sorte dei fratelli, capolavori mimici a fare quasi da contrappunto alla maestà architettonica del Monte di Pietà.
Ad una sfida dal basso è invece legato il secondo spettacolo del Sabir, il frammentario Fanculopensiero – Stanza 501 portato in scena dal pugliese Ippolito Chiarello. Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore croato Maksim Cristian, lo spettacolo traduce la lacunosa ricerca interiore di un manager fuggito dalle proprie responsabilità per trovare rifugio in una minuscola camera d’albergo. Quasi uno spin-off da un qualsivoglia manuale motivazionale, la drammaturgia di Michele Santeramo resta sospesa in una vaghezza d’intenti che non riesce mai a tramutarsi in una critica dei costumi: un’occasione lasciata scivolare via con troppa leggerezza, relegata nella terra di nessuno tra la satira e il semplice divertissement. Anticipato alla Galleria Vittorio Emanuele nella forma volutamente comica del barbonaggio teatrale (una rappresentazione non consequenziale dei vari segmenti dello spettacolo in base alle richieste del pubblico), Fanculopensiero resta un’incompiuta nella sua sequela di sketch male assortiti. Poche differenze, a dire il vero, tra la recitazione on demand della strada con quella più organizzata del teatro: Chiarello oscilla tra i registri con il suo lungo trench verde, a disagio in uno spazio privo di veri punti di riferimento nonostante la consolidata abitudine a condurre la propria arte su ogni superficie calpestabile. Il brio giovanilistico del linguaggio, poi, diviene presto una prigione per un lavoro programmaticamente ambizioso che sfocia tuttavia in una sarabanda troppo ingessata per risultare efficace.
Esplora il territorio del mito Gaspare Balsamo con il suo ‘U Ciclopu, Giufà e Firrazzanu, adattamento in forma di cunto del IX libro dell’Odissea: beffe in serie, invocazioni e preghiere per un genere che continua incredibilmente ad entusiasmare senza riserve grandi e piccini; dai teatri alle piazze solo ovazioni, risate e feconde consolazioni passatiste: o tempora o mores. ‘U Ciclopu è racconto ideale da notte stellata intorno al fuoco: tono lieve e voce impetuosa per la sfida d’arguzia tra Polifemo e Ulisse, un incedere controllato che deraglia in un secondo momento nei due episodi popolari di Giufà e Ferrazzano, inserti giocosi che esaltano la prodiga convivialità del cunto.
Chiusura di festival con Saverio La Ruina e il suo claudicante Tonino, italiano in Albania e straniero nello Stivale, Atlante di un mondo di vinti alla ricerca di un padre a lungo vagheggiato nei duri anni di prigionia oltre Adriatico. Cronaca di un incontro amaro, diretta conseguenza di uno sradicamento indotto da una burocrazia ottusa e da politiche kafkiane: microcosmi inghiottiti dalla Storia trovano cittadinanza nel teatro del drammaturgo calabrese, interprete eccellente di un dialogo immaginario con i mille fantasmi di un’esistenza privata di senso. L’innata eleganza di La Ruina nobilita anche i risvolti più ingenui della vicenda, magnificata dalle garbate musiche di Roberto Chiarello negli interstizi tra un ricordo sognato e una brama disillusa.
Nell’apprezzamento generale del pubblico il riscontro positivo di un’operazione condotta a distanza dai marosi che animano il mondo delle sovvenzioni pubbliche. Dai privati giunge dunque il paradosso di un’arte fieramente democratica: l’arte dei vinti, con un fuoco che continua comunque ad ardere sotto la cenere. Messe in secondo piano le considerazioni prettamente artistiche, la forma del monologo continua ad affermarsi con il perdurare della crisi economica: il SabirFest prova quantomeno ad imbastire un percorso ragionato dalle necessità contingenti, una linea chiara e netta che, tra alti e bassi, rende onore alla traccia di partenza.
Doppio legame
di Salvatore Zinna e Maria Piera Regoli
regia Federico Magnano San Lio
con Salvatore Zinna
produzione Retablo
Fanculopensiero – Stanza 501
da un romanzo di Maksim Cristian
drammaturgia Michele Santeramo
regia Simona Gonella
con Ippolito Chiarello
produzione Nasca Teatri di Terra
‘U Ciclopu, Giufà e Firrazzanu
di e con Gaspare Balsamo
Produzione Retablo
Italianesi
di e con Saverio La Ruina
produzione Scena Verticale
Monte di Pietà, Messina, 5-8 ottobre 2017