RENZO FRANCABANDERA | Amleto senza complici di scena. Niente fantasma, niente amico Orazio, niente nemico Claudio, o il sordido Polonio. “T’hanno rimasto solo sti quattro cornuti”, avrebbe detto Vittorio Gassman, come da celebre battuta de I soliti ignoti, quella solitudine di chi pretende di voler raccontare tutto da sé, come se il fantasma non fosse uno ma tutti, come se fosse tutto proiezione della mente di un solipsistico megalomane che cerca se stesso negli altri. E gli altri sono sedie vuote con i nomi scritti dietro, come per la sedia del regista. Ma manca proprio quella sedia, mentre non manca quella con la scritta attore. 

Questo ci offre Michele Sinisi nel suo monologo fedele alla vicenda del celebre personaggio shakespeariano, un solitario ed autoriferito soggetto pronto ad inventare una storia di cui lo spettatore con le sue conoscenze e la sua immaginazione deve completare il percorso. E lui lo dice, recitando le varie parti: “Claudio, che poi sono sempre io…” prendendo di volta in volta parte e corpo dei vari personaggi che si agitano invisibili in cerca non di autore, che sarebbe megalomane, ma l’interprete. Ecco quindi un Amleto in cerca di interprete, nella versione che il regista e attore pugliese ci offre. Un Amleto scomposto, anche se con tutti i crismi di vestiario e addobbo, solo con un vecchio lettore cd, come il pazzo che porta lo spazzolino al guinzaglio pretendendo sia il suo cane della nota barzelletta, che una volta uscito dal positivo colloquio con lo psichiatra ne esce gridando: “Vieni Fuffi, li abbiamo fregati!”

La pazzia di Amleto qui è proprio rappresentata nel suo stadio di autoreferenza. Sinisi oscilla tra persona e personaggio, scatenando le sue ire in dialetto o nella più rigida ortoepia attorale, ma sempre con la modalità sporca che ha caratterizzato il suo percorso finora.

Ne risulta uno spettacolo dove il bianco sul volto, simbolo del fare attore, confligge con una verità di cui si finge di dare evidenza, montando e smontando la quarta parete all’occorrenza. 

La sensazione è di intrigante onestà dell’operazione, una rappresentazione di morti narrative, omaggiate con un fiore incastrato sulla relativa sedia chiusa. È un monologo con un’idea di fondo che è quella di lasciare l’ambigua sensazione che Amleto stia dentro ciascuno, e che questo simpatico folle col suo lettore cd e le battute ossessive e quasi stereotipate sia rappresentazione di un assoluto molto molto umano, senza hybris, senza tracotante pretesa di trovate teatrali rivoluzionarie. È questa una cifra dell’artista Sinisi molto interessante, che il pubblico potrà apprezzare ancora in altre ulteriori date che l’Elfo di Milano gli riserva in una meritata personale, che vuole proprio far conoscere, capire, trasmettere uno specifico dell’artista e del linguaggio nel suo evolvere fra tradizione e modernità, con un canone sempre attento all’accessibilità ma che non manca di sperimentare, più che sulla tecnica sul ruolo del teatro come forma espressiva; alla fine si esce sempre di sala con la folle idea non che quell’Amleto sia io, ma addirittura che quell’Amleto potrei farlo pure io. Ed è il maledetto inganno fascinatorio sul vero e finto a teatro che Sinisi tesse da anni, che racconta dell’amore di voler avvicinare, mantenendo le debite distanze, che però si rivelano solo dopo, quando il mestiere rivela se stesso.

AMLETO
da William Shakespeare
di e con Michele Sinisi
produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale