Longhi.jpgRENZO FRANCABANDERA | Dopo anni di studi e al servizio della regia, Claudio Longhi è da alcuni mesi alla direzione di Emilia Romagna Teatro, una delle più importanti istituzioni italiane nell’ambito dello spettacolo dal vivo. A lungo collaboratore di Luca Ronconi, prima assistente alla regia e in seguito regista assistente, è anche professore ordinario in Discipline dello spettacolo all’Università di Bologna, dove insegna Storia della regia e Istituzioni di regia occupandosi di storia della drammaturgia, della regia e dell’attore. Lo incontriamo in chiusura dell’edizione 2017 del Festival Vie per tracciare un punto sulle linee guida che indirizzeranno la sua politica culturale per ERT nei prossimi anni.

Il festival Vie si è appena concluso. Che cosa era e cosa è ancora questo festival?

Lo spirito con cui è stata costruita la programmazione di questo festival è stata quella di mantenere una continuità dell’impianto progettuale del festival. Vie resta per me una rassegna essenzialmente consacrata all’esplorazione dei linguaggi contemporanei, in una dimensione teatrale che si apre allo sguardo sull’universo performativo in senso lato, nella doppia declinazione del panorama nazionale ed internazionale. Non nascondo che il programma che è stato proposto, nel rispetto della continuità progettuale, ha dovuto confrontarsi con un un certo difetto di economia.

Tutto ha risposto alla tua personale attesa? Che tipo di ragionamenti pretendeva di stimolare il Festival e che ruolo gioca il direttore artistico, da questo punto di vista?

La domanda comporta due livelli di analisi: credo si debba scindere fra una questione di direzione artistica ed una di gusto individuale, che sono due problemi sensibilmente diversi. Credo che una programmazione debba essere il frutto di un sentire individuale, estetico politico ed ideologico; dall’altra parte c’è invece la necessità di intercettare e documentare il nuovo, all’interno del panorama contemporaneo. Per fare un esempio concreto: due proposte hanno segnato l’inizio del festival e hanno dato alcune chiavi di lettura della rassegna nel suo complesso, e alludo a Terzopoulos e c’è Cechov’s play. Uso questa contrapposizione perché è una dicotomia che per certi versi ha attraversato trasversalmente tutto il festival e potrebbe essere esemplificata anche con altri spettacoli. Le due proposte insistono su una stessa tematica e problematica, che potrei riassumere definendola “Lo stato dell’arte della regia oggi”. Le due proposte avevano sguardi molto diverse sul tema: per un verso il fare ironicamente i conti con una certa idea forte di regia, legata al secolo che ci siamo lasciati alle spalle, e che oggi fatica molto ad essere interpretata in quello stesso modo, e dall’altro un ripensamento radicale dello statuto della regia che però non si stacca dal proprio archetipo Novecentesco per Terzopoulos; si tratta di due modalità di interpretare quel problema completamente diverse davanti alle quali scatta poi un’adesione soggettiva più o meno intensa a seconda di come ci si pone. Credo che il festival avesse per così dire l’obbligo oggettivo di testimoniare queste due esigenze diverse rispetto alla stessa tematica, al di là di quanto si possa sentirle più o meno vicine soggettivamente al proprio gusto personale.

E per coloro che non avessero trovato vicinanza a nessuna delle due, ritieni ci sia una possibile terza via di lettura o queste due sono due forme esemplificativi ed estreme, capaci di contenere l’intervallo delle stesse?

Questa coppia mi sembrava esemplificativa perché si prestava nella giornata inaugurale ad esplicitare un certo ragionamento che si cercava di fare. All’interno del festival si sono espresse poi moltissime altre possibilità. Faccio l’esempio di Luciano. Come vogliamo qualificare l’esperienza di Danio Manfredini? Che tipo di creatore abbiamo in quel momento davanti agli occhi: un attore? Un regista? Un drammaturgo? E cosa succede in presenza di una creazione come Giuramenti in cui per un verso ci troviamo davanti a forme quasi iperregistiche nei momenti in cui la creazione è totalmente affidata ad un’elaborazione collettiva, come in questo caso, frutto di una residenza prolungata all’Arboreto di Mondaino e con dinamiche di creazione di gruppo, ma che si innestano poi dentro un tessuto che si rimanda allo sguardo registico molto forte. Insomma non ci sono solo le antitesi che escludono le terze vie.

vie-2017-facebook.jpg In che modo la programmazione di Vie si lega a quella dei teatri nelle loro stagioni?

Personalmente mi sto muovendo in un’ottica di forte coerenza tra la progettazione di VIE e le stagioni. Poi è chiaro che è un festival obbedisce a logiche particolari che lo staccano da quella di una stagione ordinaria, altrimenti non avrebbero nemmeno senso i festival, che presuppongono dei pubblici e delle possibilità di rischio o di apertura che una stagione ordinaria non si può totalmente permettere. Ma questo anzitutto perché la stagione obbedisce ad altre logiche di relazione con lo spettatore. In realtà, poi, lo sguardo che c’è dietro è uno sguardo molto compatto.

Quali sono le questioni di cui hai urgenza di indagine in questa coerenza di intenti?

Sono suggestionato da tre piani di riflessione essenzialmente complementari: uno di politica culturale, che riguarda la funzione del teatro nella nostra società, vista la sua totale assenza nella dinamica sociale, culturale e politica oggi. Poi ce n’è uno sul linguaggio squisitamente teatrale: dove sta andando l’esperienza teatrale oggi? Il tema della regia non è l’unico sottoposto ad una sorta di fibrillazione; lo statuto della drammaturgia, ad esempio, non è il minor discussione rispetto a quello della regia. È ancora attuale la categoria del post drammatico? Potremmo parlare di drammaturgia critica, problematica? E che importanza hanno la dimensione coreutica e quella di teatro di rappresentazione anche rispetto al ripensare la figura e il ruolo dell’attore. Rispetto alla straordinaria eredità del secolo scorso siamo in un post o in un oltre? E infine il terzo livello di tipo tematico: una delle sfide più appassionanti oggi è il modo in cui il teatro si rapporta alla complessità del reale. Il teatro ha ancora la possibilità di aderire ad una realtà che si fa sempre più complessa, che sembra avere una maggior dimestichezza con altri linguaggi, anche se poi torna inevitabilmente a fare i conti con il teatro? Come si può raccontare la complessità del reale a teatro. Questi tre assi di discorso stanno orientando il mio sguardo sulla progettazione sia della stagione di Ert sia del festival Vie, muovendo i diversi gradienti operativi che pertengono al festival e alla stagione rispettivamente.

Che politica culturale intendi avere rispetto al posizionamento che ERT ha avuto negli ultimi anni, con riferimento sia a quello che ERT è stata e sia a quello che vorrà diventare sotto la tua guida

Credo di aver ereditato un piccolo gioiello e di questo credo si debba gratitudine al direttore che mi ha preceduto, che dal mio punto di vista ha fatto un lavoro straordinario come ho già detto in diverse circostanze. Ritengo poi, ovviamente, anche in questo caso rientrino questioni di gusto e affinità rispetto a certe proposte che il mio predecessore ha portato avanti, ma non credo si possa discutere la qualità del lavoro che è stato fatto. Due dati importanti hanno segnato il DNA di questa istituzione in questi anni e sono per un verso lo sguardo sul territorio, anche se è una parola che non amo particolarmente, e dall’altra parte l’attenzione verso l’estero. Il forte radicamento in un tessuto comunitario è il nostro tratto, tanto quanto lo sforzo di aprirsi al dialogo con esperienze teatrali, d’Oltralpe in particolare.

ERT-Logo-Web.png

Che direzione avrà la tua direzione artistica rispetto alla precedente? 

Non c’è ragione di cercare discontinuità forzate dove c’è patrimonio e valore. Poi ognuno di noi ha la sua storia ed è in questi termini che mi piace immaginare il futuro dentro alcune coordinate. Ci interessa sicuramente la relazione con il pubblico non certo inseguendo il botteghino ma ribadendo la sua centralità all’interno della esperienza teatrale, cosa che emerge da più parti nella contemporaneità, come il lavoro nelle comunità o con i non professionisti, che in molti luoghi sta creando nuovi orizzonti. Io stesso, personalmente, vengo da diverse fra queste esperienze, dalle dimensioni partecipative, e questo mi interessa anche con riguardo a come queste esperienze si vanno declinando in altre parti del globo; ci tengo poi al rapporto fra teatro e città, fra teatro e comunità. Sono punti di attenzione riguardo quello che mi piacerebbe fare del teatro nei prossimi anni. Infine ci sono gli sguardi verso altri paesaggi teatrali che oggi come oggi mi sembrano interessanti: aperture verso il mondo ispano americano, come pure verso una certa linea Mittel europea, con tutte le sue sfaccettature anche antitetiche rispetto a quello ispano americano, in quell’equilibrio di cui parliamo dall’inizio fra soggettività dell’esperienza del singolo ed oggettività dei fenomeni più ampi.