LEONARDO DELFANTI e ANGELA FORTI | Quali operatori, quali reti, quali pratiche per un teatro, quello che chiamiamo Sociale, che ancora ha bisogno di dibattito, di definizioni, di trovare un luogo istituzionale nel panorama artistico e performativo della nostra penisola. Il convegno Che lingua parli? che ha abitato l’1 e 2 febbraio i teatri Ferrari di San Marcello e Pergolesi di Jesi ha sollevato, prima di tutto, tante domande.

Sono tanti i mondi che cercano parole, dal teatro ragazzi al teatro così detto  “integrato” che si occupa di disabilità e di reintegrazione sociale. Parole, tante, per chiarire le idee soprattutto a chi il teatro lo studia e lo guarda, già che a livello pratico il lavoro sul territorio prospera e cresce: tante le iniziative sul territorio nazionale, tanti risultati, tante evidenze. Ce ne hanno parlato alcuni tra i più importanti esponenti italiani, creatori e responsabili di alcuni tra quegli ambienti che hanno nelle forme artistiche e performative il proprio baluardo di integrazione e sfida al pregiudizio della disuguaglianza: Asinitas (Cecilia Bartoli, Roma), Factory Compagnia Transadriatica (Francesca D’Ippolito, Lecce), Teatro 19 (Francesca Mainetti, Brescia), MUVet (Gaia Germanà, Bologna), Altriballetti (Aristide Rontini, Imola) e ATGTP (Marina Ortolani e Arianna Baldini, Marche).

È forte la lotta per la differenza, perché, citando lo psicologo Abraham Maslow, “senza diversità la vita implode” e perché, no, non è vero che siamo tutti uguali. Questa è la nostra più grande fortuna. E nemmeno tutti i teatri sono uguali, il teatro non può essere, a nostro avviso, tutto sociale. Per difenderne la specificità, per comprenderla, numerosi esperti e studiosi di diverse aree del sapere teatrale e non solo si sono incontrati a TESPI festival di teatro sociale, per discutere e contaminarsi, per guardare insieme le ipotesi di studio. Curato da Andrea Porcheddu, il convegno ha visto l’intervento degli studiosi  Fabrizio Fiaschini e Massimo Mari, il critico Lorenzo Donati, il regista Simone Guerro (direttore del festival) e l’autore e regista Alessandro Garzella (Animali Celesti).

Tespi Festival - Sedia

Al centro, la grande domanda: di che cosa stiamo parlando? «Che c’entra l’handicap con il teatro? Cosa ci sta a fare un matto accanto a un attore vero?», si legge nel dossier a cura di Animali Celesti. L’oggetto di studio è qui sfaccettato, multidimensionale, si nutre di esperienze molteplici e diversificate nello spazio e nel tempo: la prospettiva storica non è sufficiente a comprenderne la natura. Teatro contaminato, teatro della resistenza, della responsabilità, scuola di maestrie, “teatro che rifiuta la rassegnazione” (Claudio Meldolesi). Tante le definizioni possibili, tanti i tentativi di categorizzare.

“Teatro di molti per molti”. Questa la definizione maggiormente utilizzata, che più è sembrata adatta. Molti siamo noi qui, adesso, molti sono coloro per cui questo teatro è fatto, molti sono quelli che lo praticano, sia dentro che fuori il professionismo.

Tra gli elementi che più risaltano c’è senz’altro la connessione, insita nel nome stesso, che il Teatro Sociale ha con la dimensione collettiva e politica della comunità: il che rende complesso definire i confini con il “teatro e basta”, quello con la T maiuscola. Per la teoria del “qui ed ora”, per la mitologia da cui deriviamo la storia del teatro, qualsiasi tipo di arte performativa dovrebbe saper sviluppare questa componente e porla alla base dell’atto comunicativo. Il dubbio che sorge è che forse sia davvero questo teatro di cui stiamo parlando, l’unico a essere rimasto veramente Sociale. Il che lo identificherebbe non certo come nuovo genere, bensì come residuo del genere teatrale per eccellenza.

Lo psichiatra Massimo Mari parla di come la socializzazione di un’inquietudine – psichica, fisica, sociale – e dei pensieri “difficili da pensare” permetta la “resilienza” di una società sana, la capacità di prendere distanza dal vissuto e di adattarsi al cambiamento. La condivisione del trauma permette di tornare alla ricerca di una coralità in risposta all’individualità, di una dimensione comunitaria in cui il veicolo della rivoluzione diventi quell’”alleanza di corpi” che per Judith Butler è in grado di riappropriarsi di uno spazio.

Da qui, la definizione che Fabrizio Fiaschini dà del teatro sociale come “atto di profanazione”: esso non ha paura di distruggere per rinnovare; profanando la sacralizzazione del sistema delle arti e dei rapporti sociali, contrasta l’indisponibilità di un linguaggio, quello del gesto segreto, quello che parla al futuro, e lo restituisce all’uso di tutti.

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È, qui, l’arte stessa a mettersi a disposizione della società per poterne essere interrogata, costantemente, che condivide il proprio linguaggio di autodeterminazione senza timore di doverlo preservare. Un teatro che evolve continuamente e che in virtù di questo è voce potente della realtà. L’ “estetica più capace di parlare al presente”, così la definisce il critico Lorenzo Donati.

Dov’è il nostro pubblico, quello che serve a rendere un’opera degna dell’atto comunicativo. Ce lo chiediamo spesso noi che il teatro lo guardiamo dall’alto di un palchetto: quando la platea è semivuota, quando è piena ma risponde con freddezza. A nostro parere, non si tratta qui di trascinare il nostro spettatore sul palcoscenico, spogliandolo davanti a tutti e sperando nella sua conversione. È il teatro, l’arte stessa, che oggi deve slegarsi dai luoghi deputati e fluire all’esterno. Invadere con prepotenza il suolo pubblico e lasciarsi a disposizione senza esigere che sia lo spettatore a cercarla. Solo così essa può ribadire e ricordare l’importanza del proprio ruolo civile.

Ci troviamo nell’epoca che è stata definita “dell’individualità”, nell’era del virtuale e della spersonalizzazione. Il digitale ha invaso da anni anche il palcoscenico, aprendo nuove inesplorate dimensioni ma valicando, talvolta, l’atto fondamentale della presenza. In questo senso il teatro sociale sembra porsi in totale controtendenza: è atto comunitario tangibile, si rivolge ai disagi della collettività, sviluppa un contatto presente e potente tra individui.

Non solo presume la presenza concreta e partecipante di chi lo fa, ma chiama con forza un pubblico il più possibile ampio e sensibile, pronto a mettersi in discussione e ad affrontare il non-agio proposto dallo spettacolo. È solo grazie all’intervento attivo del pubblico che il processo di riabilitazione può calcare la scena e nobilitarsi a esito estetico e artistico, là dove, dice Simone Guerro, «dovremmo avere la lucidità mentale di capire che tutto questo è teatro».

La critica odierna sostiene l’importanza della formazione di un pubblico in grado di coltivare la differenza e che si interroghi su quello che Marco De Marinis ha definito “grado zero di non accettazione dell’altro”. Questo accade quando, come sostiene Simone Guerro, l’istanza pedagogica riesce a farsi istanza estetica: gli strumenti del teatro possono allora vestire di nuova stoffa gli elementi biografici, lasciando il corpo libero di mostrarsi e di parlare del proprio passato. Anche in questo senso risulta fondamentale l’utilizzo, da parte di chi lavora nel sociale, di pratiche di stampo professionale a prescindere dall’individuo, così come il carattere di pluralità degli approcci disciplinari.

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Un teatro abusivo, che invade con tutta la violenza del prendersi cura, con un amore pieno di collera. Così l’ha dichiarato Alessandro Garzella (in scena a TESPI con Canto d’amore alla follia). Un teatro che sa farsi sentire ma che deve sforzarsi sempre di rinnovare i propri codici linguistici, di inventare parole nuove.

Il convegno non conclude. Questi incontri non concludono, dice Andrea Porcheddu. Dobbiamo avere la capacità di espanderli, di condurli fuori, sulla piazza della quotidianità. Dobbiamo essere messaggeri, coloro che dicono il tragico, che conoscono la catastrofe e sanno portarla in un territorio nuovo. La necessità è quella di unirsi, di fare rete e disegnare geografie nuove. È l’appello del Premio Ubu Chiara Bersani, che ha aperto il convegno in video chiamata: «Non costruiamo un mondo parallelo. Dobbiamo imporre la nostra presenza». E rendere possibile l’utopia.