ILENA AMBROSIO | Una commedia sulla tragedia di vivere insieme. Il sottotitolo scelto da Il Mulino di Amleto per la rilettura del Misantropo di Molière – ospitato nel cartellone di Officina Teatro San Leucio – dà già qualche anticipazione sull’operazione attuata dalla compagnia torinese sul classico seicentesco. Un tenore leggero e ilare si sposa a una riflessione più che amara sulle dinamiche del vivere sociale; un lavoro capace, in una sostanziale fedeltà alla trama originale, di approfondirne a sfaccettarne le tematiche esistenziali, dando forma a personaggi complessi e proponendo interpretazioni tutt’altro che scontate.
Abbiamo incontrato Marco Lorenzi, regista e autore della compagnia, e con lui abbiamo parlato  degli aspetti fondamentali della sua rilettura ma anche del “modus operandi” de Il Mulino di Amleto.

Tra i tratti caratterizzanti della vostra compagnia c’è un certo modo di abitare la scena e, soprattutto, di farlo in rapporto al pubblico, come a volervi esporre totalmente. Da cosa scaturisce questa propensione?

Sono convinto che sia impossibile, nella pratica attoriale, pensare a una qualche “protezione”. Nel rapporto con il pubblico devi accettare di essere totalmente trasparente e sincero. Anche il tuo sguardo si deve allenare a guardare il pubblico in maniera concreta, a pensarlo non come il nero di una platea, ma come persone reali che partecipano a un rito con te. Il teatro non è ciò che fanno gli attori tra loro sul palco ma si materializza in questo spazio invisibile che c’è tra attori e spettatoti, uno spazio neutro.
Nel Misantropo siamo partiti proprio da questo concetto, per svilupparlo anche in un certo stile di recitazione, che poi abbiamo portato avanti nel Ruy Blas e poi nel Platonov. Sono tutti lavori molto legati a questa ricerca.

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Questi concetti di “esposizione” e “trasparenza” trovano, in Misantropo – ma anche in Platonov con la vetrata mobile –, applicazione scenica con il velino sul fondo che dà su un camerino, dove vediamo prepararsi gli attori in quanto tali ma anche in quanto personaggi. Un ambiente ulteriore a quello della scena dove questi due livelli si sovrappongono. Quale funzione acquista nell’equilibrio drammaturgico?

Non sono espedienti premeditati ma ai quali sono arrivato man mano perché sento molto la necessità di costruire contemporaneità di eventi scenici. Oggi la linearità nella narrazione è qualcosa che annoia, almeno me. Immagino con i ragazzi una fruizione che sia ricca di stimoli cercando contemporaneità di eventi e di livelli. Mi piace che lo spettatore non abbia un unico punto di vista, cioè quello che decidiamo noi, ma che possa scegliere dove e cosa guardare e costruirsi una propria visione dello spettacolo. Alla fine ogni spettatore avrà guardato in punti diversi, visto uno spettacolo diverso. Perde dei dettagli? Non fa nulla.

È quello che accade nella vita.

Ecco, proprio come nella vita. Ed è l’evoluzione necessaria di un teatro che chiede di essere contemporaneo, oltre al fatto che c’è contemporaneità di eventi. In Misantropo accadeva in maniera ancora sperimentale con questa moltiplicazione di piani: quello degli spettatori, quello della scena che è il salotto di Celimene, e poi quello dello spazio retrostante e ambiguo.

Ambiguità che potrebbe essere letta così: abbiamo gli attori che si preparano a essere personaggi e i personaggi si preparano a essere personaggi perché vivono la loro vita da personaggi.

Brava! Esatto, e facendo girare tutto intorno al fatto che è difficilissimo vivere con gli altri ma, allo stesso tempo, non è possibile non farlo perché noi siamo grazie al nostro incontro con l’altro. Questa è una delle maggiori fonti di dolore ma anche ciò che ci rende umani.
Ciò contro cui si scaglia Alceste è che, quando siamo in un contesto sociale – il salotto in questo caso – inevitabilmente indossiamo delle maschere e fingiamo. Il camerino, allora, è anche un po’ metafora di se stesso, il luogo in cui sei prima della tua interpretazione di un ruolo nel salotto.
Questo come regola del gioco, poi a mano a mano che sviluppi lo spettacolo le regole si rompono.

A proposito di rotture. Dal punto di vista testuale il vostro intervento è stato davvero minimo. Avete utilizzato la raffinatissima traduzione in versi di Cesare Garboli – che bene mantiene il legame con il classico – con sporadici inserti contemporanei. Modificando, però, il finale, dove viene a mancare il ricongiungimento che c’è in Molière.

Per il finale abbiamo deciso di ritagliare una scena dallo spettacolo e reinserirla alla fine ma, soprattutto, c’è Alceste che va via. Un personaggio che volontariamente va via dalla scena equivale a una morte: lui si autocondanna a morte. Non riuscendo a sopportare la convivenza con l’altro ha perso. Ma la domanda era: e chi resta? Senza l’Alceste che è in noi perde anche chi resta?

IMG_0133-1024x683Proprio questo punto è cardinale nella rilettura. Alceste è l’estremo del rigore morale, così come Celimene è estremo opposto. Un tale radicalismo di atteggiamento è impraticabile nella realtà. Molto più realistiche sono le figure di Filinto e Eliante. In loro non c’è falsità ma ragionevolezza. Tra l’altro proprio al personaggio di Filinto avete dato un rilievo particolare.

Per me era importante che Filinto si facesse portatore non propriamente di buon senso, non solo almeno, ma di una visione etica e filosofica del mondo che ha a che fare con l’empatia, con la comprensione. Il fondamentalismo è pericoloso, dice lui, tutti sbagliamo…

«Le colpe nella vita sono occasioni per usare la nostra intelligenza, la nostra comprensione», continua.

Sì, io lo trovo bellissimo. È, secondo me, quello che c’è di contemporaneo in Misantropo. In un’epoca di fondamentalismi, sovranismi e muri parlare di questo fa si che Molière sia davvero attuale, e il Misantropo un testo politico.

Lo spettacolo risulta molto equilibrato nel bilanciare il classico e il contemporaneo. Si ha la – positiva – sensazione di non riuscire a capire se sia l’originale a parlare in un contesto attuale o viceversa. A livello scenico, però, ci sono dei momenti abbastanza forti che stridono con questo equilibrio: l’estrema passionalità dei contatti tra Alceste e Celimene; gli eccessivi sfoghi irosi di lui e, soprattutto, il tentativo di stupro ai danni di Eliante. Qual è il fil rouge che li lega al tutto?

IMG_9952Ci tengo a dire che non c’è nulla di premeditato o aprioristico ma tutto è il frutto di un lavoro di gruppo che generalmente nasce  come ragionamento e improvvisazioni intorno a un tema, per poi sviluppare la scena in un modo particolare.
I ragazzi hanno sempre dei compiti da svolgere ma, all’interno di questi compiti, hanno forbici di improvvisazione molto ampie, cosi che accadono cose del tutto diverse da una replica all’altra. Ci sono alcune zone dello spettacolo lasciate totalmente alla pura improvvisazione. Questo per  raggiungere quella qualità di recitazione in cui il rapporto con lo spettatore non è già dato ma da costruire di volta in volta, come parte dell’evento scenico.
Ora nel caso di Misantropo avevamo individuato come tema fondamentale quello dello scandalo. Alceste, proprio come personaggio, tende a creare scandalo sciale. Nel momento in cui c’è un armonia, anche tra attori e spettatori, – come accade nel momento della festa in cui gli attori coinvolgono il pubblico – lui procede per rottura di queste armonie. Se allo spettatore viene facile immedesimarsi con le tesi di Alceste – perché è facile per tutti – nel momento in cui lo vede compiere dei gesti eccessivi…

… allora dobbiamo chiederci: siamo sicuri che sia lui ad avere ragione?

Esatto. Questo è il motivo per cui lo spettacolo è costruito sugli scandali e le rotture che Alceste porta all’armonia collettiva.

Il_Misantropo_immagini_11-1024x684Alceste acquista o, meglio, svela il suo lato oscuro. Un’operazione di “ispessimento” del personaggio che ha riguardato anche Celimene la quale spazia tra temperature emotive estremamente varie: dal civettuolo, al maligno, al passionale, alla disperazione della scena finale. È un personaggio fortemente carico di pathos, ben distante dall’originale.

Sì, è stata una sfida. Come dici tu Barbara ha una tavolozza espressiva talmente vasta che è riuscita a “rendere giustizia” a Celimene. Un personaggio che di solito è una funzione di Alceste, vista come ochetta superficiale, spesso molto seducente. Questo, paradossalmente, rende Alceste più debole perché per mantenere Alceste grande e saldo nelle sue convinzioni c’è bisogno di una donna grande per la quale il suo amore esplode, che giustifichi la sua perdita di controllo. È stata una sfida perché è difficile vedere il personaggio di Celimene così tridimensionale.

Ed è proprio questo arricchimento che poi coinvolge tutto il vostro lavoro. Certamente con  Molière – pensiamo che, per tradizione drammaturgica, i suoi personaggi sono monodimensionali, dei tipi umani  – ma in generale mi pare di individuare un modo di procedere che vi contraddistingue.

La grandezza di Molière sta nella sua capacità di lettura dell’essere umano: è andato talmente a fondo da essere contemporaneo, in una forma che, come tu dicevi, per tradizione drammaturgica, non lo è, ma la sua lettura dell’umano continua a essere attuale.
Il nostro lavoro, allora, vuole proprio arrivare al nucleo di quella lettura dell’essere umano di Molière o di Checov, di tutti i grandi autori che ci troviamo ad affrontare, e, individuato questo, svilupparlo nel nostro linguaggio. Sono convinto che l’essere umano è sempre contemporaneo a se stesso. Nonostante la velocità del progresso scientifico e tecnologico la nostra evoluzione mentale è molto più lenta; ciò che muta sono le forme e sulla forma ci interroghiamo durante le prove. Questo nucleo individuato da Molèire in quale forma possiamo tradurlo, oggi, affinché restituisca quella stessa contemporaneità dell’essere umano che lui aveva individuato e che ancora ci appartiene? È sempre questo il punto di partenza del nostro lavoro.

 

IL MISANTROPO
Una commedia sulla tragedia di vivere insieme

con Fabio Bisogni, Roberta Calia, Yuri D’Agostino, Marco Lorenzi, Federico Manfredi/Angelo Tronca, Barbara Mazzi, Raffaele Musella
regia, traduzione e adattamento Marco Lorenzi
visual concept Eleonora Diana
tecnico di compagnia Giorgio Tedesco
assistente alla regia Yuri D’Agostino
foto di scena Manuela Giusto
consulente ai costumi Valentina Menegatti
distribuzione Valentina Pollani – Codici Sperimentali
organizzazione Annalisa Greco
produzione Il Mulino di Amleto – Tedacà
in collaborazione con La Corte Ospitale – residenze artistiche 16-17