RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | MB: Ilaria Cucchi. Carola Rackete. Sono solamente alcuni dei nomi e delle incarnazioni più recenti che l’icona tragica di Antigone ha assunto nel dibattito pubblico dei nostri giorni. La chiave di identificazione con l’“eroina” dell’omonima tragedia di Sofocle è la loro lotta per la verità, la giustizia e la dignità degli ultimi: i deboli e gli indifesi, i dimenticati e gli offesi da un potere tanto tiranno, quanto disumano. O, meglio, dal Potere, rivelatosi tiranno e disumano in quanto tale, proprio grazie al loro aperto scontro.
Per Massimiliano Civica questa lettura del personaggio sofocleo e, di conseguenza, dell’opera, non ha altro fondamento che il «“sentito dire”», ossia la tradizione interpretativa che si è imposta, almeno, da Hegel in poi, diventando un paradigma, se non addirittura un dogma. La sua Antigone, da lui tradotta, adattata e diretta al Teatro Fabbricone di Prato, è il tentativo di ritagliare un luminoso spazio di rigore all’interpretazione filologica: «la lotta per la ricerca di legittimazione politica tra il partito oligarchico e il partito democratico» che ri-attualizza «lo stesso momento di nascita della democrazia ad Atene: quello in cui un tiranno, sostenuto da una potenza straniera, viene sconfitto e si instaura il regime democratico», come scrive Civica nel denso e ispirato programma di sala dello spettacolo.

Antigone - Massimiliano Civica_ ph. Duccio Burberi (2)
Antigone. Foto Duccio Burberi

RF: Diciamo che anche il teatro stesso nel recente passato ha definito in maniera quasi univoca l’icona di Antigone, anche in ragione di tutto il dibattito incarnato dal suo essere donna. Donna contro il potere, da cui discende tutta la “Motus view”, se mi si passa la sineddoche, con cui si è scelto di attribuire al personaggio (che d’altronde comunque dà il titolo alla tragedia) questo valore di incarnare la verità della morale contro il potere costituito e sordo, sicuramente favorendo una sorta di lettura un po’ univoca. Partire da questa considerazione equivale, di fatto, a comprendere i termini dell’operazione voluta da Civica nel suo approccio al testo, da lui stesso, appunto, tradotto e riadattato, per cercare uno spazio ulteriore su quanto la tragedia ha da dire (e può dire) a chi la interpreta, come a chi fruisce dell’interpretazione. Dal punto di vista stilistico, poi, il segno scenico ci fa subito rientrare in dialogo con la cifra del regista.

MB: L’ambiente è vuoto. Gli unici elementi sono una panca sul fondo, uno sgabello a destra e il fantoccio mutilato di Polinice a sinistra. Gli attori, sempre in scena com’è d’uso per Massimiliano Civica, sono ombre che entrano in campo, nell’agone tra i valori e le decisioni, partendo dai limiti, dai lembi di una notte che preme da ogni lato. Siamo di fronte a una specie di valzer sordo, senza musica, raggelato e raggelante, tenuto in scacco da un morto e dalla (sua) stessa morte.
Quel simulacro di cadavere a terra è il simbolo posticcio di una guerra fratricida: ha la divisa di un nazi-fascista. Il tempo, infatti, è quello della ri-nascita della nostra democrazia dal corpo appeso del fascismo. Il re Creonte adesso è un capo partigiano in scarponi, fazzoletto e stella rossa, la Guardia e il figlio Emone sono partigiani anch’essi, mentre le sorelle Antigone e Ismene, nipoti di Creonte, incarnano due principesse appartenenti alla famiglia reale italiana.
Ecco lo scarto e l’architrave del pensiero di Civica: Polinice non è Stefano Cucchi, né uno dei migranti, la storia dei vincitori l’ha dichiarato colpevole, non la barbarie della cronaca, della politica oppure dell’economia. Il “democratico” Creonte ordina di non seppellirlo per affermare il (suo) nuovo potere costituito, quella “legge scritta” che rompe con le consuetudini della “legge non scritta”. «La rivoluzione non è un pranzo di gala – commentava Mao Zedong – è un atto di violenza». L’“aristocratica” Antigone, dal canto suo, disubbidisce all’ordine, proprio per annullare una tale discontinuità del presente con il passato: a questo punto il suo sarebbe un atto di resistenza politica, prima ancora che di solidarietà umana e familiare.
Si tratta, a tutti gli effetti, di uno stallo. È la conseguenza diretta della natura uguale e contraria di Creonte e di Antigone, la loro “colpa”, ossia la superbia, che li condurrà alla medesima sorte. Per citare ancora Civica: «Hanno tutti e due delle ragioni storiche logiche, comprensibili, “parzialmente” giuste, ma poiché sono arroganti, superbi, impermeabili alle ragioni degli altri, gli Dei li condannano».

Antigone - Massimiliano Civica_ ph. Duccio Burberi
Foto Duccio Burberi

RF: Traduciamola così: in fin dei conti perché dover ammettere la necessità della supremazia morale del gesto di Antigone, rispetto alla necessità, in una comunità, di stabilire uno spazio di regole comuni, unico sistema attraverso il quale può sopravvivere lo spazio della convivenza? Per esasperare l’aporia, Civica mette subito lo spettatore di fronte al dilemma (che peraltro la storia italiana ha conosciuto): e se il Polinice da seppellire fosse un fascista, un repubblichino caduto per la repubblica di Salò e dall’altro lato ci fosse un Creonte “Johnny” capo partigiano, che con la sua brigata ha appena liberato la città di Alba o simile, tu spettatore dal piglio democratico, sei proprio sicuro che stare a sentire le ragioni della figlia superbina dell’ex podestà della città che vuole continuare ad affermare le ragioni del privilegio sociale contro la norma che rende tutti uguali, sia poi tutta questa cosa da difendere strenuamente? L’operazione di Civica restituisce qui tutta la potenza dello sbalzo e della dialettica tragica, senza la quale il testo non sarebbe sopravvissuto per duemila e passa anni. Questa Antigone, figlia di Edipo, non è la solita che arriva vestita co’ du’ straccetti, mezza sporca della terra che è andata a ravanare, per coprire il corpo del fratello.

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Antigone (Monica Piseddu). Disegno Renzo Francabandera

I costumi (belli) di Daniela Salernitano la proiettano in una dimensione altera di eleganza nobile, mentre i partigiani girano per la città con gli anfibi sporchi e parlano romanesco. Lei, in realtà, c’ha pure ‘na ‘nticchia di calata, fa capire con il suo eloquio non ortoepico di appartenere a quel contesto, ma con un rango più alto. Nun s’ammischia, manco pe’ stalli a sentì. Da questo punto di vista il lavoro condotto dal regista, non solo sulla voce (qui inutile dire della solita straordinaria presenza di Monica Demuru nel trasfigurarsi in Tiresia vaticinante), ma anche sulla caratterizzazione sottilissima e potente che il linguaggio, la parlata, conferiscono ai personaggi, è una delle questioni portanti dell’allestimento.

MB: La versione resa configura Antigone, dunque, come la “natura morta” dell’ascolto dell’altro o, altrimenti, dell’irragionevolezza. L’inizio al buio completo, con tanto di «ululato», «grugnito» di animale che strilla di dolore, risponde, per come viene raccontata dalla Guardia, alla finale grotta mortuaria di Antigone ed Emone, qui una sorta di antesignani di Giulietta e Romeo di William Shakespeare. Questo verso può assomigliare, inoltre, a quello della bocca senza più parole di Creonte, costretto da ultimo a governare, nonostante la scia del proprio sangue alle spalle. Sono i momenti più alti e toccanti dell’intera vicenda scenica.

RF: Qui mi viene da aggiungere anche una questione ulteriore di segni, specifica del dialogo dentro il linguaggio teatrale: il rimando, voluto o meno, al Giulio Cesare di  Romeo Castellucci. Si ricorderà che, con altri mezzi e direzioni, anche l’allestimento proposto dal regista della Societas del classico shakespeariano di vent’anni fa e di recente ripreso (a pezzi) si concentrava sulla questione del linguaggio, tanto che a interpretare i temi di oratoria insiti in quell’opera fu scelto un attore tracheotomizzato che parlava, con fatica, quando riusciva, con una voce soffocata, soffocante (nel documento video seguente al minuto 9 circa).
Una visione indimenticabile per chi ha potuto fruirla, che iniziava con un primo piano della laringe ottenuta dall’attore che parlava con una sonda endoscopica fatta entrare in gola attraverso il cavo nasale e che riprendeva le corde vocali nel loro essere stimolate. Il tutto proiettato sul fondo della scena.

Oscar De Summa che con il dito alzato prova a parlare, ma emette suoni soffocati, mi ha ricordato proprio quello, e da quello il secondo corollario di quello (e forse anche di questo) spettacolo, ovvero la grande solitudine che prova chi con le sue scelte deve comunque sancire la supremazia del senso dello Stato rispetto alle pulsioni individuali di cui tutti nella società siamo portatori. In fondo Antigone (e la lettura non è poi chissà quanto forzata) non è solo incarnazione della morale Vs la legge, ma anche dell’interesse particolare contro quello sociale. È parimenti evidente che questa lettura abbia anche una sua pericolosa portata nel poter essere piegata a favore del principe in uno Stato che perda il suo connotato democratico, ma se di democrazia si deve parlare, quel governo del dèmos a cui questo e non solo questo allestimento antigoneo si rivolge, con gli attori che sfondano la quarta parete per rivolgersi al pubblico, se di democrazia dobbiamo parlare, dicevamo, è evidente che l’interesse individuale insito nel rispetto della propria etica e delle proprie credenze non può e non deve piegare il sistema di norme condivise su cui la società, una società, ha fondato la sua convivenza.

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Creonte (Oscar De Summa). Disegno Renzo Francabandera

Antigone diverrebbe all’istante distruttiva di qualsiasi tentativo di mediazione fra le istanze dei singoli e quelle (ben più fragili nel loro stare in equilibrio e degne di tutela) della società. Certo, seppellire un defunto non è come rifiutarsi di pagare le tasse, ma in fondo la forza centrifuga dell’egoismo soggettivo contro il fragile equilibrio dell’affermare l’esistenza di un bene comune è un bel dibattito. E Civica gli restituisce dignità riequilibrando la figura del cattivone, umanizzando Creonte, portatore di suoi sentimenti, che comunque prova emozione per la morte dei suoi due nipoti, una commozione che deve soffocare in nome della ragion di stato. Ecco perché in fondo questo allestimento, che per il resto si gioca in uno spazio oscuro e che induce il pubblico a un religioso silenzio, si fonda sul tema della parola, dell’istanza, e quindi non cerca altri segni scenici.

MB: Siamo d’accordo, è la tragedia di Creonte, più che di Antigone. E quindi, della collettività, ovvero gli spettatori, “tirati per la giacca” dalle ragioni-non ragioni ora dell’uno, ora dell’altra. A mio avviso, però, lo studio e la riflessione drammaturgica non si traducono, dalla carta al palcoscenico, nel mistero avvincente del rito e nella forza riconoscibile dell’esemplarità.
Le frasi sono scandite fino al parossismo, per cercare, forse, di riempire con ogni parola la propria sfuggente presenza. Il risultato è un’artefatta quotidianità vicina a Il caso W. di Claudio Morganti e Rita Frongia oppure a Belve dello stesso Massimiliano Civica e Armando Pirozzi. I caratteri, sembianze di personaggi, parlano tra loro con un distacco forte di una certa noncurante leggerezza, come se i conflitti tra la legge “divina” e la legge “umana”, tra l’individuo e la società, tra la donna e l’uomo, tra i giovani e i vecchi, non fossero altro che un gioco finito male, finito, per l’appunto, “in tragedia”, per usare un’espressione giornalistica.
I temi propri del testo di Sofocle, in definitiva, paiono  ricompresi da Civica nel rapporto fra i vivi e i morti, dove sono i secondi ad aver la meglio sui primi. La risposta all’interrogativo sull’essenza dell’Uomo, sulla coscienza dell’essere fallibili e contraddittori, «un miracolo che fa paura», è il silenzio cadaverico di qualcuno che non c’è più. Magari, chissà, a terra giace il teatro stesso e la possibilità della catarsi. Ciò che possiamo fare, al massimo, è alzare un po’ di polvere, che poi ricade sugli scarponi della Storia.

Antigone - Massimiliano Civica_ ph. Duccio Burberi (4)
Foto Duccio Burberi

RF: In fondo l’operazione che riesce a Civica è quella di sottrarre Antigone alla partigianeria aprioristica sul suo carattere. Da decenni siamo abituati a entrare a teatro e a tifare per le ragioni della “compagna” Antigone, contro il dittatore Creonte e i suoi. E se invece i compagni fossero loro, e Antigone la discendente della casata del governo, la figlia del vecchio podestà, la figlia di Fujimori (per fare un rapido giro di sguardi al mondo attuale), avremmo la stessa sicurezza nel tifare? Questa possibilità che ci viene offerta da Civica è estremamente vivificante delle possibilità della tragedia di continuare a parlarci, di non schiacciarsi su interpretazioni standard e sempre uguali. Un classico è tale perché continua a parlare e a trovare ragioni di sé in ogni modo e da ogni punto lo si guardi.

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Corifeo (Marcello Sambati). Disegno di Renzo Francabandera

Dal punto di vista della critica del linguaggio e della composizione rileva, secondo me, porre in evidenza come quella neutralizzazione emotiva cui tu facevi riferimento prima viene ottenuto ponendo sul piano della comprimarietà i due personaggi principali di De Summa e Monica Piseddu, ma anche alimentando una robusta enfasi sui secondari (ben interpretati da Demuru, Francesco Rotelli e Marcello Sambati) cui viene data una rinnovata dignità espressiva e forza concettuale. Civica mostra, seppur con un piccolo gesto di scena, come Ismene prima della sorella maggiore vada a dare sepoltura a Polinice, togliendo ad Antigone persino la supremazia del gesto contra legem e avvalorando la possibilità che la sorella “meno appariscente” delle due sia in realtà quasi più degna di attenzione.
Lei, sorella minore, condannata dalla letteratura a un destino di quasi oblio; proprio come Menelao, di recente rispolverato in questa veste di sudditanza psicologica e caratteriale a teatro, come emblema dell’inettitudine del fratello minore.
Ma qui Ismene fa, compie il gesto dirompente, e vorrebbe veder riconosciuto questo suo fare, se non fosse che si trova in famiglia una sorella con un carattere del genere… Che alla fine Antigone non sia in realtà la storia del “gomblotto” di Ismene per togliersi di torno la sorella rompiballe? Tu che dici?

MB: L’uomo è «un miracolo che fa paura». Ma pure la donna non scherza.

 

ANTIGONE

di Sofocle
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Oscar De Summa (Creonte), Monica Demuru (Ismene, Tiresia, Euridice), Monica Piseddu (Antigone), Francesco Rotelli (Guardia, Emone), Marcello Sambati (Corifeo)
costumi di Daniela Salernitano
luci di Gianni Staropoli
fantoccio realizzato da Paola Tintinelli
traduzione e adattamento di Massimiliano Civica
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Armunia residenze artistiche e Manifatture Digitali Cinema Prato – Fondazione Sistema Toscana
Prima Assoluta

Teatro Fabbricone, Prato
3 dicembre 2019

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