RENZO FRANCABANDERA e MATTEO BRIGHENTI | MB: L’inspiegabile non si può dire, per definizione. È ingiustificato, quindi è incomprensibile. La sola colpa di Joseph K. è infatti quella di essere Joseph K. Il suo semplice stare in vita è un reato per l’arcana autorità preposta. Sovrasta tutto e tutti: nessuno può sentirsi al sicuro. Neppure a casa, nel proprio letto. È lì che prelevano il protagonista de Il processo, l’incompiuto romanzo postumo di Franz Kafka.
Così, senza parole, rimangono pure Roberto Abbiati e l’intero Circo Kafka messo su da Claudio Morganti in un rivoluzionato Magnolfi Nuovo di Prato. Abbiamo a che fare con una specie di “teatro onomatopeico”, che fa leva sulla capacità di immaginazione e immedesimazione del pubblico. È un canto funebre intimo, fragile e sognante, in cui, prima che capire, bisogna provare a lasciarsi trasportare.

RF: Il primo pensiero che viene in mente prima di entrare in sala è proprio la passione di Morganti per le vicende processuali a teatro che lo hanno portato più volte a raccontare le vicende di Woyzeck (l’ultima, andata in scena sempre qui a Prato poche settimane, l’abbiamo raccontata  a questo link). In quel caso addirittura il regista si era messo nei panni del giudice. Qui si affida a uno dei maggiori artisti della scena italiana, un attore con una pratica artistica art brut fra i più interessanti di questo tempo.
Roberto Abbiati è infatti un creativo capace di esprimersi, oltre che con un incredibile potenziale mimico, anche attraverso il segno grafico, quello scultoreo, quello concettuale, arrivando ad assemblaggi di rara bellezza. Alcuni anni fa fece bene la direzione artistica del Festival Inequilibrio a Castiglioncello a dedicargli una personale che aveva davvero un portato poetico incredibile. E mi piace qui ricordare come nel 2013 il premio per i vincitori del Premio Ubu fu una scultura realizzata appositamente da Roberto Abbiati: al centro dell’opera c’era un “chiodo storto”, ovvero l’amuleto tramandato dalla tradizione scenica, piantato su una cantinella, altro elemento base della quintatura teatrale, incorniciato in una piccola edicola. Carico di vissuto, e del potere invisibile del teatro, il “chiodo” è stato molto apprezzato dai vincitori e dal pubblico, come auspicio di buoni orizzonti in un momento difficile per il nostro teatro. Auspicio che, per evocazione, speriamo di rinnovare in questo momento non facile per le vicissitudini dello spettacolo dal vivo in Italia.
Ma entriamo in questa stanzetta, al centro della quale c’è un catafalco rialzato, dimora umile di un povero cristo, uomo semplice come gli oggetti che lo circondano.

Foto Lucia Baldini

MB: Abbiati comincia in tuta bianca e occhiali da sole. Ricopre per adesso il ruolo di una bizzarra maschera di sala, ferrea nel controllare e imporre agli spettatori di spegnere i cellulari (tutti annuiscono, ma un telefonino squillerà lo stesso). Sono sufficienti l’abbigliamento e la postura a introdurci su questa sorta di scena del crimine, quanto di esperimento di laboratorio.
Tagliata via la tuta, si infila una divisa da poliziotto, accanto a un’altra che riveste invece un manichino. Dunque, il braccio armato di questa legge ingiusta è un fantoccio manovrabile a piacimento. Gli ordini, da queste parti, sono ordini: si eseguono e basta, senza chiedere, né soprattutto chiedersi il perché.
Quando fa irruzione nella camera di Joseph K., questo clown strampalato alla Monsieur Hulot di Jacques Tati scopre in mezzo alla sala, a un palmo di naso dalle file delle poltroncine, una baracca-robivecchi. Un letto mezzo sfatto occupa il centro della scena; intorno ci sono un violoncello per comodino, un gatto nero di peluche, un organetto e un metronomo per terra, una sedia e una ruota di bicicletta; delle lampadine penzolano da un filo.
Pare di sentire lo squittio di alcuni topi: siamo nei bassifondi della povera gente. Chi non si può difendere è spacciato fin dalla nascita. Questo è un fatto.

RF: Questo passaggio fra realtà da guerra batteriologica ante litteram con taglio della tuta per scovare, sotto l’apparenza, il ruolo archetipico a cui questo genere di interpreti di caccia alle streghe rimanda, a me è molto piaciuto. Non è istantaneo pensarci, ma è un po’ come dire: ogni tempo ha i suoi travestimenti per lo stesso genere di individui. Ci si veste diversamente, ma alla fine i ruoli sono gli stessi. Ed è per questo che in realtà questo viaggio attraversa, nelle costruzioni artistico-sceniche immaginate in questo spettacolo, tutto un immaginario di rimandi letterari e teatrali ulteriori rispetto a quelli del testo kafkiano. È per questo che viene da dire che questo lavoro parte dal personaggio Joseph K., ma va anche molto oltre.

Foto Lucia Baldini

MB: Joseph K. non è evocato soltanto da Roberto Abbiati, ma anche da un burattino di legno a grandezza naturale. È assimilabile al poliziotto ricordato prima: per chi comanda un uomo simile è poca e povera cosa. Non oppone resistenza perché non gli viene riconosciuta alcuna volontà, o meglio perché gli viene negata qualsiasi umanità. È un ingranaggio del sistema e nient’altro: quando non serve più, si sostituisce con uno nuovo.
Nella sarabanda trasformista del Circo Kafka Abbiati è perfino il giudice inquisitore, che accorda la sua voce al suono di un pezzo di carta tra i raggi della bici. Dal canto suo, l’imputato chiamato alla sbarra – la testata del letto – si difende come può, soffiando in un’armonica a bocca.
Si tratta di un momento struggente, acuito dalle campane della chiesa vicina, che paiono accompagnarlo, indicandogli, forse, la strada che lo aspetta fuori dalla protezione di questa sala. È una dinamica che può ricordare lo scherno dei processi farsa portato avanti da Morganti, come si diceva sopra, nel recente Il caso W.

RF: Affidato alle doti mimiche di Abbiati, a un dedalo di oggetti di scena tutti realizzati artigianalmente, alla partitura sonora, al bel disegno luci, questa creazione abbina semplicità di comprensione a rimandi a codici e a suggestioni molto profonde per gli appassionati delle arti sceniche e della letteratura: si va dal Malato immaginario al Dostoevskji di Delitto e castigo, dalla macchina scenica agita dall’interno di Kantor (di cui si legge anche qualche rimando finanche involontario a La classe morta) a un insieme sofisticato e molto poetico di citazioni pittorico-artistiche, come la stanza di Van Gogh ad Arles del suo celebre quadro e la sedia sghemba in prospettiva falsata. Piccoli segni di grandissima bellezza.
Si racconta con apparente leggerezza di una tragedia, ma in realtà il tema della banalizzazione del male pervade lo spettacolo: il sicario infligge il colpo finale a quest’uomo diventato nel frattempo burattino (Collodi appare e scompare più volte nello spettacolo) mentre gioca con le palline in equilibrio. Salvo poi fermarsi a chiedere, in un finale sospeso di luci giocate sui complementari blu-arancio, se quel destino non possa poi toccare anche a chi se ne fa veicolo.

Foto Lucia Baldini

MB: È tutto appeso all’alto, al nodo del principio causa-effetto, cioè il «meccanismo» di cui parla per qualche istante con il tecnico di palco Johannes Schlosser (l’autore delle musiche con Morganti stesso), rompendo per pochi sospiri la consegna del silenzio. Una volta attenzionato, devi essere giustiziato. A un certo punto, si mette il cappotto, il cappello, i guanti bianchi, ma non riesce comunque a uscire, viene richiamato indietro: soltanto la fine può liberarlo da ogni male.
La costruzione narrativa è un andirivieni da un incubo artigianale, da teatro di strada. Le cose accadono anche se non lo vogliamo, anche se non lo accettiamo, anche se sono impossibili, come rispondere al telefono con una cornetta che ha il filo staccato. «Qualcuno deve aver calunniato K.» c’era scritto su un foglietto fatto girare all’inizio.
Alla claustrofobia kafkiana si è preferita la leggerezza, la poesia e la stramberia di un attore-musicista ispirato dal suo proprio corpo. E il dolore sta nel non riuscirlo a dire.

RF: Dal mio punto di vista, della mia sensibilità rispetto alla creazione scenica, si tratta di uno degli spettacoli tout public più interessanti di questa stagione. Alla replica a cui ho assistito a Prato, un gruppo di bambini intorno ai dieci anni ha assistito in grande silenzio e con grande attenzione a Circo Kafka, sommergendo, al termine, l’attore di domande, rivelando la profonda comprensione che avevano avuto di tutto.
Il pre-concetto sul pubblico di destinazione è una delle armi più letali che l’arte rischia a volte di infliggere a se stessa. Guidati e accompagnati, tutti sono in grado di leggere segni d’arte complessi. Anche senza parole. Come in questo caso.
Lo rivedrei. Anche più di una volta.

 

CIRCO KAFKA

da Il processo di Franz Kafka
con Roberto Abbiati
e la partecipazione di Johannes Schlosser
regia Claudio Morganti
musiche di Claudio Morganti e Johannes Schlosser
produzione Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa
in collaborazione con Armunia residenze artistiche
Prima Assoluta

23 febbraio 2020
Teatro Magnolfi Nuovo, Prato