ANTONIO CRETELLA | In queste ore convulse in cui l’Europa si trova ad affrontare la diffusione del coronavirus dopo settimane di sottovalutazione, si delineano sostanzialmente due modelli di azione: quello italiano, ripreso da quello cinese, di contenimento, e quello inglese con la pessima uscita di Boris Johnson, modello basato sul rapido raggiungimento dell’immunità di gregge. Il primo pone enormi problemi riguardanti il conflitto tra azione dello Stato per il bene comune e la tutela della libertà personale: fin dove può spingersi l’autorità nella coercizione dei diritti individuali? La Cina non ha questo problema: è una dittatura, per altro in un contesto culturale che già promuove il sacrificio dei vantaggi del singolo a favore della comunità. L’Italia, nonostante i tentativi di eversione che hanno punteggiato la storia recente e il crescente risveglio della “sindrome del balcone” che hanno condotto a storture più o meno vistose del dettato costituzionale, non lo è. Tuttavia sull’adozione di misure restrittive straordinarie aleggia il teorema storico, certamente imperfetto, ma più volte replicatosi, della stabilizzazione di forzature inizialmente momentanee con uno snaturamento in senso patentemente autoritario delle istituzioni, quell’agambeniano “stato di eccezione” ribadito dallo stesso filosofo romano in un recente articolo. Nella terra in cui fino a poche settimane fa si vagheggiava di pieni poteri, il timore per certe storture, al netto delle garanzie costituzionali, non può non affacciarsi alla mente. Ma senza andare troppo oltre, già vi è sul piatto la questione della privacy dei dati sanitari: a distanza di pochi mesi dall’adozione di una regolamentazione stringente sul trattamento dei dati personali, ci ritroviamo a fare i conti con l’ipotesi di tracciamento dei malati che ha consentito alla Cina di abbattere il tasso di contagio. Dall’altro lato c’è il modello inglese, basato su un approccio opposto: favorire un “contagio controllato” basandosi su discutibili previsioni tratte dai dati oggi conosciuti riguardo il comportamento del virus, in modo da costituire in breve tempo una discutibile immunità di gregge ed evitare la reinsorgenza del virus finita la quarantena. Tale modello non prevede la chiusura totale, ma chiusure parziali diluite nel tempo, rendendo l’intervento più sostenibile sotto il profilo economico e usando le situazioni di socialità come veicolo dell’infezione controllata. Effetto collaterale del modello, evidentemente eterodiretto da esigenze di mercato più che di salute pubblica, è, va da sé, l’esplicita e cinica assunzione della necessità di una selezione darwiniana della popolazione: i soggetti a rischio moriranno. Non che nel modello italiano questo rischio manchi, ma si parte almeno teoricamente dall’assunto opposto che tutti vadano tutelati, mentre, come rivelano le parole scioccanti di Johnson, il modello inglese dà per scontata la necessità ineluttabile di vittime sacrificali, in una sorta di senilicidio programmato, al di là di delle non meglio precisare misure di protezione per i soggetti a rischio (di fatto solo accennate nel piano finora presentato). C’è da aggiungere che le storture del modello italiano sarebbero molto meno impattanti se alla base vi fossero stati un senso civico e una cultura della profilassi che avrebbero reso effettive le misure senza necessità di una decretazione d’urgenza; ma confidare sull’autodisciplina dei nostri compatrioti è una sfida persa in partenza.
In conclusione vediamo come in questo momento il Leviatano di hobbesiana memoria stia agendo nei diversi contesti politico-culturali ponendoci di fronte conflitti etici di non facile soluzione.