MATTEO BRIGHENTI | Un porto è un porto: un abbraccio che non finisce. Anche se  le onde sono montagne alte centinaia di metri. Contano il viaggio, la scoperta, la fatica e l’accoglienza. Si arriva, si parte, ma tutti siamo i benvenuti. Stefano Tè lo sa bene, ha condotto il Moby Dick del Teatro dei Venti nelle piazze d’Europa, solcando mari di strade. Per questo, quando parla di Gombola, usa un termine marinaro: approdo. Ossia, là dove la prua si accosta alla proda, alla riva.
La nave, però, adesso non è solo il Pequod filmato dal regista Raffaele Manco. È l’edizione straordinaria di Trasparenze Festival 2020, l’VIII, che ha messo in dialogo la città di Modena con un borgo medievale del suo Appennino, una frazione del Comune di Polinago immersa nella valle del torrente Rossenna. Non è un altro teatro, è proprio un altro mondo. In cima a un’unica via di curve strette e ripide, la salita è ripagata da una conquista grande e profonda come il panorama: la sensazione di essere qui da sempre e che il Prato, la Piazza, la Chiesa, non potessero che diventare palcoscenico.

Una veduta di Gombola

Eppure, non ci siamo mai stati prima del fine settimana 7-9 agosto e nessuno spazio è davvero teatrale. Non uno che sia uno. Se ci sentiamo così accolti, è perché non si può passare a Gombola per caso, non ci si può capitare. Bisogna scegliere di aprirsi all’incontro per accedere a queste pietre arroccate sul sito di un castello risalente all’XI secolo e raccolte intorno alla Chiesa di San Michele. Allora, il teatro non è tanto un luogo di spettacolo, quanto di relazione, di comunità.
Il teatro siamo noi. Siamo noi che vediamo soltanto attraverso gli altri, riflesse negli occhi degli altri, le nostre debolezze, le nostre imperfezioni, le nostre fragilità, e invece che nasconderle, decidiamo di valorizzarle. Trasparenze, infatti, quest’anno ha inteso Agire come oro tra le crepe. Il titolo, attraversato e decifrato in due ricchi momenti assembleari nell’Asineria di Gombola con il consulente artistico Giulio Sonno, rimanda alla pratica giapponese di riparazione degli oggetti chiamata kintsugi, letteralmente riparare con l’oro.

La Piazza di Gombola. Foto Chiara Ferrin

La crepa è mancanza, distacco, qualcosa da cui non si torna più indietro. È il tempo che passa inesorabile e sottrae, saccheggia la vita, alla stregua di un terremoto rallentato. A Gombola l’ultimo, dalla frana nel 1569, è lo spopolamento. L’oro, dal canto suo, è bellezza in quanto promessa di speranza. Restituisce la luce a ciò che non sapeva di poter risplendere ancora, pur avendo la durezza del metallo, alleggerisce e innalza alla sacralità dell’essere unici. Agire come oro tra le crepe significa dunque lavorare per andare a riacciuffare il futuro scivolatoci dietro le spalle, nell’abisso dell’impotenza, e rimetterlo al suo posto di opportunità che il presente ci offre di continuo.
La conoscenza di sé nell’incontro e incanto con l’altro comincia con l’ascoltare chi ci ha preceduto. È dal silenzio che nasce la parola, è accettando il vuoto che si costruisce il pieno. Perciò, forse non è un caso che all’ingresso del paese, che è anche l’uscita, ci sia il cimitero. Ogni giorno ricomincia da dove è finito, i nostri passi rinnovano le impronte degli antichi.

discorso sul Mito. Foto di Chiara Ferrin

Di conseguenza, il mito è lo scrigno inesauribile di storie di questo festival. Una genealogia di uomini e di cieli che Vittorio Continelli con il suo Discorso sul Mito fa viaggio e patria a cui tornare; un contrappunto di amori e furori, assalti e fughe che salgono in alto, come la Pentesilea diretta da Tè, con Francesca Figini e Antonio Santangelo sui trampoli e la batteria live di Igino L. Caselgrandi, ma restano comunque con i piedi per terra. Altrimenti, il racconto è un’astrazione che allontana, invece che un impeto che affonda nella carne.
Si tratta di visoni ancestrali dell’equilibrio tra uomo e natura: una composizione dinamica che conduce alla percezione di una reciproca appartenenza. Testimone di un simile accordo pieno e largo, che scavalca le montagne e arriva a noi, è il concerto polifonico di O Thiasos TeatroNatura Canti del Vivo. Serenate, lamenti e altri canti dell’anima, di e con Camilla Dell’Agnola e Valentina Turrini. Le loro voci, unite al suono della viola, della dulsetta e del tamburo, si fanno un inno alle nostre origini, alla tradizione di antichi modi e polifonie a cappella destinate a cantare lo spazio naturale della libertà.

Pentesilea. Foto di Chiara Ferrin

Questa realtà costituisce una sfida, una domanda aperta per l’arte. A Gombola ogni interprete sembra vivere il proprio ruolo in rapporto a un altro spettacolo cominciato prima del suo arrivo e che continuerà anche dopo, senza di lui. È come se fosse la frase di un periodo interrotto mille volte e mille volte ripreso: la sua responsabilità è calare la maschera pubblicamente e stare al gioco.
Andrea Cosentino con il suo Kotekino Riff – esercizi di rianimazione reloaded addirittura lo rilancia, facendo volteggiare sulle nostre teste l’invenzione sfrenata di numeri da una specie di circo della freddura. Accompagnato per l’occasione da Caselgrandi, un tale giocoliere della battuta pronta, veloce e improvvisa come un fulmine, riesce a scardinare convenzioni e cliché del teatro. Soprattutto, consegna un’inaspettata umanità agli oggetti della nostra vita quotidiana e quindi alle piccole, grandi battaglie che portiamo avanti per non restare solamente a guardare.

Un momento della visita guidata con Pierluigi Candeli. Foto di Chiara Ferrin

Pierluigi Candeli è uno di quelli che non ha mai smesso di combattere per ciò in cui crede: Gombola. La sua visita guidata, piena di fatti e aneddoti, è al pari di sfogliare le pagine di un libro della volontà di conservare, tramandare, far vivere un intero territorio. È tra i primi che ha accolto Stefano Tè e il Teatro dei Venti, e li ha avvisati subito: «Mi fa piacere che veniate e usiate il borgo, ma state attenti: non fate una discoteca come hanno fatto altri».
Trasparenze 2020 ha smosso mari e monti realizzando qualcosa di inimmaginabile probabilmente anche a loro stessi: un paese teatrale delle meraviglie. Il compito, la sfida da vincere, adesso, è non lasciare che sia unicamente una risposta emergenziale alla crisi da Coronavirus, ma l’inizio di un progetto di festival stabile, in estate o in autunno, magari a fianco della consueta edizione di primavera a Modena. Prima di noi, sono i gombolesi come il signor Candeli a chiederlo: «Sono contento per loro e per il paese. Se riescono a tenere movimento è chiaro che saltano fuori diverse occasioni di apertura, in contrasto a questo brutto periodo di “aria bassa”».

La serata finale con gli Zambra Mora. Foto di Chiara Ferrin