ELENA SCOLARI | C’è un bel racconto di Gabriel García Màrquez dal titolo Il mare del tempo perduto (El mar del tiempo perdido) in cui in un paese desolato, abitato da gente povera, un uomo una notte si sveglia e percepisce qualcosa di strano, viene dal mare un fortissimo odore di rose. Anche una donna anziana ha sentito quell’odore ed è convinta che sia un messaggio diretto a lei: la morte le annuncia con un po’ di anticipo che sta per arrivare. Mesi dopo, quando la donna sarà ormai morta, quell’odore diviene fortissimo, adesso lo sentono tutti e il paesino si risveglia, trasformandosi rapidamente nel teatro di un fantasmagorico carnevale. Su tutto e tutti, intanto, aleggia quell’inconfondibile, incantato aroma di rose. La realtà si è tramutata in sogno e la morte, frastornata, si è convertita in vita.

Sergio Blanco non vuole frastornare la morte (né tanto meno noi), vuole anzi rifletterci sopra, vuole definire la morte e definire un possibile perimetro entro il quale analizzarla, osservandola da tante – trenta – prospettive diverse, trenta differenti odori che di morte parlano e che inaliamo con diversi gradi di possibile stordimento.
Blanco introduce la sua “conferenza” spiegandoci che leggerà trenta capitoli distinti, brevi, trenta pensieri intorno alla morte.
Abbiamo l’occasione di vedere il lavoro nell’ambito del sempre interessante e attento programma del FIT Festival Internazionale del teatro che si tiene al LAC di Lugano, per la direzione artistica di Paola Tripoli in collaborazione con Carmelo Rifici.

Il drammaturgo e regista franco-uruguaiano è seduto a una grande scrivania. Recita/legge in spagnolo; sul tavolo un Mac, alcuni fogli, una lampada, un paio di libri, una mela. Dietro, un grande schermo sul quale vengono proiettate – una per capitolo – le fotografie di Matilde Campodonico, immagini i cui soggetti sono a volte il punto di partenza della narrazione: perlopiù ambienti desolati, automobili arrugginite, condomini/alveare in disfacimento, supporti per cartelli lungo l’autostrada senza più cartelli, nessuna persona. Tu chiamale se vuoi nature morte, ma non scomodiamo Edward Hopper.

Il metodo che Blanco dichiara di utilizzare si chiama “autofinzione”, e – se abbiamo capito bene – prevede la scrittura del testo partendo da reali esperienze personali, mescolandole poi a invenzioni quando il racconto “sincero” non è abbastanza forte per descrivere la sensazione dell’esperienza stessa, questo senza che sia avvertibile dove stia il confine tra vero e falso.
Mumble mumble… Ma non è quello che fa il teatro da più di 2.000 anni? Non sempre, certo, ma in tutta franchezza non ci pare una novità degna di essere definita come l’invenzione di un metodo. Non avendolo però studiato approfonditamente ci limitiamo a esprimere un dubbio.
Blanco per altro non evita, nella conferenza, un certo sfoggio di tappe internazionali della sua carriera (certo, per il principio dell’autofinzione non sappiamo se siano vere o no ma scommetteremmo volentieri), che lo situano in una vita cosmopolita, dinamica, ricca, potremmo dire “di successo”. Perché allora presentarsi in tuta e scarpe da ginnastica?

Il testo, o meglio i testi, di Blanco sono comunque, metodo o non metodo, ben scritti, spesso intelligenti e costruiti su pensieri acuti. Per esempio il capitolo dove si cita Amleto e la celebre dicotomia tra essere o non essere declinata nella versione dell’autore in essere E non essere, cioè la vera difficoltà starebbe non nello scegliere tra esistere o no (…se sia più nobile soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine?), ma nell’affrontare la vita secondo la compresenza di entrambi questi stati: vivere essendo ciò che siamo e contemporaneamente sapere anche ciò che non siamo o che non saremo. Vivere dunque ricordando di dover morire e quindi di non essere più, a un certo punto.
Memento mori è un monito, un promemoria non tanto di ciò che è ineluttabile (non risulta che nessuno si sia mai dimenticato di morire, fino a oggi) ma un pungolo a mangiare la vita tenendo sempre ben presente che, prima o poi, la tavola si chiuderà.

L’andamento dei trenta frammenti è ritmato per tutta la durata ed è una scelta a mo’ di catalogo per esplorare ricordi eterogenei, va anche però rimarcato che è più facile sciorinare mini-novelle slegate tra loro rispetto alla costruzione di un più grande racconto con lo sforzo di collegare gli elementi per disegnare un orizzonte di senso.
Della narrazione fanno parte anche alcune musiche, non particolarmente originali (la conferenza/spettacolo si chiude con Take me to church di Hozier a tutto volume) come il coro a bocca chiusa nella Madama Butterfly di Puccini, ascoltato dall’autore a Tokio, quando la sua editrice giapponese lo porta all’Opera e Blanco apprende della morte di un caro amico (un amigo de l’alma) durante l’esecuzione. Molto lirico.

La Celebración de la muerte attraversa anche le descrizioni – talvolta con cenni autobiografici ironici – di alcune morti celebri, dalla cicuta di Socrate a Euripide sbranato da un cane, ma soprattutto Memento mori sollecita un pensiero assai stimolante: Blanco sostiene che l’arte sia l’unico mezzo che abbiamo per sperimentare la morte. Recitandola, rappresentandola, vivendola per finta. E secondo lui è l’arte stessa a essere un atto di necrofilia perché le opere sono morte: quando guardiamo una scultura o il quadro di una marina oppure un ritratto vediamo la cristallizzazione di un momento, di una persona, di un paesaggio fermi, defunti. È più o meno quello che ha voluto dire Platone con il mito della caverna: per quanto l’uomo si sforzi, le sue produzioni artistiche saranno sempre imitazioni che si rifanno all’Idea; nell’idea sta la verità ma il concetto in sé è irrappresentabile e inconoscibile se non attraverso la ricerca filosofica.
C’è del vero in questo, ed è interessante discuterne. Più difficile è far corrispondere quest’opinione alla musica o alla danza, di primo acchito, ma questa sarebbe un’obiezione di ordine per così dire tecnico; quando l’arte risuona, invece, lo fa perché l’osservazione dell’opera muove il cervello e le viscere di chi la guarda, facendolo sorridere, tremare, spaventare, esaltare. L’oggetto è fermo (quando non si tratti di installazioni come i leggerissimi Mobiles di Alexander Calder o i magnifici ingranaggi di Jean Tinguely, per es.) ma quello che scatenano nell’osservatore fermo non è!

Così come ferma non è l’opera teatrale messa in scena, e Memento mori è un’opera in fondo poco teatrale ma decisamente volta a sollecitare l’uditorio. Sergio Blanco ha studiato filologia classica e i suoi pensieri vanno spesso verso le origini, delle parole e delle sensazioni, indissolubilmente legate al sentimento della fine.
Tramutare la morte in vita è ciò che è riuscito a Garcìa Màrquez, profumandola di rosa.

MEMENTO MORI O LA CELEBRACIÓN DE LA MUERTE

testo, regia e performance Sergio Blanco
disegno audiovisuale Philippe Koscheleff
fotografie Matilde Campodónico
produzione e distribuzione Matilde López Espasandín

LAC Lugano – FIT Festival
9 ottobre 2020