GIORGIO FRANCHI | Quattro giorni di lavoro alla settimana. Lavorare meno, lavorare meglio, condensare la produttività riconvertendo i tempi morti in ore dedicate alla famiglia e ai propri interessi.
Una teoria che sta lentamente trovando spazio in aziende da tempo giudicate all’avanguardia nella sperimentazione dei nuovi modelli di lavoro, tra cui Google e Microsoft. Ma se non stupisce che il colosso di Bill Gates si muova in questa direzione, può sorprendere l’approvazione della four day week negli ambienti repubblicani. Già nel 1956 nientemeno che l’allora vice presidente Richard Nixon preannunciava, in un’intervista per il New York Times, un futuro in cui gli americani avrebbero avuto tre giorni di riposo alla settimana. Non è campagna elettorale, poiché si riferisce a un futuro che bene o male coincide con i giorni nostri, ma una considerazione sugli inevitabili primi effetti dell’automazione.

Effetti positivi e negativi, s’intende. Da un lato, gli stadi ormai avanzatissimi dell’automazione (software come AIVA compongono addirittura tracce musicali da zero, indistinguibili dall’opera di un compositore) sfilano davanti a una grande platea di sostenitori. Il modello accelerazionista, filosofia che ha per cardine il libro Inventare il futuro di Nick Srnicek e Alex Williams, identifica nell’automazione l’emancipazione dell’umano, trovando sostegno a destra e a sinistra. Traspare maggior preoccupazione nelle osservazioni di altri filosofi, primo fra tutti il già citato Yuval Noah Harari: cosa ne sarà degli umani, quando buona parte dei cittadini sarà giudicata non indispensabile allo sforzo produttivo del Paese (dove l’ho già sentita questa…)?

Garry Kasparov contro Deep Blue, la sconfitta dell’umano contro le intelligenze artificiali

La risposta più semplice sembrerebbe risiedere nella dedizione all’arte, allo studio. Il Galileo di Brecht, figura con la quale è sempre più difficile non identificarsi, vorrebbe tenere lezione il minimo necessario per consentirgli di dedicarsi agli studi. Non ci vorrebbe molto a una generazione ogni giorno più libera dal giogo del lavoro per far emergere un’era di conoscenza, creatività e bellezza. Chissà cosa ne penserebbero le menti “calviniste” o, per rimanere in ambito artistico, l’eterno studente Trofimov de Il giardino dei ciliegi, ambasciatore della dottrina del lavoro che nobilita l’uomo. Come personaggio, concorderebbe anche lui con l’idea che i teatri sono, effettivamente, inutili o non indispensabili, come afferma il recente decreto? (Ormai l’attenzione degli italiani si è spostata sul lockdown delle aree rosse, ma non scordiamo che questa condanna ci ha messo una settimana in meno ad arrivare).

Che i teatri siano inutili è un’accusa facile da smentire, anche senza tirare in ballo la Grecia di Sofocle. Marco Maria Linzi, direttore artistico del Teatro della Contraddizione, sintetizza in un esauriente servizio di Diego Vincenti per Il Giorno la critica ai tagli subiti da arte e cultura: «Pensate che con poche raccomandazioni civili, si possa, in cinque minuti, rendere cosciente un popolo? Nessuno è mai diventato consapevole per decreto».
Utili, dunque, ma a quanto pare non indispensabili. Tanto che per scongiurare la chiusura si schierano toni più pragmatici, che insistono sui posti di lavoro persi e gli introiti mancati delle sale.

Certo, l’arte è un lavoro. Non considerarla tale è sbagliato e pericoloso. E un lavoratore che non arriva a fine mese è una tragedia, di fronte alla quale varrebbe la pena di accantonare la retorica sull’importanza sociale di questo o quello. Ma la condanna di non indispensabilità non può fondarsi sull’utopia di una crescita economica ininterrotta. Constatazione ovvia e necessaria, la settimana di quattro ore, come l’Hoverboard di Ritorno al Futuro previsto per il 2015, non è arrivata. Anzi, l’emblema di questa epoca è Amazon, la cui giornata lavorativa è probabilmente più vicina alle 40 ore che alle 4. Sembra di essere tornati alla rivoluzione industriale dei racconti dickensiani, un dietrofront di un secolo e mezzo che sa di carbone, sudore e cieli grigi.

2015. Stiamo ancora aspettando.

Inutile incolpare la pandemia, che altro non ha fatto che accelerare, a livello sociale, strade già intraprese da decenni. Il sogno di un secondo umanesimo si è infranto quando abbiamo iniziato a considerare, con un distinguo fatto solo su base economica, l’utile come dispensabile e l’inutile come indispensabile. Non dimentichiamo che il 90% di ciò che vende Amazon è roba di cui potremmo fare a meno, o che viviamo in un’epoca in cui influencer e tiktoker sono i nuovi messia. Ma, come dire, sossoldi.

Una vecchia storiella, in questi giorni, mi sembra più attuale che mai:
– Dottore, ma se smetto di bere, fumare e drogarmi, potrò vivere cent’anni?
– Certo, ma che vive a fare?
A patto, ovviamente, di sostituire il ‘vivere’ con il ‘guadagnare’, e così il bere et cetera. Ma ancora più attuale, e tragica, mi suona la chiusura alternativa:
– No, ma la vita sembrerà molto più lunga.