Un invito a non sprecare un tempo finito
di Carla Cerrai

Il Nullafacente, drammaturgia di Michele Santeramo, prodotto dal Teatro Era nel 2017 con la regia di Roberto Bacci, è un’opera poetica, intima e molto emozionante, che coinvolge in una riflessione sull’unicità e sul valore del tempo vissuto. È un invito ad agire con la consapevolezza di quali siano le istanze più profonde del nostro essere senza lasciarci travolgere dagli altri in un turbine deviante dai nostri bisogni più intimi.

Lo spettacolo mette in scena lo scontro tra una coppia che ha fatto del «cosa non fare per stare bene» la propria scelta di vita, e altri personaggi a essa correlati: il proprietario, il fratello e il medico. L’evento scatenante è la malattia incurabile della moglie, che costringe i primi a rivedere la propria filosofia di vita e che induce i secondi a ingerenze sempre più pressanti, il tutto nell’ottica del raggiungimento della felicità.

La dinamica dentro/fuori è mirabilmente realizzata, sul piano visivo, dalla divisione dello spazio scenico in due zone attraverso il gioco di chiaroscuro delle luci.

La parte in primo piano, posta sulla linea di proscenio e ben illuminata, è riservata a tre soggetti portatori di frenetica e stereotipata normalità, rappresentativi del mondo esterno,  compreso il pubblico in sala. Lo spettatore è agevolato nel rispecchiamento dai seguenti fattori: l’assenza di nomi propri che li individua come tipi sociali simbolo del denaro, della famiglia e della scienza con il loro potere potestativo ed imbrigliante; lo spazio occupato sulla scena, in primo piano sulla linea di proscenio, in piena luce, in modo da conferire alle loro istanze apparente supremazia valoriale; la posizione seduta di spalle alla platea che hanno all’inizio, che li delinea come soggetti che assistono a qualcosa che non comprendono e che tentano in tutti i modi di ricondurre nell’alveo del socialmente accettabile.

La parte più interna, abitata dalla coppia, è invece posta in penombra a significare il disvalore, attribuito dal mondo normale, alle sue scelte esistenziali. Lo spazio è popolato da pochi oggetti: un tavolo che alla fine diventa letto di morte e metaforico altare, una candela, simbolo dello scorrere inesorabile del tempo e dell’esaurirsi della vita della moglie; una poltrona, emblema dell’inazione, ma anche del pensiero; un bonsai – correlativo oggettivo del protagonista – che vegeta rigoglioso, in un ambiente privo di mezzi ma pieno delle cure amorevoli del Nullafacente. Quando il protagonista accetta il ritorno a una vita normale, frenetica, che gli procura soldi e mezzi, ma gli taglia via la cosa più importante – il tempo breve da trascorrere con la moglie – il bonsai si scheletrisce – metafora di un inaridimento dell’esistenza nell’opulenza delle cose.

In questo ambiente i toni di voce sono bassi e i gesti rallentati. Il lessico apparentemente cinico è invece stressato sull’ironia, al fine di rendere sopportabile un dolore che strazia. La paura per la perdita della vita, per lei, e della amatissima compagna, per lui, porta entrambi a ritornare alla “normalità”, rispettivamente, le cure mediche – inefficaci – e un lavoro vissuto con rabbia, che fagocita il tempo e inaridisce l’anima.

In un finale, drammatico e poetico al tempo stesso, si assiste a un ribaltamento nella scala dei valori esistenziali, realizzato visivamente attraverso una inversione di prospettiva nello spazio scenico. Viene posto in primo piano il tavolo – simbolo di comunanza di vita e di scelte della coppia, ma anche di valori più autentici. Il tavolo diventa luogo dove si consuma una festa di compleanno forzata dalla consuetudine. Il rovesciamento a terra della torta, sancisce sia la l’imminenza del fine vita, sia la rottura con gli schemi della normalità e il conseguente ritorno alle origini come unica via salvifica per affrontare il presente.

L’epilogo del dramma si consuma sul tavolo, raggiunto con movimenti faticosi e lenti, gesti espressivi della spossatezza fisica, ma anche sintomatici, nel loro languore, del desiderio di  prolungare gli istanti che separano dalla morte, per ricevere l’ultima carezza dell’amato.