La filologia dell’orfanello
di Davide Niccolini

Bambini e anziani sonocreature quasi magiche: i primi rivolgono gli occhi sognanti al futuro, i secondi al passato. Necessitano entrambi di cure e di attenzioni: il bimbo deve imparare a parlare, a camminare e a portare pazienza, il vecchio dimentica ciò che dice, cammina malamente e vuole tutto e subito. 

Non deve stupire dunque se il protagonista de La mamma sta tornando, povero orfanello sia interpretato dall’attore Dario Marconcini, che veste il pigiama cilestrino di un orfanello ormai senile. È un bambino che non desidera altro che passare una domenica di quelle “buone” insieme alla mamma e al papà:  il lavoro portato in scena da Giovanna Daddi e dallo stesso Marconcini che ne cura anche la regia (per la produzione del Teatro di Buti) è frutto della drammaturgia  firmata  dal francese Jean Claude Grumberg. L’autore compone il testo attingendo alla propria biografia di ebreo perseguitato: suo padre (sarto di professione) è infatti morto in un campo di sterminio durante la Shoah. L’opera, tradotta in italiano da Giacoma Limentani, prende avvio dal racconto privato e personale di una famiglia, che assurge  da sineddoche di tutte quelle famiglie disgregate a causa del nazifascismo. 

Con gli occhi languidi e acquosi di Marconcini, prende forma in scena un orfanello – anziano, un Benjamin Button che ripercorre la propria vita attraverso tre periodi: l’età fanciullesca, quella adulta di scrittore  e la vecchiaia. Tre fasi il cui alternarsi è denunciato dal diverso approccio recitativo, ora piccoso e stupefatto, ora cocciuto e severo e infine riflessivo e stanco. L’attore indossa sempre il medesimo pigiama, che ricorda quello dei deportati ma anche quello dei pazienti, e che rimane, per l’intera messinscena, un simbolo universale dei piccoli, di tutti coloro che si alzano la domenica mattina emozionati per la giornata di festa. Quel bambino è tutti i bambini del mondo e quel palco diventa tutte le case del pianeta.

Il figlio vuole mangiare pollo arrosto con patate e andare al cinema a vedere film di cowboy. La madre, Giovanna Daddi, è una Madonna terrena vestita di chiaro e posizionata in alto rispetto al livello del palco, illuminata da una luce bianca e quasi divina: siede frontalmente su un dondolo, ricordando una Maria di Nazareth dei quadri gotici. Cresce insieme al figlio, in un excursus attoriale che tende ad “aprirsi” (come rivela la stessa Daddi) lasciando emergere  varie suggestioni: all’inizio è una madre – Psycho, dopodichè una Madre coraggio e – dulcis in fundo – un personaggio beckettiano: ora severa e perentoria, ora dolce e placida. Tiene ai piedi un bambolotto che rappresenta il figlio: lo adagia sulle sue gambe, ci gioca, lo carezza, lo rifiuta e poi lo getta via. Così come molti anziani fanno, anch’ella intesse un dialogo con questo oggetto che le è così caro: un’ancora incagliata nel centro della propria anima senile. 

Il testo, gentilmente proposto alla coppia Daddi – Marconcini da Stefano Geraci, dramaturg dell’opera, miscela diversi piani temporali e spaziali, passando dall’abitazione della madre e del figlio, all’ospedale presso cui il bambino deve subire un’operazione, fino a raggiungere la casa di cura. La scenografia si compone di un pavimento a scacchiera bianco e nero, labirintico ( così come il procedere delle scene nella mente annebbiata e offuscata dell’orfanello). Poi una panchina, dove il protagonista attende e siede per dialogare con gli sconosciuti: è proprio qui che il bambino parla con varie personalità che si succedono e che prendono vita grazia all’ottimo Emanuele Carucci Viterbi, che con leggeri cambi d’abito interpreta prima un “dio personale” e sui generis, dopodiché un anestesista crudele, dopo il direttore della casa di riposo della madre e infine il padre, perso, fragile e confuso. 

Nel dialogo finale, il genitore chiede al figlio se il mondo si sia o meno emancipato dalle barbarie e dalle persecuzioni, se gli uomini abbiano cioè cessato di essere “lupi” gli uni per gli altri. Il figlio gli risponde che ormai è tutto diverso. E così deve continuare ad essere, per legittimare il sacrificio delle generazioni passate in vista di un futuro più prospero. Il bambino ormai non può che cavarsela da solo: del resto ha più di sessant’anni ed è forse ora di far ripartire la propria esistenza, messa da tempo in stand-by. Un finale secco e asciutto ma ricco di drammaticità, una vita affaticata dalla paura della solitudine e dal senso del vuoto lasciato dai genitori: “Eravamo sposati”, risponde arrendevole Daddi alle continue e petulanti richieste del bambino che la interroga circa la sua relazione con il babbo. Domande che, nella loro insistenza, vanno a creare una cantilena che si somma alla più ampia cornice musicale dello spettacolo: è Viviana Marino, infatti, in veste di moderno rapsodo dalla voce cristallina, a intonare ballate francesi ed ebraiche. Il ripetersi continuo poi, nell’eloquio del bambino, delle parole “mamma” e “babbo” diventa un leitmotiv cadenzato e ossessivo, una ricerca spasmodica dei fantasmi del proprio passato: è la filologia di un orfanello in cerca di amore.