LAURA BEVIONE | In attesa dell’annunciata prossima riapertura dei teatri – oggigiorno più wishful thinking che prospettiva concreta – la vostra cronista teatrale ha approfittato della sua appartenenza a una vera e propria setta di privilegiati cui è concesso ancora di assistere a uno spettacolo dal vivo e si è recata alle Fonderie Limone per seguire una filata de Le sedie, una nuova produzione del Teatro Stabile di Torino, con la regia del suo consulente artistico Valerio Binasco e l’interpretazione di Michele Di Mauro e Federica Fracassi.

Una “farsa tragica”, quella scritta nel 1952 da Eugène Ionesco, in cui l’insensatezza senza possibile catarsi dell’esistenza quotidiana è raccontata ricorrendo, nell’impossibilità della tragedia riconosciuta da Adorno, al grottesco e al comico. Una strada percorsa da Beckett e, appunto, da Ionesco, principali esponenti di quella variegata categoria di testi definita nel fondamentale e omonimo volume di Martin Esslin “teatro dell’assurdo”.

Una classificazione che, inevitabilmente, ha condizionato negli anni la messinscena dei drammi degli autori raggruppati sotto quella etichetta – anche Adamov, Pinter… – sclerotizzandone linguaggio e senso tanto da spingere alcuni a tacciare di anacronismo e inattualità testi in verità ricchi di potenzialità – di espressività e di significato – da indagare e da mettere in luce, magari abdicando alla filologia e non censurandosi nell’operare qualche piccolo taglio e/o variazione.

Michele Di Mauro, Federica Fracassi ©Foto Luigi De Palma

Una via, quest’ultima, che non ha avuto timore di esplorare Valerio Binasco nella sua lettura de Le sedie, ponendo in secondo piano l’aspetto “politico” del testo, vale a dire la sua denuncia dell’”assurdità” del potere e dell’inanità tanto dei suoi massimi rappresentanti – l’imperatore, evocato nell’ultimo atto – quanto dei suoi comunicatori “professionisti” – l’oratore, che compare nella parte finale del dramma, concludendolo con qualche suono biascicato e privo di significato; a favore, invece, del ritratto della coppia dei protagonisti.

Il Vecchio – “maresciallo d’alloggio” – e la Vecchia – la sua compagna Semiramide – sono sposati da una vita, forse da cento anni, e trascinano stancamente la propria esistenza in un’abitazione isolata, affacciata sul mare. Uno spazio che l’ispirato scenografo Nicolas Bovey ha immaginato come la sezione prospettica di un’ampia stanza, il pavimento ricoperto di macerie e le pareti scrostate; su un lato una vera e propria “montagna” di sedie accatastate l’una sull’altra, dalle fogge più diverse ma tutte polverose ed evidentemente molto utilizzate; sul fondo, da un lato, una finestra che rivela un cielo plumbeo.

Un luogo reale eppure evidentemente metaforico, così come allo stesso tempo carnalmente reali eppure dichiaratamente simbolici sono appunto i due protagonisti, cui Federica Fracassi e Michele Di Mauro donano un’eclettica gamma di umori e sentimenti, movimenti e posture. I volti pesantemente truccati e le parrucche esagerate così da trasformarli in clown malinconici, i due si muovono lentamente, sospesi in un tempo che appare immobile, paradossalmente, da un’eternità.

Seduti su due sedie affiancate, oppure in proscenio, fingendo di osservare il paesaggio esterno da invisibili finestre, il Vecchio e la Vecchia rievocano il proprio passato: lui si sarebbe meritato di più, visti i suoi talenti; lei lo ha amato come moglie e come madre, pur non potendo sostituirsi alla vera genitrice di lui; forse hanno avuto un figlio che, tuttavia, li ha abbandonati… I dettagli della loro esistenza passata non sono importanti e dunque è del tutto inutile sottolinearne incoerenze e lacune: ciò che davvero conta è il legame infrangibile che unisce i due, un sentimento solido e resistente sulla cui esplorazione Binasco concentra la propria regia.

Un amore pluridecennale che sopravvive agli acciacchi della vecchiaia e che quotidianamente si rinnova: il muto e impacciato amplesso fra i due, appassionatamente abbracciati sulle sedie, è uno dei momenti più poeticamente struggenti dello spettacolo ed esplicita quanto ciò che davvero interessa alla regia sia il miracolo di una relazione ancora viva dopo tanti anni.

I due sembrerebbero bastare a loro stessi eppure soffrono per il loro isolamento rispetto a un mondo che forse non esiste più – a tratti suoni inquietanti provengono dall’esterno e poi c’è quel cielo ognora tenebrosamente oscuro. Ecco, allora, che la coppia organizza una conferenza, durante la quale un “oratore professionista” avrà l’incarico di rivelare quel programma che, ideato dal Vecchio, dovrà finalmente modificare in senso positivo lo stato delle cose.

Nella seconda parte il ritmo dello spettacolo repentinamente accelera: arrivano l’uno dopo l’altro gli invitati – rigorosamente invisibili, proiezioni della mente dei due protagonisti – ed è necessario sistemare per bene le sedie prima disordinatamente accatastate. Il dialogo si svolge ora su piani distinti: i due protagonisti parlano fra loro, scambiandosi istruzioni sul da farsi, e, allo stesso tempo, rivolgono battute ai loro ospiti-fantasma, fra i quali “la bella” – il primo amore di lui – e il “colonnello”, ma anche il “fotografo”, per il quale Semiramide si mette – imbarazzata e lusingata allo stesso tempo – in posa.

 

L’arrivo dell’oratore – una luce abbagliante che percorre il palco e poi la platea – è anticipato da una surreale telefonata da parte dell’imperatore, ansioso di dichiarare il proprio apprezzamento per l’iniziativa del Vecchio…

Si tratta di eventi, questi ultimi, che concorrono a sottolineare ulteriormente la solitudine della coppia di protagonisti, forse stanchi di un’autosufficienza che tuttavia non li esonera né dai rimpianti e dalla nostalgia per un passato di solare benessere, né – e soprattutto – dalla paura della morte. Ecco, allora, che soltanto dopo essersi circondati di ospiti invisibili e avere ottenuto l’approvazione di entità “supreme” – e altrettanto ectoplasmatiche – quali l’imperatore e l’oratore, il Vecchio e la Vecchia saranno pronti per affrontare il loro ultimo viaggio insieme e, sorridenti e finalmente pacificati, sceglieranno di tuffarsi in quel nulla che risiede aldilà dell’ampia finestra sul fondo del palco.

Un finale – la coppia di schiena, due silhouette in penombra, ormai senza età né corporea consistenza – che suggella una messinscena poetica e introspettiva, che sa andare oltre la superficie “assurda” del testo, rivelando meritoriamente quanto il grottesco ritratto della società occidentale dipinto settant’anni fa da Ionesco poggiasse in verità su una intima e complice consapevolezza della fragilità umana.

 

LE SEDIE

di Eugène Ionesco
traduzione Gian Renzo Morteo
regia Valerio Binasco
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
musiche Paolo Spaccamonti
assistente regia Giordana Faggiano
assistente scene Nathalie Deana
con Michele Di Mauro, Federica Fracassi
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Fonderie Limone, Moncalieri (Torino), 18 aprile 2021