ELENA SCOLARI | “ll paradiso è una specie di futuro, un presente avanzato in cui si sono avverate tutte le profezie sul clima e sulla tecnologia. La scienza ci regala frontiere verso l’immortalità e diventa un dio regolato da algoritmi che controllano tutto”. Così Fabrizio Arcuri nelle note di regia descrive la terza parte del Trittico Dantesco ispirato alla Divina Commedia del sommo poeta, prodotto da Teatro Stabile del Veneto.
Detto così non sembra tanto paradisiaco, il luogo bianco e inondato di luce in cui ci immaginiamo di fluttuare leggiadri nella pace dell’anima, liberati dal peso e dagli acciacchi corporei. “Il corpo è l’inferno da cui siamo fuggiti” dicono gli abitanti, “qui c’è una vita totale”, i corpi vengono corretti dei loro difetti terreni, si rinnovano, di cellula in cellula “come in un parlamento”.
In questo paradiso ci sono un sacco di cose, anche un po’ alla rinfusa come da un rigattiere del cielo: una ruota di Duchamp (è finito in paradiso, dunque?), la testa della Statua della Libertà, un Mac, una colonna, un aspirapolvere, una maschera da guerriero, un grammofono, un calco di zampe di T-rex… tutto su scaffali metallici, oggetti catalogati da un mondo che si ricorda ma in maniera confusa.
C’è un’aria ospedaliera, gente che circola con la flebo, lettini, la sensazione è niente affatto celestiale.

ph. Serena Pea

Dante (Alberto Vecchiato) ha il suo bravo mantello, Beatrice (Imma Quinterno) ha una tuta argentata dall’aspetto spaziale. Lui rimane costantemente attonito, non si abitua alla situazione, lei è invece sicura, domina il contesto e il poeta, gli parla fascinosa con voce rallentata e grave, sta proprio su un altro piano. Tanto da far risultare più bizzarra che classica la loro storia d’amore, Dante non riesce a capire la natura del sempre che ci siamo promessi e tenta maldestri e tradizionali approcci.
Ci sono poi due musicisti (Giulio Ragno Favero e Marcello Batelli) che suonano da sopra un soppalco, in secondo piano, e accompagnano il viaggio con atmosfere astrali.

Lungo il soggiorno incontriamo anche un clown felliniano, un astronauta simpatico e saggio (Riccardo Cardelli), un portiere d’albergo vestito di rosa (Andrea Sadocco) come in Grand Budapest Hotel che inaspettatamente canterà Fly me to the moon e altri personaggi non sempre leggibili che ci informano però che “l’acqua ha vinto”: dall’alto i paradisiani vedono Venezia e Parigi diventate paludi, qui invece c’è un’intelligenza che governa tramite un’armonia di algoritmi musicali.
Tutte le persone che vediamo sono un’idea, formano un unico pensiero condiviso. Questo è detto ma l’impressione che si ha è piuttosto di una pluralità di individui, eterogenei, che difficilmente possono davvero creare un ideale corpo unico. Potrebbe essere un retaggio delle caratteristiche umane, non cancellabili del tutto?
Fabrizio Sinisi forse vuole dirci che non ci possiamo/dobbiamo liberare dei nostri spettri, lo pensiamo di fronte alla pseudo-invettiva di un giovane, che finirà accasciato con un estintore a fianco: stiamo parlando del G8 del 2001 e di Carlo Giuliani?
In questo lungo (2h40) susseguirsi di scene, volutamente slegate, ci troviamo davanti al filosofo ed economista scozzese Adam Smith (Michele Guidi) che spiega le leggi del profitto e del sovrappiù a uno stranito Pellizza Da Volpedo, che ha disegnato Il quarto Stato alla lavagna; arriva la regina d’Inghilterra, rozzamente scontenta della sua posizione tanto reale quanto scomoda; si passa per l’hip hop e per le Torri Gemelle arrivando ad Adamo ed Eva.

ph. Serena Pea

Per entrare in paradiso dobbiamo lasciare sogni e desideri. E per non rimanere troppo smarriti ci rivolgiamo al nostro Virgilio, il regista Fabrizio Arcuri, al quale abbiamo chiesto di raccontarci la genesi di questo lavoro.

Come nasce il Trittico Dantesco?

L’idea nasce da una proposta dell’ex direttore Massimo Ongaro, che voleva produrre un progetto articolato. Un nuova produzione della Compagnia dei giovani dell’Accademia del teatro veneto che ogni due anni diploma chi ha concluso il percorso, gli attori sono selezionati dal regista chiamato.

(Citiamo tutti gli interpreti, ognuno con una sua cifra particolare, con stili recitativi ben distinti: Emma Abdelkerim, Elena Antonello, Riccardo Cardelli, Federica Fresco, Michele Guidi, Imma Quinterno, Tommaso Russi, Andrea Sadocco, Elisa Scatigno, Alberto Vecchiato, n.d.r.)

Inizialmente Ongaro pensava a una riscrittura di un testo classico ma questo non è la mia cifra, io lavoro con la drammaturgia contemporanea e penso che rintracciare all’interno dei testi classici le cose che ci somigliano sia un’operazione di merletto teatrale, non trovo interessante la riattualizzazione di certi temi, è secondo me un’operazione legata a un periodo specifico del teatro, al teatro di regia del ‘900 quando il regista teneva le redini, soppiantando capocomico e drammaturgo, e inventando così il repertorio. Così ho proposto di prendere qualcosa di super popolare, come la Bibbia o la Divina Commedia, e ho pensato di chiamare tre drammaturghi per fargli scrivere un testo originale che dall’opera scelta prendesse spunto. Abbiamo preso temi che hanno come paesaggio la Divina Commedia, facendone tre spettacoli.

Come hai scelto i tre drammaturghi?

Ho scelto Fausto Paravidino per la sua scrittura e per il suo rapporto con il teatro: per come maneggia alto e basso e gestisce il popolare, il volgare e il tragico poteva ravanare bene nell’Inferno che è la cantica più comica e grottesca. Letizia Russo è invece più interiore, più sospesa, ha una scrittura intima e travagliata, adatta per il Purgatorio. Fabrizio Sinisi mi è sembrato giusto per il Paradiso perché scrive in endecasillabi e nel suo lavoro ha forzato la forma della commedia; i suoi testi non sono ascrivibili a un genere e a un andamento lineare, è il più sperimentale. E il Paradiso è la più sperimentale e metaforica delle tre cantiche, quella in cui Dante elabora in maniera articolata il suo modo di immaginare la nuova poesia, ci sono i concetti più filosofici, gira senza arrivare al dunque: Dante chiede molto a Beatrice, lei parla molto ma in fondo non risponde a niente.

Avete adottato un metodo speciale di lavoro?

Abbiamo fatto riunioni a quattro chiedendoci come tenere in mente la Commedia nelle tre scritture. A partire da cosa? Abbiamo analizzato la struttura dell’opera: è fondamentale la convenzione forte della religione, Dante ha costruito un immaginario. La Divina Commedia è l’opera più importante della cultura del 1300 scritta nel momento dell’apice, prima di una pandemia e di una decadenza che ha portato poi al Rinascimento. Ci sono quindi similitudini oggettive con l’oggi: anche noi siamo all’apice della cultura capitalistica occidentale e forse prima di un decadimento, e c’è una pandemia in corso. La Commedia fu per Dante un mezzo per parlare della politica e della società, quindi anche per noi doveva esserlo. La nostra convenzione è l’economia e non la religione, e questo è il contesto in cui ci  muoviamo.

Quindi il fulcro centrale è l’economia?

L’economia legata al concetto di desiderio. Qual è il rapporto con il desiderio in un’epoca economica, il desiderio riesce a essere una forma politica?

E qual è l’impronta registica che hai voluto dare?

Sono tre regie diverse per tre materiali diversi, non aveva senso livellare. Ho tenuto in considerazione l’idea del tempo: nell’Inferno il ritmo è crescente e sovrabbondante e non si ha la sensazione del tempo che passa, e non ti devi accorgere delle due ore di spettacolo. Il ritmo incombe, si affastella e moltissimi fatti si susseguono, si perde il senso dello scorrere. Il Paradiso invece è un continente sconfinato, lo abbiamo rappresentato in maniera sfinita (non infinita), lo spettatore ha la sensazione di entrare in un mood, come se stesse su un tapis roulant. Si deve perdere la cognizione del tempo e rimanere disorientati. Mentre il Purgatorio sembra infinito, lì il tempo lo devi sentire, c’è una sospensione che avverti fisicamente.

ph. Serena Pea

Come avete pensato le scenografie?

Abbiamo lavorato gomito a gomito con scenografo e costumista, la scena è drammaturgia. Abbiamo lavorato sullo spazio. L’Inferno è nero in uno spazio claustrofobico, c’è una sovrabbondanza di segni che incombe sul pubblico; nel Purgatorio c’è solo un’automobile; il Paradiso lavora su uno spazio cinematografico: ci sono campi lunghi, molte scene lontane, primi piani e piani sequenza. Ci siamo concentrati sull’ambiente.

Quali sono state le reazioni del pubblico? Ci sono stati spettatori giovani?

Il Trittico è andato sold out dopo due giorni dall’apertura. I giovani sono venuti anche per via dell’Accademia. Il nostro approccio è stato evidente fin dal titolo: un inferno, un paradiso, un purgatorio, per sottolineare che non bisogna rintracciare le parole di Dante perché non ci sono. E questo è stato còlto. Le relazioni ci sono ma arrivano quando meno te le aspetti, in maniera insolita e non immediata. La risposta è stata forte, davanti a Inferno e Paradiso la gente piange e si commuove. Questo mi ha sorpreso molto perché non mi era mai capitato di far piangere le persone in teatro. Non era un effetto calcolato.

Pensi che questa reazione emotiva possa dipendere dal momento che viviamo?

Un po’ sì, quando si parla di noi il lavoro è più efficace, certi argomenti poi non sono risolti. Generazionalmente in questo trancio di secolo emerge che i nostri problemi familiari con padri e madri non sono sciolti, il crollo dei valori del ‘900 e delle figure di riferimento hanno lasciato strascichi lunghi e non risolti.

Questo Trittico è un modo per avvicinare a Dante pensandolo meno monumentale, paludato, obbligatorio?

Sicuramente sono tre esperienze dirette, efficaci, si capiscono immediatamente. C’è una possibilità in più di non essere ostacolati dalla forma e arrivare più facilmente al cuore perché non ci sono diaframmi storici e linguistici, la mediazione esplicativa ci allontana dal centro.

Lavorandoci hai trovato nella Commedia qualcosa che non ricordavi o non ti aspettavi?

Ho trovato sorprese molto grandi soprattutto nel Purgatorio. A un certo punto Dante incontra il poeta latino Stazio che dice che la poesia è stata per lui salvifica perché lo ha messo in contatto con Dio, Dante lo rimprovera perché non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi cristiano per paura delle persecuzioni, ecco perché è un accidioso. Dante invece ha pagato tutte le spese e le conseguenze di aver fortemente sostenuto le sue idee. Ho capito che la cultura (la poesia) ha valore se usata per le potenzialità che ha. Sono anni che ci lamentiamo che la cultura non se la fila nessuno, ma chi prende ora posizioni scomode come Pasolini? Chi è contro? Si usa la cultura per avere il potere. Abbiamo bisogno di chi usa gli strumenti della cultura perché questi abbiano un effetto sulla società.

Ma cosa è cambiato dagli anni di Pasolini?

Siamo più assoggettati al potere, perché tutto dipende dal potere, troppo. Pasolini si scagliava contro il PCI e subiva la censura ma lavorava lo stesso, ora la censura è un ricatto più sottile. C’è un’enorme restaurazione, una controriforma in atto.


TRITTICO DANTESCO

un inferno di Fausto Paravidino
un purgatorio di Letizia Russo
un paradiso di Fabrizio Sinisi
con gli attori della Compagnia giovani del Teatro Stabile del Veneto: Emma Abdelkerim, Elena Antonello, Riccardo Cardelli, Federica Fresco, Michele Guidi, Imma Quinterno, Tommaso Russi, Andrea Sadocco, Elisa Scatigno, Alberto Vecchiato
assistenti alla regia e dramaturg Giacomo Pedrotti, Matilde Sgarbossa, Sonia Soro
musicisti Giulio Ragno Favero, Marcello Batelli
regia Fabrizio Arcuri
musiche Giulio Ragno Favero
scene Alberto Nonnato
light designer Paolo Rodighieri
costumi Lauretta Salvagnin
cura del movimento Fabrizio Turetta
produzione Teatro Stabile del Veneto

Padova, Teatro le Maddalene – 21 maggio 2021