LAURA BEVIONE | Al Teatro Gobetti la commedia agro-dolce di una giovane drammaturga – forte di una menzione speciale al Premio Hystrio-Scritture di scena 2015 – diretta da una regista altrettanto emergente; alla sala piccola delle Fonderie Limone il saggio finale con cui i neodiplomati alla Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino affrontano insieme il pubblico. Una coincidenza che consente alla vostra cronista teatrale di avanzare anche qualche pensiero sullo spazio riservato alle nuove generazioni di teatranti, affinché possano scoprire e sviluppare il proprio potenziale talento.

10 mg. è un testo in cui la drammaturga Maria Teresa Berardelli riflette tanto sulla natura tutt’altro che granitica del concetto di “malattia” nella nostra epoca ipersalutista e nondimeno psicologicamente fragilissima; quanto sulla difficoltà di intessere e di mantenere una relazione con l’altro. L’autrice intreccia le vicende di due coppie di personaggi – un marito e una moglie alle prese con un figlio “problematico” cui è diagnostico un disturbo dell’attenzione; un pubblicitario e la sua giovane dipendente, abilissimi nell’escogitare efficaci campagne per psicofarmaci innovativi – facendole poi convergere nella sala d’attesa di uno psichiatra vagamente alienato.

Foto di Andrea Macchia

Le patologie dei personaggi – il famigerato ADHD, deficit di attenzione e iperattività nei bambini; la sindrome da stanchezza cronica; il dolore da lutto; la depressione – vengono curati con pasticche di 10 mg. di farmaci semi-miracolosi, panacee capaci di lenire le ferite dell’anima. Il medico sottopone i propri pazienti a test impersonali ed emette la propria sentenza, pur accompagnando la propria ricetta con l’invito a telefonare per dire come va…

Un terapeuta non immune, però, da quegli stessi affanni che affliggono i suoi pazienti e che lo costringono a qualche giorno di riposo, per ritrovare un forse impossibile equilibrio – lo stesso che, nel finale, paiono avere riconquistato anche le due coppie, non risanate certo e, nondimeno, consapevoli delle proprie debolezze.

Quello escogitato dalla drammaturga, tuttavia, è solo apparentemente un lieto fine, ché la depressione, l’irrequietezza patologica, sono sempre lì, pronti ad assalire creature in fondo incapaci di rinunciare alla propria ambizione e a quello che hanno riconosciuto come il proprio ideale di vita – una famiglia, una casa sul lago, un’agenzia pubblicitaria di successo, una carriera brillante… E, d’altro canto, Berardelli non offre alternative – fughe su un’isola del Pacifico o pseudo-religioni – e osserva con dolce rassegnazione i propri personaggi incamminarsi sulla medesima strada che li ha portati alla malattia e all’intossicazione farmacologica.

Foto di Andrea Macchia

Una chiave discreta, un linguaggio “spuntato” e mai acidamente ironico che la regista Elisabetta Mazzullo asseconda, facendo scivolare senza stacchi i vari sipari l’uno dopo l’altro grazie a musiche originali che fanno il verso a stacchi pubblicitari d’antan ovvero canzoni anni ’80 – Take on Me – e ad azioni coreografiche in cui sono coinvolti i cinque partecipi interpreti, a tratti anche protagonisti degli spot ideati dalla coppia di pubblicitari.

Una regia delicata e anti-realistica, morbida come le tonalità delle mille scatolette di medicinali che affollano i due scaffali bianchi che, insieme a un ampio tavolo dello stesso colore, compongono una scenografia essenziale e quasi asettica eppure evocativa, grazie anche a un uso fantasiosamente eclettico delle luci.

Nel complesso uno spettacolo piacevole, dunque, che sa trattare tematiche contemporanee con toni lievi ma non superficiali, senza voler aggredire il pubblico con toni e/o immagini troppo concitati ovvero crudi. Un testo e una messinscena realizzati tenendo il piede sempre ben aderente al freno: una scelta stilistica legittima e realizzata con felice e creativa coerenza ma, forse, da due giovani e talentuose professioniste ci si aspetterebbe maggiore coraggio nel ricorso a un vocabolario meno accondiscendente nei confronti della presunta suscettibilità del pubblico. Autocensura involontaria? Chissà… Forse la necessità di trovare un proprio spazio per poter crescere e far maturare il proprio indiscusso talento conduce a smorzare i toni. Non si tratta certo di assalire velleitariamente il pubblico come a volte accade, quanto di non temere l’effettiva bontà delle proprie intuizioni sulla realtà e di svilupparle, anche se ciò significa illuminare esplicitamente aspetti amari e di primo acchito disturbanti…

Foto di Andrea Macchia

E certo non tralascia nessuno degli aspetti problematici dell’adolescenza, l’adattamento di Risveglio di primavera di Franz Wedekind, che Gabriele Vacis ha realizzato per e con i suoi ventuno allievi, neodiplomati alla Scuola per Attori dello Stabile di Torino.

Ci sono la scoperta dell’identità sessuale e l’incomunicabilità con i genitori; l’ansia di vita e pure la fatale attrazione per la morte; la brutalità e la dolcezza; lo stupro e l’aborto ma anche la solidarietà e l’amore. Vacis racconta tutto ciò, lasciando che i suoi giovani collaboratori per la drammaturgia trasportino le vicende drammatiche dei quattordicenni Moritz e Melchior, Wendla e Martha, Hänschen e Ilse, nella realtà attuale, interpolando al testo originale riferimenti alla contemporaneità e una “pista” musicale che attinge con disinvoltura al repertorio pop.

Il regista riconosce e pone in evidenzia i singoli talenti dei suoi ventuno ormai ex allievi: i musicisti hanno l’opportunità di accomodarsi a turno al pianoforte che è su un lato del palco ovvero di esibirsi con chitarra, flauto e sassofono; calde voci soliste intonano canzoni e guidano il coro dei compagni; performer conducono con invisibile determinazione la “schiera” – il particolare metodo pedagogico-performativo creato dallo stesso Vacis – che a intervalli anima la scena, aprendo e chiudendo lo spettacolo.

Foto di Andrea Macchia

Un susseguirsi di azioni che avvengono nella viva luce che illumina anche la platea e animano un palcoscenico occupato soltanto da sedie poste ai lati e dal succitato pianoforte e ampliato grazie all’apertura delle porte sul fondo, che consente estemporanee fughe nel cortile delle Fonderie Limone e che immette nella sala le voci del presente – il temporale, i treni che passano, le auto…

Energie che si sommano a quelle vitali dei ventuno ragazzi che si alternano nei vari ruoli e che allo stesso tempo compongono un variegato ed empatico coro: certo i talenti sono eterogenei e non equivalenti ed è probabile che pochi fra loro riusciranno a intraprendere la “carriera” – un lavoro da artigiani volenterosi e concentrati in realtà – teatrale, eppure è certo che i tre anni di corso – complicati dalla pandemia e dalla necessità di proseguire le lezioni a distanza – abbiano arricchito allieve e allievi, regalando loro la consapevolezza di ciò che sono e di ciò che davvero vorranno diventare da grandi. E questo è sicuramente un ottimo risultato, forse più importante dell’avere plasmato il Gassman del XXI secolo: d’altronde, quante delle scuole di teatro sono davvero in grado di farlo?

E vale la pena, allora, porre una questione non irrilevante: il moltiplicarsi delle scuole di teatro legate ai teatri nazionali – obbligati dall’ultima legge di riforma del settore spettacolo –  ha aumentato in misura esponenziale l'”offerta” di giovani attori mentre, d’altro lato, le concrete possibilità di lavoro – non solo sulla scena, ma pure al cinema, negli spot pubblicitari, in televisione – risultano drasticamente diminuite.

Cosa ne sarà, dunque, del futuro di questa moltitudine di attori neodiplomati? Probabilmente la maggior parte di loro dovrà cambiare la direzione del proprio percorso esistenziale e, allora, appare ancora più indispensabile che gli anni di scuola di teatro siano finalizzati a lumeggiare i veri e indiscutibili talenti e, d’altro canto, ad aiutare gli altri a riconoscere la propria vera strada. E, nel primo caso, le istituzioni cui le scuole sono legate dovrebbero impegnarsi a coltivare e a far germogliare quello stesso talento, offrendogli reali opportunità di studio e lavoro, senza censure implicite né richieste estranee alle personali inclinazioni…

10 MG.

di Maria Teresa Berardelli
regia Elisabetta Mazzullo
scene e costumi Anna Varaldo
light designer Jacopo Valsania
musiche Bettedavis
con Andreapietro Anselmi, Carolina Leporatti, Davide Lorino, Francesca Agostini, Lucio De Francesco
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

RISVEGLIO DI PRIMAVERA

da Frank Wedekind
traduzione e adattamento di Gabriele Vacis, Davide Pascarella, Enrica Rebaudo,
Gabriele Mattè, Erica Nava e della classe della Scuola per attori del Teatro Stabile di Torino
regia Gabriele Vacis
assistente regia Glen Blackhall
con gli attori neodiplomati della Scuola del Teatro Stabile di Torino: Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Chiara Dello Iacovo, Lucrezia Forni, Sara Lughi, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Gabriele Matté, Eva Meskhi, Erica Nava, Cristina Parku, Davide Pascarella, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Kyara Russo, Letizia Russo, Daniel Santantonio, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera, Giacomo Zandonà
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro Gobetti, Torino, 6 giugno 2021
Fonderie Limone, Moncalieri (TO), 8 giugno 2021