ILENA AMBROSIO | Che rumore fanno i morti? Quale suono è preannuncio della loro visita? Uno scampanellio forse, acuto ma gentile, spigliato quanto basta per risvegliare una dismessa spensieratezza infantile e generare, insieme, una sottile ma innocua inquietudine.
È con il suono di un campanello che inizia il racconto di Pupo di zucchero, l’ultimo lavoro di Emma Dante inserito nel cartellone della rassegna Pompei Theatrum Mundi del Teatro di Napoli e che ha riscosso, assieme a Misericordia, uno straordinario successo al Festival di Avignone. Sulle pagine di Le Monde si acclama la Dante come «papesse sicilienne et hérétique»
“Tin tin tin”, scampanellano tre giovani donne in nero, in piedi dietro una sedia; sulla sedia un Vecchio, intorno il buio. È la notte del 2 novembre, la notte dei morti, e il Vecchio la trascorre insonne, con gli occhi puntati su qualcosa che sembra di importanza vitale, un panetto di impasto che servirà a dare forma al dono per i suoi defunti in arrivo: il pupo di zucchero. La vita di un impasto in lievitazione, di una massa che prenderà forma umana, in dono alle anime dei defunti.

In Sicilia i pupi di zuccaru sono i dolci simbolo della festa dei defunti: statuette antropomorfe di zucchero dipinto e decorato che rievocano figure tradizionali come Paladini di Francia, ballerini e personaggi tipici del teatro dei pupi siciliani.
Nella notte del 2 novembre i pupi venivano disposti in bell’ordine su una tavola, pasto per i defunti della famiglia che sarebbero tornati a cenare nella loro antica dimora. Ma non erano solo un dono: essi erano anche rappresentazione delle anime stesse, cosicché cibarsene era cibarsi dei propri defunti. Un esempio di patrologia simbolica. 

L’antica tradizione siciliana – che ben si sposa con la poetica carnale e viscerale della Dante e con l’immaginario sempre vivido sul mondo dei defunti e sul loro rapporto con i vivi – dà il là e insieme intesse la rappresentazione di una saga familiare che il Vecchio racconta e che, nel mentre, prende forma intorno a lui, animando la sua notte insonne. Un racconto nel quale all’ingrediente principale della tradizione siciliana fa da lievito una struttura stilistica, linguistica e narrativa che liberamente si ispira a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Dopo La Scortecata, Emma Dante torna sul testo seicentesco ma questa volta non ispirandosi a una singola favola bensì impregnando il suo lavoro di tutto l’humus dell’opera. Linguistico, specialmente. Dal parlato agli inserti cantati – e incantevolmente armonizzati dagli interpreti – la lingua di questo testo è plastica, materia vivente: un napoletano poetico, “d’arte” benché verace così come l’opera di Basile fu un’operazione colta benché definita, nel sottotitolo, «trattenimento de peccerille». 

Ed è anche la struttura drammaturgica che sembra richiamare quella del Pentamerone: le vicende familiari raccontate dal Vecchio si inseriscono come piccole novelle nella cornice della nottata del 2 novembre e, al contempo, evocano personaggi, figure e immaginari di Basile. Ci sono le amate sorelle Rosa, Viola e Primula «c’addorano i primavera» che rimandano a Rosa, Garofano e Viola della terza novella della prima giornata e alle tre fate della decima novella della giornata terza. C’è la zia Rita maltrattata dallo zio Antonio, un uomo orco come lo Shioravante della prima novella della terza giornata. E poi il padre marinaio, sempre in viaggio; l’amico di famiglia Pedro, che aggiunge atmosfere latine a corredo del suo amore per la giovane Viola: Lo cunto pullula di mercanti, marinai, atmosfere esotiche. Il racconto accoglie suggestioni che si percepiscono come intimamente radicate nell’animo dell’autrice e che non si traducono mai in calco o imitazione, e al contempo acquista lo spessore di un’operazione quasi filologica eppure altamente poetica.

Ma il raccontare è anche e soprattutto ricordare e il ricordo è un ritorno dei morti tra i vivi. Così come era stato per il capolavoro Le sorelle di Macaluso, anche qui i morti ritornano, immortalati nelle loro sembianza di giovani, replicando movenze, gesti, parole che, lungi da farne dei tipi, li tratteggiano come immagini, perché per immagini – come di foto, di un vecchio filmino – scorrono i ricordi delle persone perdute. Le sorelle volteggiano e ballano e cantano e ancora volteggiano, continuamente; lo zio continuamente percuote la zia che continuamente gli mostra il seno per placare la sua ira e risvegliare il suo piacere; il padre continuamente ripete “Ti amerò per sempre”, la madre continuamente lo cerca; Pedro continuamente danza come un toreador. 

Il Vecchio li accoglie nella notte dei morti per ricordarli, per onorarli ma soprattutto per riempire il vuoto della sua solitudine. Perché, a ben vedere, è proprio questo Pupo di zucchero: una storia di solitudine e di vecchiaia. Come anche in La Scortecata, Emma Dante sembra voler raccontare la storia di un Vecchio – e Vecchio è il nome del personaggio in drammaturgia – e di come la vecchiaia corrisponda spesso alla solitudine, al rammarico del restare mentre gli altri sono andati via, alla melanconia del ricordare la gioia di una casa piena e viva che ora è buia e vuota, del ricordare la vita di chi ora è morto. E allora sono i morti/vivi a riempire – anche materialmente – la scena che altrimenti resterebbe vuota come la vita del Vecchio. Sono loro a ballare vestiti di paillettes, sono loro a cantare, a urlare, a fare l’amore, a baciarsi; a volteggiare e piroettare. Lo fanno di continuo, queste anime: in quelle piroette effusioni di vita, di una vita oramai finita ma in questa notte più energica che mai: «Il 2 novembre è l’unico iuorno ca ce sta nu poco de vita dinta a sta casa». Così, alla fine, proprio loro danno forma al pupo, lo decorano, lo vivificano, aiutando il Vecchio a completare la sua opera e a colmare la sua solitudine. Solo allora un nuovo scampanellio li congederà.

I morti, però, sono morti e solo nel ricordo, quindi nell’immaginazione, possono essere vivi, immutati nella loro forma giovane e vigorosa. Ciò che resta davvero ce lo dicono le stupende e potenti sculture di Cesare Inzerillo: la rappresentazione cruda e orrenda della morte. Ciascuno rientra portando il proprio io mummificato, con cura ma senza dolore, con consapevolezza e fierezza, quasi. Si compone un altare, la festa è finita, i morti tornano a essere morti.  

Ancora un lavoro di artigianato sulla scena, la drammaturgia e la lingua questo Pupo di zucchero. Gioverebbe, forse, una maggiore compattezza: il filo della rappresentazione risulta, in alcuni punti, poco teso e sembra lasciare slegati i vari momenti della messa in scena. Ma gli interpreti sfruttano con eccezionale maestria l’espressività del proprio corpo per dire dell’animo dei personaggi e della loro vita, mentre Carmine Maringola, il Vecchio, è un abilissimo cantastorie che maneggia con cura una lingua complessa ma che non risulta mai pesante o faticosa. A fare da contraltare allo spessore linguistico una simbologia scenica nettamente semplificata: resta qualche oggetto lanciato dalle quinte, tipico della regia di Emma Dante, abiti in paillettes, una bambola; ma è come se anche questi fossero diluiti nel ricordo, come fossero citazioni di una vita passata. Perché nella solitudine e nella vecchiaia non c’è posto per un surplus di cose.

Ed è questo che, in definitiva, arriva e resta: un sentimento desolato ma tenerissimo per la solitudine di un vecchio, una com-passione per il dolore della morte, ma anche il profondo, incondizionato amore che sta nel ricordo.

 

PUPO DI ZUCCHERO
La festa dei morti
liberamente ispirato a “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile

testo e regia Emma Dante
con Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout, Sandro Maria Campagna, Martina Caracappa, Federica Greco, Giuseppe Lino, Carmine Maringola, Valter Sarzi Sartori, Maria Sgro, Stephanie Taillandier, Nancy Trabona
costumi Emma Dante
sculture Cesare Inzerillo
luci Cristian Zucaro
assistente ai costumi Italia Carroccio
assistente di produzione Daniela Gusmano
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
foto Ivan Nocera
produzione Sud Costa Occidentale, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Scène National Châteauvallon-Liberté / ExtraPôle Provence-Alpes-Côte d’Azur / Teatro Biondo di Palermo / La Criée Théâtre National de Marseille / Festival d’Avignon / Anthéa Antipolis Théâtre d’Antibes / Carnezzeria e con il sostegno dei Fondi di integrazione per i giovani artisti teatrali della DRAC PACA e della Regione Sud