GILDA TENTORIO | Bilancio positivo ed eventi sold out per il il festival Ultima Luna d’Estate, dedicato quest’anno alla poesia. In chiusura, due spettacoli che mostrano la grazia poetica della parola, anche quando si declina in racconto civile, evocazione memoriale, strumento di denuncia e schiaffo anti-convenzionale. Da un lato l’interessante operazione di Luca Radaelli sul Pasolini friulano, con Dove sono le lucciole (coproduzione Teatro Invito/Ortoteatro), dall’altro l’operazione personale e commossa di Andrea Pennacchi con Mio padre. Appunti sulla guerra civile.

Come affrontare il gigante Pasolini, in prossimità del centenario dalla sua nascita? In Dove sono le luccioleRadaelli (testi e regia) sceglie di cominciare con un pugno nello stomaco: la notizia al telegiornale della morte, le parole addolorate di Ninetto Davoli chiamato a riconoscerne il corpo, le immagini del funerale e la voce straziata di Alberto Moravia, che urla: “abbiamo perso un poeta. (…) Un poeta dovrebbe essere sacro”. Sarà questo il filo rosso della narrazione: non il regista di fama, lucido e scandaloso, ma la riscoperta delle sue radici poetiche. Ciò avverrà per gradi, attraverso un duetto: il giornalista sportivo (Stefano Bresciani), inviato dalla Gazzetta di Verona per scrivere un articolo, rappresenta il coté pratico della vita che corre, indifferente e forse anche un po’ sospettosa di quel materiale sfuggente ed etereo che è la poesia. Rassegnato alla missione impostagli dal superiore, va a intervistare un vecchio allievo di Pasolini e quasi suo nume tutelare (Fabio Scaramucci), perché vorrebbe carpirgli qualche aneddoto inedito sulla giovinezza dello scrittore. Ma a poco a poco viene conquistato dal fascino di Pasolini, complice la forte personalità dell’altro, che gli apre gli occhi su un mondo magico e ignoto.

L’impianto è in apparenza semplice: due profili opposti e la trappola tesa al maldestro e indifferente attraverso una rete di parole e di storie. Tuttavia la narrazione procede mossa, per sbalzi, senza un orizzonte cronologico lineare, con momenti di rêverie, rievocazioni storiche, inserzioni di altri materiali, come lettere o citazioni. Suggestiva la musica (Maurizio Aliffi) e soprattutto il gioco delle luci (Andrea Violato). Sulla scena i due personaggi si muovono fra una decina di secchi, a segnalare il mondo contadino del lavoro, pronti a diventare sedili, recipienti, segna-porta di un immaginario campo di calcio, ostacoli da superare o torrette di avvistamento. Dietro, quattro pannelli di tela grezza su cui si proiettano filmati e foto d’epoca, colori soffusi. Non è però una semplice scenografia, perché diventano filtri temporali (da qui appaiono i “fantasmi” di altri personaggi e sempre da qui il giornalista scrive alla sua amata su una vecchia macchina da scrivere). Ma sono anche i pannelli che segnano gli orizzonti aperti della poesia. Molto suggestivo infatti è il dialogo fra le parole poetiche recitate in friulano da Scaramucci, e le immagini sullo schermo, che mostrano campi, colline, spighe al vento e scorrere di ruscelli.

I versi friulani di Pasolini sono “poesie con la musica dentro”, una ribellione al linguaggio del potere e un atto d’amore alla lingua madre. Il giovane Pier Paolo coglie le parole vergini e autentiche della vita contadina, sfronda il ruvido della superficie e disegna ghirlande di versi che hanno forza sanguigna e a un tempo vellutata. Sonorità riconquistate (come quel “tintinulà” per il canto dei grilli) per ricreare lo stupore della bellezza. Il testo è intarsiato di citazioni che ripercorrono i momenti salienti della sterminata produzione letteraria di Pasolini: ritroviamo Alì dagli occhi azzurri, l’articolo che tanto fece discutere a proposito dei fatti di Valle Giulia, il tonante “Io so” all’indomani delle stragi.

Emerge lo sguardo tagliente del critico contro-corrente, spina nel fianco dei potenti, ma anche il Pasolini privato, con il cuore spezzato per la morte del fratello partigiano Guido e l’amore incondizionato per la madre. Si respira poi un momento molto toccante intorno alla figura del padre, militare e prigioniero in Africa, che affoga nell’alcol la sua angoscia di vivere, sempre animato però da una commovente dedizione al figlio-genio.

Tutto è dinamico: i personaggi entrano ed escono dai loro ruoli, per “diventare” Pasolini o i suoi interlocutori, la partitura di testo-suono-luci è calibrata con maestria a costruire un’architettura delicata. Come esaurire la figura poliedrica di Pasolini, a tratti spigolosa e affamata di vita? La scelta è di sfumare nella magia, anche grazie a riusciti effetti luministici e grafici di proiezione. È vero: come temeva PPP le lucciole sono scomparse, l’industrializzazione selvaggia ha spento le loro danze nella notte. Eppure a illuminarci sono rimaste le parole della poesia, come quei versi: “Co la sera a si pièrt ta li fontanis / il me paìs al è colòur smarìt” (Quando la sera si perde nelle fontane, / il mio paese è colore smarrito). Una poesia fatta di elementi semplici e terrigni, dotata di una freschezza delicata e musicale.

Raccolti a Sirtori nello splendido giardino della Villa Besana, siamo tutti in silenzio, incantati. Quando si spengono le luci, ci ritroviamo circondati dalle ombre degli alberi, in un concerto di grilli e sotto le stelle. Un respiro, e la certezza che allora la poesia esiste si scioglie in un lunghissimo applauso.

Folto pubblico nella serata conclusiva del festival, all’Auditorium di Casatenovo per Andrea Pennacchi, noto per il personaggio del Pojana a Propaganda Live. Ma in questo spettacolo non ha nulla della cinica macchietta della tivù. Dopo un ricovero pesante per Covid, ha vinto la malattia e ora ha ripreso le tournée con un testo a cui è molto legato, Mio padre. Appunti di guerra civile (già recensito per PAC), ha recuperato il suo brio di animale da palcoscenico, con la battuta sempre in canna e l’ironia pronta a emergere quando meno te lo aspetti. Si percepisce però che questo è un testo autentico, con un fortissimo coinvolgimento personale e quindi una commozione di fondo che risulta anche ‘contagiosa’ sul pubblico.

Tutto inizia dalla fine, quando il 6 maggio 1945 il giovanissimo padre di Pennacchi, nome di battaglia Bepi e altri suoi compagni “scoprono di aver vinto la guerra”. Un paradosso che si spiega subito: sono un gruppo di “arlecchini” cenciosi e sbrindellati, pesano 38 chili, dei révenants ancora in attesa della fucilata. Ma le SS non ci sono più, al campo di Ebbensee in Austria, e a liberarli è un comandante italoamericano.

In dialetto veneto i figli li chiamano “vìssere”. Ma che esiste un rapporto ‘viscerale’ fra padri e figli, lo scopri tardi. Prima sei un teenager insofferente e distratto, poi sei un uomo maturo e indaffarato a costruirti una vita. Arriva il momento in cui devi accudire il tuo vecchio, che conserva solo tracce di quella grandezza eroica che ammiravi da bambino. E infine ecco il dolore lancinante che ti squarcia le viscere quando lo perdi per sempre: il padre, “nome duro e antico, diverso dal molle e edulcorato papà” se n’è andato. A nulla valgono “pozioni che svuotano il cuore, ricette per una serenità artificiale”. Ti risvegli nel caos, disorientato, e soprattutto, ti accorgi di non sapere nulla di lui. Parte così un’inchiesta, che è indagine dolorosa alla scoperta degli anni eroici del padre Valerio, alla riscoperta di lui e anche di te stesso.

Come un novello Telemaco e nel tentativo di ricostruire un dialogo perduto, Pennacchi parte per un viaggio di ricerca. Quello che scopre, grazie a un faldone dell’Archivio Militare, è una vera odissea, quella del giovanissimo partigiano con il nome di battaglia Bepi. Pennacchi quindi ricostruisce i tasselli di una vita e degli anni travagliati per l’Italia, lacerata dalla guerra civile, e con grande onestà ci regala la storia di Bepi.

La narrazione è sottolineata dalla musica (alla chitarra Giorgio Gobbo e lap steel guitar di Gianluca Segato), che amplifica le emozioni, dà il ritmo, introduce note di malinconia o evoca il clima sonoro dell’epoca (canzoni fasciste e inni alla libertà). Tutto è calibrato al punto giusto, per sciogliere la tensione o dare respiro.

La scrittura, fluida e asciutta, ti cattura. La prima parte è cosparsa dallo zucchero a velo dell’ironia, con battute folgoranti, iperboli e paradossi. Ti fanno una grande tenerezza questi ragazzi che hanno intuito qual è la parte giusta e si lanciano nella guerra maldestri e ingenui. Intanto nei viali alberati spuntano “strani frutti”, con il cartello “Ero un ribelle”. E allora quella adesione confusa e dilettantesca si consolida: questa è l’unica direzione possibile verso la libertà.

L’addestramento è affrettato e sommario, e all’improvviso ogni speranza di atti eroici si dissolve: dopo che il compagno ha ceduto sotto la tortura, il Bepi è arrestato e piomba nel buco nero del lager. Lavori forzati, comandanti biondi dal viso angelico che sono belve assetate di sangue, pidocchi, dissenteria, rancio inesistente, e intorno un vortice di violenza che si abbatte senza perché: c’è chi viene fucilato, sbranato dai cani, impiccato, affogato.

Il racconto del figlio è ormai tutt’uno con la voce del padre: Pennacchi è lì con il Bepi nel campo, testimone della posterità che assolve il dovere della memoria, nella duplice direzione della Storia collettiva e personale. Perché in questo nostro Paese “forse ha parlato troppo chi non aveva diritto di parlare, e altri invece sono stati troppo a lungo in silenzio”, come il vecchio Pennacchi, un po’ burbero e taciturno. In un ideale e commovente risarcimento, che procede lungo la catena viscerale dell’amore, il figlio maturo si piega sulle vicende del padre, coinvolto nel dramma della Storia in un’età tanto giovane. Il bisturi della memoria crea un gioco di scavo e di rispecchiamento, in un poetico e delicato dialogo a distanza fra generazioni.


DOVE SONO LE LUCCIOLE

coproduzione Teatro Invito/Ortoteatro
regia e testo Luca Radaelli
con Stefano Bresciani, Fabio Scaramucci
montaggio video Silvio Combi e Davide Scaccianoce
animazione Ilaria Pezone 
idea grafica Elena Scolari
disegno luci Andrea Violato
musiche originali Maurizio Aliffi

Festival L’ultima luna d’estate | Villa Besana, Sirtori (LC) 4 settembre 2021

MIO PADRE – Appunti sulla guerra civile
di Andrea Pennacchi / Boxer Teatro
di e con Andrea Pennacchi
musiche dal vivo di Giorgio Gobbo e Gianluca Colella

Festival L’ultima luna d’estate | Casatenovo (LC), 5 settembre 2021