ROSSELLA PICCARRETA | Chiesa di Santa Teresa dei Maschi, centro storico di Bari.
Il pubblico è seduto nella piccola navata, avvolto dal buio.
Non toccato dal mondo, nello spazio una volta sacro dell’altare, c’è una figura di spalle, come un’opera d’arte, dentro un’immensa cornice dorata, su un fondo verde prato.
Esibisce nella penombra drammatiche ali scarnificate di metallo, senza piume. Si muove impercettibilmente e quasi ondeggia nel vocio del pubblico che attende l’inizio dello spettacolo. In realtà è già in scena. Si avverte la sua energia, mistica e inquietante. Indossa una tunica di cotone doppio, bianco sporco, che, dopo, alla luce fa pensare al tessuto delle camicie di forza.
Dentro quei panni si muove per 25 minuti di bellezza Roberto Latini, in Venere e Adone, ultimo spettacolo della rassegna Il peso della farfalladiretta da Clarissa Veronico.

ph Antonio Ficaia

Quando i riflettori si accendono e quest’angelo sui generis si volta, continuiamo a non vederne il viso, coperto da una garza bianca, e lui non vede il pubblico. Sfumata da due paraluce bianchi ad ombrello come quelli dei fotografi su fondale verde, la luce (di Max Mugnai), chiara, calda e avvolgente, rende intimo l’incontro nel buio della chiesa tra attore e spettatore a pochi metri.
Dai dettagli del costume (di Gianluca Sbicca) immaginiamo che il personaggio sia il dio Amore, al cui apparato iconografico rimandano le ali e l’arco stretto in pugno. Anch’esso è di metallo, come le ali; è senza corde e senza frecce e sembra diventare a tratti un bastone su cui Eros appoggia il corpo stanco o, in certi momenti, una lancia che pare conficcarsi nella giugulare.

Amore è disarmato e incapace di volare, oltre che cieco col volto coperto. Non ha nulla del puttino paffuto dei quadri cinquecenteschi e secenteschi di Tiziano, Rubens e Carracci, che raffigurano lo stesso mito, e a cui, pure, lo spettacolo sembra alludere. Ricorda più l’angelo montaliano che ha «attraversato il tempo e l’alte / nebulose» e ora ha «le penne lacerate / dai cicloni» e vive la modernità in cui pare difficile la salvezza. Non è bambino, ma adulto e stanco. È ferito, come appare da una benda attorcigliata al polso e alla mano. Si regge a stento sulle gambe, a fatica. In ogni elemento del suo aspetto mostra il disarmo e la sconfitta.
Inizia a parlare: la voce si fa strada sotto il velo, alterata. Poi Amore si svela e a un tratto la voce cambia. Ora scopriamo che indossa sull’abito anche una specie di armatura forata, una gabbia toracica scheletrica e metallica.

Il monologo non è un racconto, ma un flusso incessante di immagini, come libere associazioni mentali che alludono al mito e dicono lo strazio, lo struggimento languido e l’atroce delizia dell’amore. La cifra è quella del frammento, dei versi sparsi che non seguono una precisa e chiara traccia narrativa, ma, piuttosto, hanno la forza evocativa della poesia. L’attore si fa «poeta scenico», per usare un’espressione a lui cara, saccheggiata dalla sua insegnante Perla Peragallo e da lui riportata in un’intervista, in cui si parla di un teatro «che ha molto a che fare con la poesia, con le parole», e non sa trattenerle.

 

La voce di Latini, camaleontica, a volte soffiata, si modula sulla potenza delle parole o si moltiplica, grazie all’uso di una loop station a pedale. È accompagnata in alcuni momenti da una musica (di Gianluca Misiti) lieve e delicata, assolutamente in armonia col resto.
I personaggi del mito e i loro punti di vista sfumano e  si confondono. Della storia del tragico amore di Venere per il giovane sfuggente Adone, più attratto dalla caccia che da lei e destinato a una morte cruenta, restano solo suggestioni, frasi dense come aforismi, che talvolta si ripetono come in un moderno stile formulare. Ossessioni che raccontano lo struggimento: «l’amore è una trappola»,  «ogni bacio è una sconfitta».
Eppure Cupido, così devastato, logoro e sfinito, non si arrende e colpisce. Col corpo che si affatica, barcolla e si dimena e con la voce roca, Eros/Latini si rivolge agli spettatori. Li guarda negli occhi e improvvisamente punta  contro di loro l’arco, con il corpo in tensione e l’asta del microfono divenuta una freccia dritta sulla platea silenziosa e partecipe.
L’amore da divino si fa tragicamente terrestre.

La drammaturgia è costruita con una raffinata tecnica allusiva. Ci sono calchi di arie d’opera («lascia ch’io pianga, mia triste sorte»), frasi di Ovidio, riferimenti a tanta poesia e arte di ogni tempo e soprattutto rimandi all’omonima opera shakespeariana, scelta non a caso come modello. Il poemetto erotico-pastorale fu scritto dal poeta inglese nel  1593, quando i teatri furono chiusi per la peste. Latini, dopo due anni di silenzio pandemico, torna davanti ad una platea piena, con lo stesso argomento. Ma la materia shakespeariana diventa «mancanza». «Siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni» scrive Latini. E i modelli vengono ripresi in chiave moderna e deformati.
«Baciami fino all’ultimo respiro, Adone, sulla mia bocca esala il soffio della tua vita e questo soffio scorrerà dentro il mio cuore» scriveva Bione di Smirne, poeta greco del III a.C. nel suo Epitaffio di Adone. Qui quel bacio in punto di morte diventa «una candelina sulla lingua» su cui Amore chiede disperatamente di soffiare: «soffia, soffiami dentro».

Lo spettacolo, performance in fieri, volutamente e tragicamente senza un finale, non è, dunque, solo una riscrittura del mito, ma anche una riflessione sulla possibilità e le modalità dell’arte oggi.
In un tempo senza certezze, in cui amore non può più nulla e «Sempre non esiste per sempre», l’arte può dire solo altra arte. (Si spiega allora la cornice della scenografia). Può usare la tradizione come un enorme serbatoio da cui saccheggiare per rimpastare e riprodurre il modello in forme sempre nuove, tese a  raccontare in ogni modo il suo ostinato bisogno di trasformare il dolore in bellezza e la perenne mutabilità del tutto.
Sembra ricordarcelo anche Clarissa Veronico nei saluti finali con l’ultima immagine della rassegna: l’anemone rosso della metamorfosi ovidiana, nato dal sangue di Adone dilaniato, fiore tanto effimero quanto poetico.

VENERE E ADONE

di e con Roberto Latini
musica e suono Gianluca Misiti
luce Max Mugnai
costume Gianluca Sbicca
Scena Marco Rossi 
produzione Compagnia Lombardi Tiezzi

Santa Teresa dei Maschi, Bari
27 ottobre 2021