ELENA SCOLARI e MATTEO BRIGHENTI | Quanta invidia per la Regione Toscana! Regione aurea dove ad Arezzo, cittadina di circa 100.000 abitanti, esiste una rete teatrale, finanziata, composta da sette realtà tra compagnie di teatro e danza, accademie teatrali e organismi di promozione culturale. Questa compagine organizza da sei anni il Festival dello Spettatore, una manifestazione nata per dialogare con il pubblico, non solo offrendo spettacoli, ma coinvolgendo gli appassionati “fruitori” in incontri, laboratori, performance, anche proponendo agli “spettatori erranti” la possibilità di nutrirsi di teatro nell’ambito di un circuito extra-provinciale, favorendo il nomadismo di chi segue le scene.
L’edizione 2021 si è svolta dal 21 al 24 ottobre, secondo il motto “Esserci o non esserci“. Andando oltre la citazione, è chiara la volontà di riflettere sull’esistenza in vita di teatranti e platee, dopo la lunga e obbligata evanescenza a cui la comunità dello spettacolo dal vivo è stata costretta da marzo 2020. Ci siamo ancora? Ci siamo anche se in streaming?
Il Festival ha cercato di ragionare intorno a interrogativi che attanagliano da quasi due anni chiunque abbia fatto del teatro la propria scelta professionale e nei (tanti) casi virtuosi la viva molla del proprio agire creativo. Convegni, dibattiti, testimonianze, hanno mosso le giornate aretine anche lavorando per ri-costruire una condivisione attiva e partecipata.
Assistito dal Moai guardiano del Festival, PAC ha visto Hess – I dieci comandamenti secondo Hess, il nuovo lavoro di Kanterstrasse con protagonista Tazio Torrini. La compagnia è attiva nel settore del teatro ragazzi con opere sempre argute ed eccentriche (qui i racconti su Amletino e sul digitale OZz) e artefice di spettacoli colmi di ironia, sagaci e capaci di guardare ai classici da prospettive “di sguincio” (I Promessi Sposi e Ubu re, Ubu chi?).
ES: Hess è una sfida per la compagnia, un esperimento in un territorio inusuale, perché stavolta non c’è niente da ridere, manco per sbaglio. Hess è proprio Rudolf Hess, il gerarca nazista obbediente e stolido, intimo di Adolf Hitler e da quest’ultimo considerato non proprio un’aquila del pensiero nazionalsocialista. Pertanto affidabilissimo.
MB: Il vice e successore designato del Führer, misteriosamente e da solo, si è paracadutato sulla Scozia nel 1941 per trattare una pace separata con il governo britannico. Smentito da entrambi i fronti, è stato internato in un manicomio inglese come pazzo. Condannato alla fine della Seconda guerra mondiale all’ergastolo, viene rinchiuso nel carcere di Spandau, di cui è l’ultimo, unico, ingombrante detenuto. Ha già deciso di suicidarsi quando lo incontriamo chino sulla minestra. Non pare abbia davvero fame, sembra piuttosto mangiare per dovere questo piatto caldo, su cui soffia a ogni cucchiaiata.
Viene trovato morto il 17 agosto 1987, giorno della sua scarcerazione, all’età di 93 anni. Sarà cremato e i suoi resti dispersi per timore che la tomba diventi teatro di raduni nazisti.
ES: L’Auditorium Teatro Le Fornaci di Terranuova Bracciolini, sede di Kanterstrasse, è stato riallestito costruendo uno spazio angusto: due piccole tribunette una di fronte all’altra osservano una scatola chiusa da un tulle, come fosse una teca, un rettilario dove l’esemplare umano sta consumando il suo squallido brodo, immerso in una luce fioca e metallica, seduto a un tavolinetto con la faccia bianca di biacca.
MB: L’ossessione è la prigione dello sguardo. Le telecamere seguono Rudolf Hess dappertutto, anche in bagno. Lo guardano, lo sorvegliano, lo spiano: sono la Legge che esegue la sua condanna all’ergastolo nel carcere di Spandau, a Berlino. E lui, sodale e ombra di Hitler fin dagli esordi (in un’altra prigione hanno condiviso la stesura del Mein Kampf), si rivolge dappertutto, parla, straparla, impreca ai quattro angoli della cella come uno sconfitto che non si rassegna a essere stato sconfitto. Si sente assediato dal plotone nemico dei nostri occhi, l’Opinione Pubblica, che lui non vede ma sente tutta quanta addosso: siamo venti spettatori disposti sui lati lunghi della scena, qui abita Hess con un indomito Tazio Torrini, che cura anche la drammaturgia e la regia con Simone Martini.
Per la prima volta il testo di Alina Nelega, drammaturga, scrittrice e docente universitaria rumena viene rappresentato in Italia, con la traduzione di Horia Corneliu Cicortas.
ES: Ecco, il testo. Mi ha lasciato profondamente perplessa per la quasi totale assenza di linearità. Le parole della scrittrice rumena, nella riduzione di Martini e Torrini, non offrono alcun gancio allo spettatore per orientarsi, è un sentiero continuamente interrotto da inciampi, come se la volontà dell’autrice fosse quella di mostrare – sempre tangenzialmente – la sconclusionatezza dell’agire nazista producendo un testo senza capo né coda, uno spietato parallelo tra l’incespicare di un pensiero folle e la difficoltà di trovare una logica nell’esprimerlo, seppur nella rassegnata e nefasta disciplina militaresca.
MB: Il tempo di Hess è un farneticare con sé, quel sé che è qualcuno che non c’è, ma persiste, permane: è come una stella, continua a dare la luce, anche se è morta. Il volto coperto di biacca, il corpo ripiegato su se stesso – non gli è rimasto nient’altro –, la voce grave impastata di orrore, Torrini è magistrale nel rendere un simile fantasma allo stremo della vita, il cui decadimento non frena la violenza dell’ideologia.
Gli siamo vicini, sentiamo il suo respiro, riusciamo quasi a intravedere i suoi pensieri prima che diventino storie, ricordi, deliri. È e vuole restare un nazista: sta a noi resistergli, alla nostra capacità di giudizio, alla nostra riserva di umanità. Il copione, infatti, è aggressivo, feroce, brutalmente non accomodante, come fu, ad esempio, Mai morti di Renato Sarti con Bebo Storti indimenticabile nostalgico delle “belle imprese” del Ventennio fascista.
ES: Farneticare è il verbo giusto. Torrini è dimesso, curvo, parla a voce bassa, con tono monocorde e compresso. Anche i suoi gesti non trovano una motivazione drammaturgica, la scrittura di scena è frammentata quanto il fluire a scatti di concetti che spesso sfuggono e di cui non si riesce a trovare il bandolo. L’effetto è senz’altro voluto, ma talvolta pare prendere la mano al regista che si lascia governare dall’incedere scomodo e claudicante di un’autrice che non vuole accompagnare il lettore e l’ascoltatore.
MB: A mio avviso, invece, la regia traccia proprio un filo sottile e tenace di resistenza a Rudolf Hess e ai suoi Dieci comandamenti neri. Sono quasi incursioni, imboscate “colpisci e fuggi”. Blatera di inferiorità delle donne e gli cadono le posate di mano: ha idee che non si reggono più. La luce al neon ogni tanto frigge e lui prova a riportarla all’ordine sbattendoci contro un fazzoletto. Fa saltare il tappo dello spumante per l’ultimo brindisi e ritorna con la mente alla guerra, il gioco rabbioso di un bambino problematico, a cui sono rimasti soltanto i rumori fatti con la bocca.
ES: Sì, ma anche questa insensata declinazione dei Comandamenti rimane sospesa, non c’è una conclusione e l’insistita disorganicità diventa una specie di faticosa sciarada a intravedere un senso simbolico dove forse non c’è nemmeno quello. L’eccesso di indeterminatezza lascia spaesati, pur accettando l’idea di una struttura che si vuole traballante: Hess non induce né pietà né disprezzo.
MB: L’imbarazzo conclusivo è, infatti, il vero colpo di teatro di Hess. La nostra ‘verità’ è ben più complessa e composita di qualsiasi sentenza storica o giudiziaria. Alla fine, Tazio Torrini indossa le scarpe buone, la giacca della festa, nonostante tutto sembra ancora uno qualunque, una persona qualunque, innocua, assomiglia quasi a Russell, il vecchio burbero e commovente di Up, il film d’animazione Disney Pixar. Ma è Rudolf Hess e al braccio ora ha un segno inequivocabile: una fascia con la svastica. Non la toglie nemmeno durante gli applausi. Celebriamo l’attore, che però è ancora un tutt’uno con il suo personaggio. Ciò che facciamo non è necessariamente giusto o sbagliato, può essere giusto e sbagliato insieme, allo stesso medesimo tempo.
ES: Il tenero vecchietto di Up è un paragone solo visivo, direi casuale. Le azioni che “il personaggio” Hess rappresenta sono sbagliate, eccome, su questo non c’è tentennamento che tenga. L’imbarazzo, dici bene, può riguardare la tragica consapevolezza che anche le persone qualunque possono essere (o diventare) Hess, senza troppa difficoltà. In un modo tanto stupido quanto feroce.
Colpisce la solitudine di quest’uomo, con chi parla? Con Dio, con Hitler, con noi? Il fatto che fosse il solo detenuto in un enorme carcere è spaventoso, è un castigo infernale dentro la punizione della cattività, peccato che questa gelida e decisiva componente non abbia un riscontro scenico.
Hess dichiara dall’inizio il proprio imminente suicidio – come fosse una minaccia – ma anche questo noi non lo vediamo, è un’informazione che assumiamo. Lo spettacolo sembra lasciare il dubbio anche sulla verità di questa fine; uno degli uomini più influenti del Terzo Reich si muove senza alcuna marzialità in una cella opprimente e prende una forma quasi soprannaturale, sembra sapere cose che non potrebbe conoscere, per ragioni cronologiche. Investirlo di capacità profetica è una scelta opinabile, ci fa orrore perché è una pericolosa distorsione, mascherata da spregiudicata provocazione.
HESS
di Alina Nelega
(titolo originale “Decalogul dupa Hess”, I Dieci Comandamenti secondo Hess)
traduzione Horia Corneliu Cicortas
con Tazio Torrini
drammaturgia Simone Martini e Tazio Torrini
regia Simone Martini e Tazio Torrini
assistente alla regia Alessio Martinoli
luci Simone Benucci
regia video Blanket studio
Auditorium Teatro Le Fornaci di Terranuova Braccioli, Arezzo
21 ottobre 2021