GIANNA VALENTI | Alla sua quarta edizione nello storico borgo di San Ginesio nell’entroterra marchigiano con vista spalancata sui Monti Sibillini, GinesioFest quest’anno è stato uno dei luoghi della geografia teatrale estiva italiana e ha proposto una riflessione sul tema della maschera, sia come presenza fisica capace di incarnare una specificità caratteriale o un’essenza, sia come presenza recitativa incarnata dal corpo dell’attore.
Una riflessione che è legata all’identità stessa di questo borgo dedicato al santo di cui porta il nome, perché San Ginesio, attore e musico, è martire dei primi secoli del cristianesimo da quando l’imperatore Diocleziano lo fece decapitare per aver abbandonato la maschera con cui derideva e disprezzava nei suoi spettacoli i seguaci della nuova fede.
In una chiesa di Braunschweig, nata come parte di un monastero benedettino nel XII secolo, c’è una statua romanica di San Ginesio mentre si toglie la maschera coprendone con una mano la bocca e mentre regge con l’altra il fonte battesimale — una sincronicità di gesti che crea un cortocircuito tra presenze e assenze tra maschera, silenzio e parola. Quella che il santo come attore e musico si toglie è il segno di un’interpretazione codificata e stereotipata, di un’identità personaggio che può essere semplicemente indossata e recitata con diversi livelli di coinvolgimento o non coinvolgimento dell’attore/persona. Togliersi la maschera, coprendone la bocca e reggendo il simbolo della rinascita è dichiarare un allineamento alla propria identità più profonda (e non ne sto parlando in termini religiosi), un allineamento alla propria storia e al proprio sentire che è responsabilità personale e creativa per ogni parola, azione e gesto che si sceglie di condividere con il mondo.

Talk Mask, Francesco Mandelli, Christian La Rosa, Leonardo Lidi

Leonardo Lidi, al suo secondo anno alla direzione di GinesioFest, ha proposto il tema della maschera per dare un segno più profondo al legame tra il festival e il suo borgo, ma anche per offrire un’occasione per riflettere sul suo ruolo nella tradizione teatrale italiana e per valutarne il senso della permanenza come tecnica recitativa in parte della scena contemporanea.
Una proposta coraggiosa per chi, come lui, mette al cuore del proprio lavoro di pedagogo e regista ogni sottrazione rispetto alla maschera fisica e recitativa e una proposta di senso per declinare le diverse azioni e i diversi eventi del festival. Un invito a osservare la maschera nelle diverse variabili di presenze o di assenza in scena e a riflettere sulla sua continuità nella didattica teatrale italiana, con un limite, nonostante la maestria interpretativa di chi la sceglie come tecnica, per la malleabilità dell’attore nell’attraversare le forme del teatro, del cinema e della televisione.  (Leonardo Lidi, una visione per il teatro alla direzione artistica del GinesioFest)

La maschera o l’assenza della maschera hanno percorso anche i laboratori didattici, gli spettacoli per bambini e la performance itinerante e collettiva di adolescenti e giovani.
All’entrata del borgo, subito oltre le mura medievali, uno spazio espositivo accoglieva parte di una collezione di oltre un centinaio di maschere curata da Mà-Ska-Ra; un loro laboratorio a cui ho assistito portava i bambini a scoprire e incarnare la fisicità di alcune delle maschere in esposizione, proponendo due o tre elementi posturali e locomotori di riferimento che sapevano sia coinvolgere a livello ludico che comunicare la complessità di una tradizione didattica consolidata.
Di segno opposto invece Landscape, il lavoro finale del percorso per adolescenti e giovani curata dalle attrici Elena Fioretti ed Elena De Carolis che attraversava luoghi e scorci del Borgo per inseguire frammenti di memoria lungo una strada, contro un muro o attraverso una porta: una proposta performativa per un viaggio nei propri ricordi e nelle proprie emozioni, nel segno dell’assenza di ogni tipo di maschera e di autentica vicinanza ai corpi del pubblico.

Teatro dei Gordi, Sulla morte senza esagerare

Di grande trasparenza e di allineamento a una propria verità e sensibilità anche il lavoro di Filippo Timi e Lorenzo Chiuchiù con lo stesso Timi, Matteo Prosperi  e gli allievi attori della Scuola dello Stabile di Torino. La maschera indossata da Timi in scena agiva come una sorta di interfaccia trasparente che non copriva e neppure proiettava, ma che assicurava una comunicazione radicata e profonda tra il suo sistema corpo come centro e i corpi del pubblico come sistema periferico. Una maschera capace di facilitare i percorsi di attraversamento di pensieri, emozioni, suoni e parole tra le stratificazioni del corpo per poi farsi trasparenza e farli viaggiare nello spazio oltre il corpo.
San Ginesio, nella statua romanica di Braunschweig, appare silenzioso e riflessivo, non cancella la parola ma scopre un nuovo modo di agire la parola come ascolto di sé e di viaggio nel proprio corpo prima di entrare in relazione col mondo: una parola, la sua,  che nasce dallo spazio interno, che lo attraversa arricchendosi e che poi cade come spazio in un altro spazio, oltre il corpo. Una parola che conosce il silenzio, che si fa immagine, forma-pensiero e forma-emozione nel momento in cui viene detta: una parola che non rotola semplicemente fuori ma si manifesta trascinando con sé uno spazio di provenienza.  (One Shot Show: Filippo Timi e gli attori della Scuola dello Stabile di Torino a GinesioFest)

Francesco Mandelli, Talk Mask (il monologo iniziale)

Sulla scena ufficiale al Chiostro di Sant’Agostino, altre presenze scelgono la maschera fisica. Così per la Compagnia dei Gordi e la loro Sulla morte senza esagerare con la proposta di grandi maschere grottesche per dare vita a personaggi che pur nelle singole identità riuscivano a farsi incarnazioni di una più universale vulnerabilità a cui la morte stessa, così vicina all’umano nei suoi fallimenti e nel suo trapassare, riusciva a partecipare.
Maschere fisiche anche per la chiacchierata su scena con Francesco Mandelli e le maschere  del suo lavoro televisivo e cinematografico. A colpirci la sua grande disponibilità a raccontarsi e l’istantaneità tecnica del suo farsi personaggio: una dimostrazione di incarnazione della maschera e di sincronicità performativa tra l’indossarla come oggetto e la trasformazione di corpo, voce, pensieri, emozioni. Proprio per questa sua grande abilità, che generosamente ci ha raccontato nascere da un suo modo di essere, di giocare e di relazionarsi sin dall’infanzia, ha colpito molto un testo iniziale che ha recitato leggendo e che si muoveva sul filo sottilissimo di una pericolosa instabilità nel segno dell’assenza di ogni maschera e di una autentica e tesa vulnerabilità.

Giuliana Musso, Mio Eroe

Di credibilità e identità profonda anche la maschera recitativa come costruzione del personaggio/madre proposto da Giuliana Musso nel suo lavoro Mio Eroe. Il suo corpo in scena si è offerto come costruzione sapiente di una maschera recitativa fatta di scelte di voce, modalità posturali e gesti allineati a una drammaturgia della parola di sincronicità con il lavoro fisico, in un fluire sorprendente tra una microdrammaturgia di ricordi che solo una madre può raccontare e una macrodrammaturgia capace di creare slittamenti improvvisi sul piano internazionale degli eventi bellici.
Completamente diversa la maschera recitativa usata da Serena Balivo in La Buona Educazione per Piccola Compagnia Dammacco, dove la maestria tecnica dell’interprete, dall’uso della gestualità sino ai precisissimi e misuratissimi cambi di peso negli spostamenti del corpo, più che liberare la voce e la costruzione del personaggio risultava come elemento di controllo, di restrizione e limitazione del vissuto scenico.
La Stanza. Esperienza d’archivio in Virtual Reality di Giulia Ottaviano e Alba Maria Porto ha invece offerto un esperimento di maschera contemporanea in cui il visore permetteva l’accesso a una stanza/spazio privato e ai ricordi di una persona/personaggio realmente esistita, permettendo di aprirne i cassetti, di attivare le foto alle pareti, di rispondere al telefono o di guardare filmini che scorrevano dentro un televisore: un esperimento interessante di vicinanza tra la creazione di uno spazio che rispetta storicamente la linea temporale delle memorie personali che vi abitano e lo spazio mobile dei pensieri, delle emozioni, della politica e della storia.