MATTEO BRIGHENTI | «Non so bene come si diventi fatta o fatto di teatro. Sicuramente se ne vedi parecchio sei con noi!» Lo dice Simone Pacini, bisogna credergli: lui è il primo dei fattiditeatro. Gruppo su Facebook dal 2008 (oltre dodicimila membri, la più grande community teatrale on-line), poi sito, altri social media, e adesso anche un podcast, Fatti di teatro – la storia del teatro come non te l’ha mai raccontata nessuno, prodotto da Clacson.Media, su tutte le principali piattaforme.
Otto puntate, da ottobre a gennaio, dieci minuti circa la durata di ciascuna, tono colloquiale, registro diretto e spregiudicato, come le città tra cui Simone si divide, cioè Roma, Milano e Prato. «Ho deciso – spiega – di concentrarmi sul teatro italiano, dalla Commedia dell’arte al Novecento, evitando la stagione del melodramma. È una scelta personale, è l’arco temporale che preferisco e ciò su cui mi ritenevo più pronto per affrontare l’avventura».
La quarta puntata, in uscita il 18 novembre, è su Eleonora Duse. «Sono stato molto combattuto e alla fine ho ceduto al gossip: parlo della sua tormentata love story con Gabriele D’Annunzio. Mi concentro su contenuti pop, nel senso buono di “popular”».

La copertina del podcast “Fatti di teatro” di Simone Pacini

Il racconto del teatro appartiene al marchio fattiditeatro almeno dal 2012, con centinaia di laboratori in tutta Italia, che mettono in collegamento gli strumenti digitali, i social, con le arti performative.
Inoltre, ci sono i live su Twitter, le Stories su Instagram e dal 2015 le interviste fatte con il #SelfieStick – «ora mi sono evoluto, ho un gimbal» – a più di trecento protagonisti della scena contemporanea.
Il podcast Fatti di teatro è l’ultima mutazione di Simone Pacini sul web e in questa intervista affrontiamo come è costruito e come ci è riuscito, ripercorrendo la sua rincorsa dall’inizio, anzi, da prima dell’inizio. Perché le idee non bastano: ci vuole studio, lavoro, impegno. Ci vuole fiducia. Io, ad esempio, penso a un podcast sul teatro da più di quattro anni, ma è ancora solo un’idea. E infatti, sono io che intervisto Simone, non il contrario.

Cominciamo da qui: che cosa significa per te realizzare un’idea?

Essendo un libero professionista che lavora nel mondo della comunicazione, ho sempre pensato che bisogna continuamente aggiornarsi, fare qualcosa per primi, stupire. È anche un po’ il mio carattere, mi annoio a fare sempre le stesse cose, sempre la stessa strada. Quando ho lanciato il primo corso sui social nel 2012 molti non avevano capito di cosa volevo parlare. Qualcuno non l’ha capito ancora adesso!
Di solito le idee mi vengono la mattina presto, spesso mentre cammino. Cerco di pianificare tutto con largo anticipo e cerco subito di capire che tipo di investimento, in termini economici, ma anche di ore di lavoro, mi occorrerà. E poi, cerco di capire se è un’idea con la quale potrò guadagnarci, se invece mi permetterà solo di andare in pari, oppure se è un’idea che mi costerà e basta. Di solito queste ultime le abbandono.

Come passi, quindi, dall’astrazione del pensiero alla pratica dell’azione?

Tendenzialmente cerco ogni volta un confronto sulle idee che mi vengono. E raramente sono andato da solo fino in fondo. Cerco qualcuno che mi accompagni. Se arriva un imprevisto, un ostacolo, è capitato che abbia trasformato la realizzazione dell’idea in corso d’opera. Credo che sia importante non affezionarsi ai progetti ed essere sempre attenti agli stimoli che ti danno la vita e l’ambiente che frequenti.

Veniamo al podcast. Come ti è nata l’idea?

Il primo podcast che ho ascoltato è Hacking Creativity di e con Edoardo Scognamiglio e Federico Favot. È un podcast a due voci sulla creatività in generale. Cercavo un podcast non troppo mainstream che potesse ispirami. E l’ho trovato. Infatti, lo ascolto tutt’ora! Poi sei arrivato tu, sì proprio tu Matteo, che un giorno a non so quale festival mi consigliasti di ascoltare La città dei vivi di Nicola Lagioia. Da lì ho ascoltato moltissimi true crime, tra cui il meraviglioso Indagini di Stefano Nazzi, che continua imperterrito ogni primo del mese.

La copertina del podcast “La città dei vivi” di Nicola Lagioia

Io? Ma pensa tu, nemmeno mi ricordo quando ti parlai de La città dei vivi, un grande podcast dall’omonimo, strepitoso libro per Einaudi di Lagioia, autore anche di quella Ferocia messa in scena da VicoQuartoMazzini. Poi, cos’è successo?

A un certo punto ho iniziato a pensare di lanciarmi nell’avventura di creare qualcosa di mio. Ma dovevo formarmi. A gennaio ho iniziato il corso Diventa un podcaster della scuola di scrittura Genius di Roma. Ad aprile ho frequentato la Settimana del Podcast promossa da Assipod, l’Associazione italiana dei podcaster indipendenti. Ho scoperto un mondo, grazie anche alle competenze e all’entusiasmo del suo presidente Giulio Gaudiano, podcaster da oltre dieci anni. Lì ho conosciuto Daniela Zeziola, anche lei podcaster e fondatrice, insieme ad Alessandro Casale, di Clacson.Media, società che produce format video e podcast. Inizialmente non volevo fare un podcast sul teatro, ma Daniela mi ha convinto di quanto fosse importante in primis parlare alla mia community. Lì è nata l’idea del podcast, che è prodotto da loro.

Il teatro è il “luogo dello sguardo”. Lo sguardo, però, è strutturalmente assente in un podcast. Come ti sei confrontato con questa contraddizione?

L’ho presa come una sfida: è proprio questa contraddizione che mi ha ispirato, oltre al fatto che il teatro nell’universo podcast è quasi inesistente. Quello che sto cercando di fare in questo mio primo “show” è costruire immagini con la voce, raccontare aneddoti, far innamorare chi mi ascolta di Giorgio Strehler o della Duse. Questo “scrivere per il parlato” è la grande sfida di un podcast come il mio; poi c’è il tappeto sonoro che gioca la sua parte.

Perché sei partito dalla storia del teatro, invece che dall’attualità? Forse, quello sull’attualità del teatro sarà il tema del tuo prossimo podcast?

Inizialmente non volevo fare un podcast sulla storia del teatro, per questo avevo scritto un progetto che al momento ho messo da parte. In tutto ho almeno tre progetti che vorrei sviluppare, quando finirò la prima serie di Fatti di teatro cercherò di capire quale sia il migliore da realizzare.

Il libro usato per preparare la seconda puntata dedicata a Giorgio Strehler e Paolo Grassi. Foto di Simone Pacini

I primi tre episodi sono sul debutto dei Sei personaggi e sulla rivoluzione di Luigi Pirandello, sulla nascita del Piccolo Teatro di Milano e sulla rivoluzione di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, e su Arlecchino – peraltro uno dei capolavori messi in scena proprio da Strehler. Con quale criterio costruisci le puntate?

Dopo aver trovato l’incipit, l’episodio scatenante, mi concentro sulle fonti. Spulcio nella mia libreria, leggo saggi presi in prestito dalle biblioteche, cerco interviste su Raiplay e su Youtube. Ho fatto anche qualche prova con ChatGPT, ma il risultato non mi ha convinto. Dopo una prima stesura mi occupo di “colorare” un po’ il testo attraverso descrizioni, sentimenti e un tocco personale. I vari episodi sono volutamente slegati tra di loro, perché trattandosi di un podcast “orizzontale”, si può anche decidere di ascoltare una sola puntata.
A proposito: quattro puntate sono già scritte, di altre tre il tema c’è già. Per l’ultima puntata, quella di gennaio, mi piacerebbe fare un sondaggio da rivolgere alla mia community su Telegram. Chiunque può entrare, basta iscriversi su https://t.me/fattiditeatropodcast.

Come hai scelto numero e durata delle puntate?

Per queste scelte tecniche mi hanno indirizzato molto Daniela e Alessandro di Clacson.Media. Otto puntate ci sembrava un numero giusto, anche per avere un biglietto da visita per costruire nuovi progetti. La durata è venuta da sé, ovviamente non c’è la presunzione di raccontare tutto Pirandello in dieci minuti! Dopo la prima puntata ne abbiamo pubblicata un’altra dopo una settimana, così chi si imbatteva nel podcast aveva già due storie a disposizione. Poi, abbiamo scelto un’uscita quindicinale per esigenze di produzione. Il 16 dicembre esce la puntata di Natale.

A chi ti rivolgi quindi? Qual è il tuo pubblico? 

Mi rivolgo in primis, come ho già detto, alla mia community, ovvero a chi segue i canali di fattiditeatro, partecipa agli eventi che seguo o ai laboratori che organizzo. Ma mi piacerebbe arrivare a chiunque ascolti i podcast e sia appassionato di cultura. A chi, ad esempio, non conosce molto il teatro, ma segue il cinema o la letteratura. Per questo, i protagonisti sono tutti personaggi famosi. Nomi conosciuti anche a chi non si occupa di teatro.

Foto di Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2023

Ti sei posto come obiettivo quello di semplificare, senza banalizzare?

Banalizzare è il mio incubo, quindi la prima cosa che faccio è sempre trovare un episodio curioso che catalizzi l’attenzione dell’ascoltatore. Ad esempio, i fischi a Pirandello o l’incontro di Grassi e Strehler alla fermata del tram. Quando racconto questi episodi a chi non è del settore il sentimento generale è sempre quello di grande stupore e curiosità.

Domanda interessata: quali consigli daresti a chi, come te, vorrebbe fare un podcast partendo da zero?

Intanto, ascoltare quanti più podcast possibile, ce ne sono migliaia e molto interessanti, soprattutto tra i cosiddetti podcast indipendenti. Basta andare, ad esempio, su www.podcastindex.org e fare delle ricerche. E poi, cercare di parlare di qualcosa di cui ancora non ha mai parlato nessuno, avendo ben chiaro il proprio target di riferimento.

Infine: perché fattiditeatro è scritto tutto attaccato, mentre nel titolo del podcast è staccato?

Fattiditeatro è fratello di fattidicinema, un gruppo di discussione Yahoo! che ho fondato insieme ad alcuni colleghi di università e di visioni nel 2003. Sto parlando degli albori del web 2.0! Anche fattidicinema era scritto tutto attaccato. Il motivo era, forse, enfatizzare questo gioco di parole tra i fatti, ovvero gli avvenimenti del teatro, e le persone “fatte” di teatro. Ma non mi ricordo bene cosa mi passava per la testa vent’anni fa.
Io volevo chiamare il podcast Fatti del teatro: creare una minuscola differenza per far capire che era un progetto che andava oltre il digitale, che è da quindici anni il mio ambiente. Poi, mi hanno convinto a usare lo stesso nome, e quindi ho staccato le parole per differenziarmi un minimo dal sito e dai social. Mi raccomando, però: sulle piattaforme di podcasting cercatelo scrivendolo staccato!