IDA BARBALINARDO* | «Quanto sono detenuto io, Armando Punzo? E quanto siamo detenuti noi che ci pensiamo persone libere?»: con questi interrogativi, 35 anni fa, il fondatore della Compagnia della Fortezza entra per la prima volta nel carcere di Volterra dando vita a un progetto teatrale che ancora oggi non ha eguali. Il regista e drammaturgo campano, infatti, non era e tuttora non è interessato alla Fortezza in quanto “carcere”, ma in quanto “prigione”, ovvero metafora della condizione umana e luogo in cui mettere alla prova il teatro da zero. Grazie a questo approccio, il carcere di Volterra è diventato, negli anni, una realtà tanto all’avanguardia da permettere l’ideazione di un progetto di un teatro stabile al suo interno.
In seguito alla messinscena de Il figlio della tempesta, concerto-spettacolo che ripercorre il percorso artistico della compagnia, presso il Teatro Koreja, abbiamo intervistato Armando Punzo.

Qual è stata la reazione del pubblico – specie di quello che vi ha seguito meno nel corso degli anni – di fronte a questo viaggio nella storia della vostra compagnia?

Questo è un lavoro che richiede una certa partecipazione da parte del pubblico e che finora non ha incontrato particolari resistenze, ma, al contrario, una grande adesione: emblematico in tal senso è l’entusiasmo che ci ha travolti a dicembre al Teatro Koreja, un luogo – lasciami dire – tecnicamente impeccabile, in cui ci hanno accolto al meglio, e con un pubblico straordinario che indica che è stato fatto un gran bel lavoro.
Con Il figlio della tempesta raccontiamo, anche se in breve, i tantissimi anni della Compagnia della Fortezza attraverso i miei testi, immagini varie, e alcune tra le più belle musiche composte da Andrea Salvadori.
In generale, come compagnia siamo famosi per il livello tecnico-artistico dei nostri spettacoli e abbiamo quindi superato l’idea di un riscontro per forza positivo da parte dello spettatore solo perché si tratta di un’esperienza che si svolge in carcere: è fondamentale specificarlo, perché in questo consiste la differenza tra la Compagnia della Fortezza e altri progetti nati all’interno di strutture carcerarie. Nella mia storia non c’è nessuna strizzata d’occhi al buonismo o a una specifica ideologia.

ph. Nico Rossi

In principio cosa le ha fatto credere che un simile progetto potesse fare al caso suo? E si è mai accorto, in corso d’opera, di avere dei pregiudizi di cui si è poi dovuto spogliare?

Un’idea più grande di me, il libro scritto insieme a Rossella Menna per Luca Sossella Editore, è una sorta di testamento artistico dove affronto proprio queste questioni, perché so che ci sono tante idee in merito. Il carcere innesca reazioni diverse, favorevoli o contrarie, negative o positive, ma anche una medietà di chi, invece, sta in sordina e non si esprime, non vuole dire nulla.
Io non sono entrato nella Fortezza per i detenuti o per il contesto in sé, ma perché avevo una questione artistica da risolvere e questa, probabilmente, è stata la salvezza del progetto: mi trovavo a Volterra perché era appena terminata una fase per me importante, vissuta all’interno del gruppo internazionale L’avventura, che affondava le sue radici nell’esperienza di Grotowski e, per continuare a fare teatro, potevo scegliere di tornare a Napoli o di spostarmi in un’altra città come Roma o Milano.
Decisi, invece, di restare a Volterra e, alzando gli occhi sulla Fortezza, incominciai a pormi la questione del carcere inteso però come “prigione”, come metafora della condizione umana: quanto l’uomo può essere prigioniero di sé stesso? Quanto sono detenuto io, Armando Punzo? E quanto siamo detenuti noi che ci pensiamo persone libere? Pensai che lì dentro avrei potuto mettere alla prova il teatro da zero con persone che molto probabilmente non avevano nulla a che fare con la cultura, l’arte, la poesia, la bellezza, l’immaginazione.
Questa è stata la motivazione del mio ingresso in carcere, ciò che mi ha permesso di fare un’operazione artistica e non pensare ai detenuti in quanto tali, di attivare possibilità straordinarie di lavoro rispetto al teatro, nuove potenzialità. Come dire, ho trattato il carcere proprio dal punto di vista artistico, non sociale o riabilitativo, per quanto so benissimo che il progetto, proprio perché l’ho concepito in questo modo, è diventato poi fortemente attivo rispetto alle persone che vi partecipano.

Trovarsi in un contesto dalle dinamiche peculiari, sia in termini di dilatazione del tempo che di umori necessariamente influenzati dalla particolare condizione, l’ha portata ad avere un approccio diverso rispetto a quando ha lavorato all’esterno con attori professionisti?

Innanzitutto c’è da dire che per la maggior parte del tempo sono a lavoro dentro alla Fortezza. Quando ho condotto laboratori all’esterno o quando mi è capitato di fare spettacoli con attori professionisti, ho sempre lavorato allo stesso modo, perché a me non interessa una categoria specifica, ma l’essere umano. Poi ognuno è sicuramente portatore di biografie e culture diverse, però il concetto rimane lo stesso e il processo lavorativo, di conseguenza, è identico.
Chiaramente nel momento in cui lavoro in carcere tengo conto di una serie di dinamiche, ma, alla fine, anche considerando il discorso degli stati d’animo, non riscontro particolari differenze: gli stessi attori professionisti possono presentarsi alle prove portandosi dietro preoccupazioni personali, anche se magari spesso sono bravi a non farle pesare. Se poi il privato debba mischiarsi con il teatro o debba essere contenuto, quella è una questione di regole, disciplina e necessità.
Di mio faccio un lavoro abbastanza complicato per arrivare ad approcciarmi a un tema che voglio trattare ed è una pratica che trovo difficile sia che siano coinvolti i detenuti che gli attori professionisti. L’unica differenza ravvisabile, magari, è la presenza di un maggior bagaglio culturale nel caso degli attori del “fuori”, ma di questo se ne può fare anche a meno. Non è un limite.

Magari, a volte, può restituire anche maggiore verità.

Non so, la questione della verità in scena credo sia sempre un fatto tecnico, una questione estetica: non significa essere sé stessi sul palco, casomai è l’utilizzo della propria vita, del proprio sentire. Secondo me la possibilità della verità dipende da quanto si percepisce la spinta a mettersi in gioco in prima persona, in contrasto con chi, invece, pensa che basti fare il giusto senza esagerare.

La differenza tra l’urgenza e l’esercizio di stile.

Sì, ma anche proprio il mestiere. Il fatto che a un certo punto si diventi mestieranti, si riesca a fare un po’ tutto a un certo livello e che, nonostante ciò, il pubblico avverta lo scarto quando ha di fronte qualcuno che ha una forte necessità, un bisogno di vita e di morte. Chi vive in questi termini fa la differenza, che sia detenuto o attore professionista.

Un’operazione così complessa, un cammino così lungo e particolare, immagino siano anche il prodotto della collaborazione con le persone giuste. Ha avuto difficoltà a crearsi un’adeguata rete di supporto per portare avanti il suo progetto?  

No, le problematiche sono sempre e solo state legate alle condizioni economiche, a quanto tempo si è potuto lavorare insieme e con quante persone. Adesso, infatti, è partito il progetto di realizzazione del teatro stabile all’interno del carcere e questo permetterà di formare a dovere ai mestieri del teatro.
Chiaramente non ho fatto tutto da solo: c’è un’associazione che è completamente dedicata al progetto della Fortezza e che è nata e si è sviluppata in quella direzione e l’associazione Carte Blanche che gestisce le attività della compagnia. C’è tutto il settore artistico che è composto da musicista, costumista, scenografi, assistenti vari e il gruppo di attori dei quali un’ottantina vanno in scena e altri, che magari preferiscono stare dietro le quinte, si occupano della realizzazione dei costumi e delle scenografie. Dietro al prodotto finale c’è dunque un bell’insieme di persone.

Ha spesso parlato del concetto di “utopia concreta” come una delle finalità di questo progetto, dell’idea di creare un’altra umanità, nuova. In questi anni ha visto effettivamente i germi di questa rivoluzione? Ha notato un assottigliarsi della separazione tra il “mondo del fuori” e il “mondo del dentro”?

Ma guarda, l’ho fatto dal primo giorno in cui sono entrato in carcere 35 anni fa: ho chiesto immediatamente di presentare il lavoro al pubblico e oggi, a distanza di tanto tempo, la Fortezza è una struttura all’avanguardia e tutto questo non tanto grazie al mio arrivo – io sono stato solo uno strumento – ma grazie al teatro che ha completamente trasformato quel luogo. E così ho continuato negli anni, fino addirittura a realizzare alcune stagioni del Festival VolterraTeatro completamente all’interno del carcere, lasciando che si avvicendassero gli spettacoli della Compagnia della Fortezza con quelli dei gruppi esterni ospitati nei vari spazi della struttura come i cortili o la chiesa sotterranea. Come dire, dietro al mio lavoro c’è sempre stata l’intenzione di trasformare il carcere in un teatro o anche solo di immaginarlo come tale.

IL FIGLIO DELLA TEMPESTA. MUSICHE, PAROLE E IMMAGINI DALLA FORTEZZA.

di e con  Andrea Salvadori  e  Armando Punzo
regia Armando Punzo

Compagnia della Fortezza
Teatro Koreja, Lecce

* PRIMAVERA PAC è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.