GIULIA BONGHI e RENZO FRANCABANDERA | RF: Proprio come una vera tragedia, e quindi filologicamente con quattro atti e un epilogo: questa la struttura drammaturgica che il particolarissimo team di drammaturghi composto da Gianni Fantoni, Andrea Porcheddu e Carlo Sciaccaluga ha ricavato per Fantozzi. Una tragedia, lo spettacolo con cui il regista Davide Livermore, direttore del Teatro Nazionale di Genova che co-produce lo spettacolo, porta in scena l’immaginario impiegatizio-piccolo borghese scaturito dalla fantasia di Paolo Villaggio.
L’opera letteraria dello scrittore e attore genovese fotografava l’Italietta del boom, le sue ambizioni, spesso frustrate, ma anche l’inscalfibile divisione della società in classi impermeabili, i desideri, e soprattutto le sfortune che, come le nuvole cariche di pioggia, incombono sui poveri cristi.
Villaggio stesso portò al cinema il suo personaggio, interpretandolo e traendone un successo di rilevanza mondiale e, come tutti i segni fortissimi, non fu più eguagliato e rimase vetta (ma anche prigione) dell’artista e della persona.

GB: La tragedia rappresenta un unicum, prendendo volutamente ispirazione dai libri originali, anziché dalle più note trasposizioni cinematografiche della saga di Paolo Villaggio.
Pubblicato nel 1971, Fantozzi ha dato vita a quell’impiegato scalognato e alle sue iperboliche sventure. Oggi Davide Livermore, artista poliedrico, porta il mitico personaggio sul palcoscenico, con una co-produzione che parte a Genova dal Teatro Ivo Chiesa.
Il sincretismo evidente tra il comico e il tragico è manifestato fin da subito e viene esplorato attraverso una drammaturgia articolata in quattro temi principali – il rapporto di Fantozzi con il lavoro, con le donne, con lo sport e con la coscienza di classe. La struttura di matrice greca pone il teatro stesso come vero protagonista di questa epica saga.
Lo spettacolo, dunque, si apre con un prologo meta-teatrale, seguito da quattro atti che attraversano l’esistenza miserabile di Fantozzi, padrone assoluto del telecomando e, talvolta, autentica belva umana, accompagnato da altri peculiari personaggi che commentano il suo destino infelice, intervenendo come coro. Conclude un epilogo che enfatizza il confronto con la contemporaneità, nel quale il protagonista si rivolge al pubblico chiedendo se possa essere considerato lui il fallito, se debba essere solo lui oggetto di riso.
Diviso quindi in episodi, lo spettacolo offre al pubblico un’esperienza coinvolgente e appassionante attraverso le vicende tragicomiche del leggendario eroe del posto fisso, il ragionier Ugo Fantozzi, interpretato da Gianni Fantoni, armato delle proprie mutande ascellari.

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RF: In scena con Fantoni che incarna in somiglianza totale il Fantozzi di Villaggio, per postura, parlata e mimica, ci sono Paolo Cresta, Cristiano Dessì, Lorenzo Fontana, Rossana Gay, Marcello Gravina, Simonetta Guarino, Ludovica Iannetti, Valentina Virando: sono tutti impiegati dalla regia in più ruoli, a dar vita sia alle maschere del noto ambiente di lavoro fantozziano, sia a una serie di figure pensate ad hoc per questa trasposizione teatrale, che a più riprese rivendica per sé stessa un’operazione filologica, fondata appunto sui primi tre libri della saga.
Fantoni, come detto, ha avuto un ruolo speciale in questo allestimento, essendo diventato, nel tempo, erede dell’icona del personaggio, in un passaggio di testimone fra lui e Villaggio, di cui ha di fatto sussunto il sembiante. Quindi più volte si fa portavoce di un teatro che spiega al pubblico nella sala bolognese del Teatro delle Celebrazioni, dove lo spettacolo è arrivato come seconda tappa, il senso e la volontà specifica di portare sul palcoscenico la saga nella società di cinquant’anni dopo.
I drammaturghi affidano (oltre che a questi frequenti – forse troppo – richiami al fatto che si sia a teatro e che l’ispirazione non sia quella filmica) a un personaggio-didascalia il ruolo di medium incaricato di trasportare allo spettatore di mezzo secolo dopo (quindi specie quello più giovane) il senso delle vetuste ambizioni, degli status symbol del tempo.
In realtà, la questione dell’ispirazione e del collegamento diretto libro-teatro è ambigua, perché se è vero che il fondamento drammaturgico è quello della scrittura, la presenza di Fantoni clone del personaggio cinematografico, come d’altronde delle musiche della colonna originale del film, pongono la resa scenica in una posizione più intermedia: impossibile, come ovvio, non fare i conti con le aspettative del pubblico, che a quell’immaginario cinematografico erano e sono legati. L’operazione registica si fa necessariamente più scivolosa, dovendosi muovere in un delicato equilibrio fra rimando all’archetipo e bisogno di distaccarsene, cercando una via specifica del fatto teatrale.

GB: Una delle caratteristiche più suggestive di questo spettacolo è la quasi completa mancanza di scenografia: una pedana bianca inclinata, un fondale nero scorrevole e le quinte. Ogni dettaglio viene lasciato all’immaginazione dello spettatore. La scatola scenica vede il susseguirsi delle vicende quotidiane di Fantozzi, negli ambienti cruciali della sua vita: l’ufficio-cella della Megaditta condiviso con Filini, il campeggio delle vacanze “alternative”, la sala da biliardo dell’Avvocato Catellani, il ristorante giapponese, il campo da tennis, finanche l’iconica “Bianchina” personificata dagli attori stessi.
Livermore e il team drammaturgico riescono a catturare l’essenza dei libri di Villaggio e allo stesso tempo a creare un confronto con le ingiustizie e le sfortune del nostro tempo. La drammatizzazione narrativa dei personaggi e la loro tragica quotidianità si muovono su un terreno che sembra quello del sogno, in cui la vita ordinaria è farcita di sventure improbabili.
“Fantocci” – per i colleghi -, sua moglie Pina, la scimmiesca figlia Mariangela, la signorina Silvani, il collega Filini, Fracchia, Krantz e Calboni, tutti i personaggi agiscono in uno spazio essenziale, arricchito da invenzioni sceniche che sorprendono per la loro semplicità ed efficacia. Dalla tipica nuvoletta fantozziana alla pioggia di palline da tennis che invade la scena, fino alle palle da biliardo antropomorfe che animano l’esilarante partita tra Fantozzi e Catellani.

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RF: Lo spettacolo ovviamente ricalca e ripropone le scene-madre dell’immaginario collettivo, a volte correggendo il taglio per riproporle non come nel film, ma come nel libro (come nel caso della famosa partita in sovrapposizione alla proiezione fiume del film La corazzata Potëmkin, diverso nel libro). Certamente viene evitata la tentazione di proporre personaggi clone del fatto filmico, ulteriori rispetto a quello iconico del protagonista. Qui e là qualche tiepido rimando nei costumi (Anna Verde) e nel trucco, come nel caso del mega direttore. La cosa di per sé spiazza e trasferisce in una dimensione straniante che viene amplificata dalla scelta scenografica.
Ma la forza dell’allestimento si ha quando il teatro fa il teatro, quando l’invenzione creativa prende il sopravvento sull’archetipo. Alcune trovate, quelle meno didascaliche e di rimando al già noto, come la bellissima partita a biliardo, come hai ricordato, con le palline umane e altre invenzioni della scena di puro teatro, e che quindi hanno il coraggio di segnare la differenza mediale, risultano di particolare efficacia, con un tempo scenico che invece nell’incorporazione dell’ironia e della satira sociale talvolta sfugge. Per esempio, sui suoni ci sono scelte di doppiaggio in salsa fumettistica eseguiti live di particolare interesse.

GB: I suoni sono parte integrante della rappresentazione: gli attori li riproducono direttamente sul palco, mimando e creando effetti sonori con versi e rumori onomatopeici, trasportando lo spettatore in un universo vivido e immaginifico.
Nelle fonti letterarie Fantozzi vive e lavora a Genova, città natale del suo creatore. Villaggio aveva lavorato come impiegato nell’azienda Italimpianti e Fantozzi era il cognome di un collega che lo chiamava erroneamente “Selvaggio”. Quello era il luogo d’ispirazione per gli sketch che raccontano, facendo largo uso dell’iperbole, la vita di un italiano medio degli anni ’70. Assieme alla narrazione della mediocrità c’è anche la denuncia di un mondo triste e ingiusto, delle aziende spietate, degli arrivisti e dei doppiogiochisti, di un governo e di una società figli di un fascismo superstite. Erano comunque gli anni del boom economico, dove tutti erano ricchi e i Fantozzi erano più un’eccezione. Ridere del lato tragico della realtà era forse più semplice.
Oggi Paolo Villaggio, assieme al suo bagaglio di maschere grottesche, è stato riportato a Genova, città che aveva presto lasciato forse per allontanarsi dal mondo delle grandi aziende che aveva conosciuto. Icona di uno spaccato dell’Italia, Fantozzi è anche emblematicamente genovese, dal carattere schivo e allo stesso tempo disincantato. Indossa sempre il suo copricapo, il tipico spagnolin blu genovese, che porta spostato di lato quando è sicuro di sé o appiattito sulla testa nei momenti peggiori.
Nell’ambiente surreale di Livermore torna il racconto di Villaggio della società italiana dal punto di vista umano e politico. Assieme alle risate, gli orrori. Quelli che viviamo noi oggi e quelli che subiva Fantozzi, prorompendo con il suo incessante scusarsi e ringraziare: «Come è umano lei!».

RF: Il notevole disegno luci di Aldo Mantovani (da premio), con intonazioni algide, mai da ambiente, ma da atmosfera, in stile Bob Wilson, che crea un rimando visivamente utile a immaginare, sostiene il lavoro della regia nel tentativo di creare un immaginario astratto, distinto e theatre-specific.
Ci sono molteplici tentativi di portare Fantozzi a oggi e nel medium scenico, sia nel testo (quindi nel lavoro drammaturgico) che nello spettacolo (dunque in quello registico). Alcuni risultano più riusciti di altri. È una sfida complessa quella di cui si è fatto carico questa interessante squadra di lavoro, specie perché si confrontava con un segno primigenio molto potente ed efficace.

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L’operazione è ambiziosa: condensare tanta storia della satira sociale e trasportarla in un tempo adatto al teatro, sia in termini di durata complessiva che di tempo del comico, non è cosa semplice.
Il tentativo ha usato mezzi e idee importanti, coinvolgendo una squadra notevole per un lavoro collettivo, e questo è un risultato, unito a quello di provare a fare un lavoro non scontato di rilettura delle maschere (altro non facile risultato). E proprio in questa prospettiva, secondo me, questo lavoro porta il suo contributo più importante.
È l’antico interrogativo di Duchamp quando diceva: in che modo posso confrontarmi con La Gioconda di Leonardo? Posso ricopiarla? Devo dissacrarla? Lui e Basquiat, per esempio, a questo stesso esercizio hanno dato risposte molto diverse. Questo di Livermore, a mio avviso, ambirebbe per istinto ad avvicinarsi alla seconda, alla dissacrazione della forma, a-là Basquiat, insomma. Ma con la presenza scenica di Fantoni, pur filologica e importante, si costringe a fare i conti con la prima, ovvero con la preservazione della forma originaria, a cui provare ad aggiungere dei dissacranti moustache.

FANTOZZI. UNA TRAGEDIA

da Paolo Villaggio
drammaturgia Gianni Fantoni, Andrea Porcheddu, Carlo Sciaccaluga
regia Davide Livermore
interpreti Gianni Fantoni, Paolo Cresta, Cristiano Dessì, Lorenzo Fontana, Rossana Gay, Marcello Gravina, Simonetta Guarino, Ludovica Iannetti, Valentina Virando
allestimento scenico Lorenzo Russo Rainaldi
costumi Anna Verde
supervisione musicale Fabio Frizzi
luci Aldo Mantovani
Regista assistente Laura Cleri
Assistente alla regia Alessia Camera
Assistente alle scene Francesco Isgrò
Assistente ai costumi Francesca Sartorio

Cast tecnico
direttore di scena Vincenzo Sorbera
capo macchinista Marco Visone
fonico Luca Nasciuti
sarte Monica Rosini, Giulia Iacovacci
produzione Teatro Nazionale di Genova, Enfi Teatro, Nuovo Teatro Parioli, Geco Animation

Teatro delle Celebrazioni, Bologna | 16 febbraio 2024