ESTER FORMATO | Come tremano le cose riflesse nell’acqua trova la sua ambientazione al Teatro Studio Melato il cui spazio scenico, concepito in pianta semicircolare e senza tradizionali quinte laterali, fornisce alla nostra visione una modernissima living room vista lago che lo scenografo Giuseppe Stellato immagina al di qua di un imponente finestrone che magnetizza il nostro sguardo e che troneggia su un ambiente dai colori caldi e accoglienti, confortevole, naturalista e contemporaneo, delineato da luci accurate che esaltano i giochi cromatici idealmente riflessi sullo specchio d’acqua.
Su questa scena pulita e curata fa capolino nella penombra un giovanissimo scrittore, interpretato dal bravo Giovanni Cannata, che sogna con la sua amata Nina (notevole Petra Valentini), attrice emergente, di dar vita alla loro arte tramite la sua scrittura. Il binomio arte e vita è la quintessenza di questo amore giovanile che dà colore alle mura della grande casa. Come una coppia di giovanissimi innamorati, essi si ritengono unici l’uno per l’altra, il legame – credono – si imprime nelle loro anime come cartina al tornasole del talento di entrambi, in potenza, e che da un momento all’altro si trasformerà in atto.

Foto di scena: Masiar Pasquali

Ma le nubi si addensano intorno alla loro isola felice: il loro slancio artistico e sentimentale è repentinamente offuscato dall’ingombrante madre del ragazzo (Laura Marinoni, perfetta in questo ruolo), nota attrice che, fedelmente al testo cechoviano, non si risparmia nel suo egocentrismo. Si presenta nella casa sul lago con il nuovo compagno, uno scrittore di gran successo, pieno di sussiego, schivo e sfuggente, quasi freddo, interpretato da Roberto Latini.
Innamorata di lui, l’attrice, ormai nel pieno della sua maturità, ne celebra il talento screditando quello del figlio, dando continuamente riprova dell’assenza di qualsiasi istinto materno. Cristallizzata nel ruolo della Gertrude scespiriana grazie a cui è stata consacrata al successo, fa di quello un novello Amleto che si relaziona a lei in maniera castrante.
Per tutta risposta, il giovane scrittore perennemente in pantaloncini, t-shirt e scarpette, avvilito dall’immobilità che aleggia in casa e incapace di rendersi indipendente dall’ossessiva ricerca dell’approvazione materna, uccide un gabbiano e finisce per rifugiarsi in un ozio improduttivo. Avviluppato in tali dinamiche, perde Nina, che si avvicinerà in maniera inesorabile allo scrittore, già compagno della padrona di casa, in nome di un nuovo sodalizio artistico che si rivelerà, alla fine, una tragica illusione.

Liv Ferracchiati è molto attento a non mettere in scena una riscrittura scontata o approssimativa de Il Gabbiano ma si relaziona a esso con disinvolta elasticità cercando, con un ampio margine di rischio, di coglierne sfumature insite nei caratteri, al fine di proporre una drammaturgia e uno spettacolo a sé stanti. Perciò, i nomi originali del dramma sono quasi del tutto taciuti; ogni personaggio, infatti, travalicando i confini del testo, diviene manifesto universale, a eccezione di Nina il cui nome è emblema ed essenza del dramma.
Su di lei, sul giovane scrittore e sulla madre e il suo compagno è conservato, tuttavia, il focus, sebbene proprio lo scrittore che dovrebbe suscitare profondi rimandi e porsi specularmente al giovane protagonista, appaia in tono minore e non trovi lo spazio consono al ruolo cruciale che dovrebbe rappresentare.
Intorno, una corolla di personaggi arricchisce la scena: un eccellente Nicola Pannelli dà vita a quello che in Čechov era Sorin, poi c’è il medico (Marco Quaglia), che tutto coglie e osserva, affettuoso amico di famiglia sotto i cui occhi si consumano i drammi intimi di tutti i personaggi; per concludere, poi, l’infelice amica d’infanzia, la Maşa cechoviana, interpretata da Camilla Semino Favro, vanamente innamorata del protagonista, che addirittura ne schiva e rifugge ogni sorta di contatto e che poi sposerà il suo corteggiatore di sempre, un maestro di scuola (Cristian Zandonella), che durante lo spettacolo finisce per diventarne l’ombra, e quindi un personaggio periferico rispetto agli altri.

foto di scena: Masiar Pasquali

In accordo con uno dei più caratteristici aspetti della scrittura cechoviana, i personaggi non costituiscono mai un assetto corale ma si presentano come un pullulare di individualità nel loro precario equilibrio, attratti fatalmente da quel lago che ondeggia al di là del finestrone con il suo potente richiamo. Non è razionale la forza attrattiva che continua a calamitarli verso quel luogo, ma è tanto tangibile da porre un fatale attrito fra ciascuno di essi e la vita stessa. Manca loro lo slancio di un gabbiano, slancio che solo Nina avrà modo di intraprendere, seppur infelicemente.
Razionalizzato il numero dei personaggi rispetto a quelli originari, dalla regia di Ferracchiati traspare una stretta connessione fra la drammaturgia propriamente detta e la visione scenica e dello spazio in cui viene agita la vicenda.
Lo spazio scenico, infatti, prescinde dalla scenografia in senso stretto, non è delimitato convenzionalmente, nonostante la cifra naturalista degli arredi scenici componga un ambiente che assomiglia a un set cinematografico. Tuttavia i personaggi si muovono entro un raggio d’azione differente e maggiore per rendere il luogo stesso concettualmente più profondo ed è per questo che riesce particolarmente d’impatto il relativo smantellamento.
È quasi l’epilogo quando l’ingombrante madre, tralasciati per un po’ i suoi vezzi, guadagna il centro dell’assito semicircolare, avanzando rispetto ai vani interni della sua casa al lago in cui, alternando entrate e uscite, evita di continuo un vero e proprio confronto con il figlio. A questi non resta che entrare in contatto con lei recitando i versi di Amleto al cospetto della regina Gertrude.
Tutt’intorno il tempo e lo spazio subiscono una vorticosa accelerazione: l’assetto della loro casa scompare, l’assemblaggio scenico viene portato via pezzo dopo pezzo e il pubblico traghettato verso un salto temporale che vede il giovane scrittore possidente della stessa casa, ormai austero e spento, con una madre che non ha mai approvato il suo talento e un amore perduto per sempre. Il dispositivo scenografico deflagra sotto i nostri occhi, così come le vite che quell’ambiente aveva ospitato.
In questo vuoto che la regia imprime alla conclusione dello spettacolo, assistiamo allo spaesamento dei personaggi, come il vecchio zio che si addormenta in un canto laterale della scena su quel che resta degli arredi, o il giovane maestro che è tornato a cercare sua moglie e si aggira fra quelle mura immaginarie, cercando i pezzi della sua infelicità. Un’infelicità intollerabile che non riesce a colmare l’assenza di Nina.
Quest’ultima finirà per ricomparire, nel pieno della sua disperazione e desolazione, come dalla superficie ghiacciata del lago. È di un bianco accecante il retropalco che apre – quasi come una citazione dello storico Giardino dei ciliegi di Giorgio Strehler – a una dimensione metafisica in cui i due protagonisti trovano il loro fatale compimento.

foto di scena: Masiar Pasquali

Complessivamente, lo spettacolo di Ferracchiati offre una narrazione di ampio respiro e una visione teatrale di caratura europea; non teme, infatti, di cimentarsi con un testo ardito e articolato di cui, pur mantenendone l’assetto, distilla la materia, cercando di alleggerirne la complessità, come forse già il titolo ripreso da David Foster Wallace vuol chiarire, mettendo un po’ in disparte la riflessione cechoviana sull’arte che traspare da Il Gabbiano.
Come tremano le cose riflesse nell’acqua ricerca nei suoi protagonisti un fremito che, come energia vitale, fugace e inconsistente, muove misteriosamente le nostre anime, in equilibrio fra smarrimento e slancio e che vede i personaggi stessi attraversare il tempo e lo spazio con la leggerezza degli origami.

COME TREMANO LE COSE RIFLESSE NELL’ACQUA 
(čajka)

drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati
liberamente ispirato a Il gabbiano di Anton Čechov
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Emiliano Austeri
suoni spallarossa
video Alessandro Papa
consulenza letteraria Fausto Malcovati
con (in ordine alfabetico) Giovanni Cannata, Roberto Latini, Laura Marinoni, Nicola Pannelli, Marco Quaglia, Camilla Semino Favro, Petra Valentini, Cristian Zandonella
dramaturg di scena Piera Mungiguerra
aiuto regia Anna Zanetti
assistente volontaria alla regia Eliana Rotella 
assistente ai costumi Rossana Gea Cavallo
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Teatro Studio Melato, Milano | 14 febbraio 2024