GIANNA VALENTI | Il suono che ci avvolge e il fondo della scena come grande schermo illuminato. Il buio della sala come attesa di un racconto che inizia proprio lì, sullo schermo, attraverso la parola proiettata. Un racconto che è dichiarazione d’adesione al cinema come forma di scrittura, come desiderio di sperimentazione e che sceglie Agnès Varda come proprio spirito guida. «Trovare una nuova scrittura per il cinema — ci racconta lo schermo — ma questo non è cinema»: è Danse Macabre! A Choreography of Terror, con titolo, sottotitolo, nomi degli interpreti e crediti in caratteri espressionisti come ouverture allo scriptwriting coreografico che Jacopo Jenna offre al nostro sguardo e al nostro corpo.
Per lui, coreografo e filmmaker, il lavoro è una sperimentazione di scrittura della danza che lega i corpi fisicamente presenti in scena ai corpi che lo scorrere del tempo cinematografico colloca in un altrove spaziale. Una compresenza che drammaturgicamente si lega alla ricerca di una dimensione parallela che ci accompagna, mentre lo schermo continua a regalarci frammenti di immaginario in parola: «La fine del movimento… Il desiderio dell’oltre… La stranezza del mondo».

Jacopo Jenna, Danse Macabre!, Interplay24, PH Andrea Macchia

Danse Macabre!, che ha aperto Interplay24, è il progetto coreografico con cui Jenna ha vinto il premio CollaborAction #6 nel 2022 e Étape Danse nel 2023. Del lavoro, in quattro parti, ha curato interamente il concept, la griglia drammaturgica e il suo sviluppo, le coreografie, il montaggio delle video coreografie e il montaggio finale di tutti i materiali proiettati con interventi testuali di Roberto Fassone, mentre il suono, diverso per ogni sezione, è stato creato da Alberto Ricca.
Il giorno successivo alla visione riesco a dialogare con il coreografo sulla nascita e lo sviluppo del lavoro, sulla costruzione dell’universo drammaturgico, sui materiali della danza e sul lavoro con gli interpreti (Ramona Caia, Andrea Dionisi, Francesco Ferrari, Sara Sguotti) e, ancora, sulla sua visione di coreografia come campo relazionale e su ciò che nutre nel quotidiano il suo sguardo coreografico.

Come nasce il desiderio per Danse Macabre! ?

L’interesse era giocato su queste due parole, danza e macabro, sul perché del legame tra il mondo della danza e il mondo del macabro; un legame che non è solo presente nella nostra cultura occidentale cristiana, ma anche in altre culture. Il periodo del Covid ha poi creato un collegamento significativo con la peste e il suo tempo e con la rappresentazione della morte intesa come quantità numerica. Mi sembrava interessante prendere questo frame di riferimento e declinarlo sia come dispositivo coreografico, che come lavoro legato alla percezione e alla visione cinematografica che volevo si innestasse nel lavoro. Ho curato personalmente le riprese dei corpi che danzano, la ricostruzione della coreografia in video e il montaggio di tutte le immagini proiettate e per me, questo, è parte del lavoro coreografico.

Questo tuo interesse per la forma della danse macabre fa parte di un tuo dialogo, che hai già portato in scena, con i codici coreografici del passato?

Per me c’è una forma di grosso feticismo verso il passato come archivio. Quindi il lavoro precedente, Alcune Coreografie, era montato utilizzando 153 video esistenti. Da lì ho costruito una coreografia, collegando un gesto a un altro gesto che poi crea una drammaturgia, una stratificazione, uno score. Si tratta di una coreografia che è anche riflessione sulla scrittura della danza. Ramona (Caia) l’ha imparata e danzata, ma potrei prendere quel video e darlo a un’altra persona perché è trasferibile come uno score. Nel capitolo successivo, Danse Macabre!, sono partito dal creare un piccolo archivio e da quei materiali ho lavorato con i danzatori a una prima parte della produzione con la creazione di assoli.

È chiaro che nella prima parte c’è un lavoro di riferimenti gestuali e di movimento molto preciso. Hai fatto tu da solo questa prima ricerca sulle fonti visive e di movimento per poi condividerle? O i danzatori hanno lavorato autonomamente alla creazione di un loro archivio personale?

Entrambe le cose, perché c’erano delle referenze che volevo dare, soprattutto in questo prologo. Principalmente che ci fosse una certa propensione del corpo a lavorare con le braccia in maniera quasi bidimensionale, lineare, anche frontale. Ho attinto alla pantomima classica, perché ha una determinata gestualità che dichiara e che narra, un linguaggio riconoscibile e acquisito. Ma anche con una presenza di sguardo verso l’esterno che è contemporaneamente uno stare, molto evidente e molto bello, che coincideva con lo sguardo in camera che cercavo nelle riprese. Ho poi mischiato elementi più contemporanei, dove c’è sempre una geometria del corpo e un lavoro forte sulle mani e sui gesti, come il voguing, il fingering, il tutting, ma anche altri, come quelli da Thriller di Michael Jackson. 

Jacopo Jenna, Danse Macabre!, Interplay24, PH Andrea Macchia

Come avete lavorato per creare la coreografia?

La mia proposta è stata di un uso di forme geometriche dalla street dance al balletto classico che poi ognuno dei danzatori ha ricomposto costruendo una propria fluidità. Contemporaneamente abbiamo lavorato sull’ambiguità dello sguardo, su come guardare fuori, fuori anche metaforicamente, verso un oltre, da un al di là. I danzatori in base alle proprie abilità – perché ogni danzatore ha una formazione e un percorso diverso – partendo dai riferimenti visivi e dai task proposti, hanno lavorato alla costruzione di un assolo in cui volevo che gli elementi di partenza fossero presenti, ma come ibridazione attraverso la creazione di un flow continuo.

La prima sezione è potente, c’è una fluidità sostenuta dove ogni codice gestuale si trasfigura: quando guardi riconosci, ma non sai esattamente su quale codice sei, perché tutti si collegano e trasformano.

E questo mi piace molto in generale, anche come cifra. Avere delle fonti e trasfigurarle, trasformarle, renderle anche un po’ delle tracce invisibili che puoi cogliere, riconoscere, ma anche non capire — è perfetto, perché crea un’empatia, genera una risonanza. 

Nella prima sezione, corpi che danzano sulla scena e una partitura degli stessi corpi e della stessa coreografia, da angolazioni diverse, come immagine filmica proiettata e non in presa diretta.

Abbiamo lavorato a due diverse variazioni. Le abbiamo spazializzate. Io ho filmato e montato da solo i materiali creando una coreografia digitale. Poi, su questa base, abbiamo rispazializzato i materiali e creato coincidenze e connessioni attraverso una partitura scenica che segue quella filmica, con dialoghi gestuali anche a distanza o momenti di unisono. La scelta del doppio cinematografico è fondamentale, perché porta con sé l’idea di una duplicità di forme, non solo visive, e trascina nella coreografia tutto un immaginario sul doppio e sull’oltre. 

Ci sono i corpi in scena e i corpi proiettati nel film…

Mi piaceva giocare con il senso cinematografico, perché quando il primo corpo entra in scena, si capisce subito che non è un live — Ramona (Caia) sta danzando sé stessa, ma non è live, non può essere live. Il doppio è il montaggio filmico, che porta attenzione ai dettagli di mani e sguardi da angolazioni diverse, mentre i danzatori in scena danzano gli stessi movimenti, creano un continuo spostamento percettivo nello spettatore, una dinamica dello sguardo che avevo già sperimentato in alcune coreografie e che volevo approfondire.
In questa prima parte poi, il tema della sospensione è stato l’elemento fondante: dovevamo stare, perché tutto doveva essere sospeso come in una bolla, come se fosse dall’aldilà, mentre nella coreografia della parte successiva il movimento diventa più intenso e dinamico.

Quindi l’oltre non è altrove, i veli sono sottili, gli specchi sono malleabili, il cinema porta uno spazio-tempo nel nostro presente…

Siamo qui e ovunque, o c’è qualche altro pezzo di noi che è ovunque, quindi questo tema dell’universo, che come la danza è ovunque, perché danza tutto. Sì.

Jacopo Jenna, Danse Macabre!, Interplay24, PH Andrea Macchia

Come ti senti, da danzatore e coreografo, con la tua videocamera in mano?

È qualcosa che sento molto vicino, perché sono partito dal visivo e sono arrivato in un secondo momento alla danza. Riesco a leggere bene visivamente il movimento e mi piace capire come dare un’identità cinetica all’immagine, quindi coreografica. Pina di Wim Wenders ha immagini bellissime, ma non è ciò che cerco; il mio lavoro di riferimento è quello di Charles Atlas per Merce Cunningham, un lavoro sul fare coreografia attraverso l’immagine [il riferimento di Jenna è a Locale un lavoro in video del 1980, ndr]. Con i materiali residui del progetto sto anche finendo un video di dieci minuti, un altro modo di raccontare il progetto in una forma più videoartistica. Penso sempre a come spostare lo sguardo, mi piace molto l’idea in queste parole: spostare lo sguardo. 

Dopo la prima parte, nel lavoro c’è un indebolimento progressivo della presenza cinematografica dei corpi. È stata una scelta di dare più spazio al vuoto, al corpo in scena e alla parola proiettata, rispetto all’immagine registrata, o un’esigenza di produzione?

È stata proprio una scelta che è partita dall’idea di immaginare e di far immaginare, di sostenere la potenza dell’immaginazione. Siccome l’immaginazione doveva prendere più campo, l’immagine doveva scemare e risvegliarsi a sync magicamente con i corpi in scena e all’interno di una presenza più estesa della parola proiettata.

Gli interventi testuali sono di Roberto Fassone, un artista visivo; come avete collaborato?

Ci ho messo tanto a scrivere il progetto, poi ho chiamato Roberto e gliel’ho raccontato, dicendogli che desideravo da lui qualcosa che interrompesse il mio video. L’idea di interruzione gli è piaciuta molto e, visto che stava lavorando a dei testi, ha espresso il desiderio di voler lavorare sulla parola e non sulle immagini. Ho pensato che potesse essere perfetto avere dei testi che funzionassero da interruzioni come nei film muti. Roberto me li ha consegnati e mi ha lasciato completamente libero su quali usare e a quale punto del lavoro inserirli: testi che aveva prodotto con l’intelligenza artificiale sull’idea di immaginare delle immagini che non ci sono, perché non vogliamo dare un’immagine della morte.

Jacopo Jenna, Danse Macabre!, Interplay24, PH Andrea Macchia

Immaginare la morte… 

È un passaggio importante, come succede per esempio nella terza parte dove siamo partiti da questa idea di dire: “chiudi gli occhi e immagina la morte” e ci siamo poi agganciati all’assolo espressionista Der Tod (La Morte) di Valeska Gert.

Ho immaginato persone che assistono alla morte di altri…

È perfetto, perché creo i miei lavori come sistemi di relazioni che non sono pensati per arrivare in modo univoco. Quella costruzione scenica vuole essere un incontro con corpi che si trasfigurano e creano ulteriori immagini su cui appoggiare gli occhi, in un continuo riverberare. Così come i testi finali, proposti in una non linearità quando i corpi si fermano, producono memorie di immagini che non sono presenti.

Ho una curiosità, hai delle pratiche nella tua quotidianità con cui alleni lo sguardo, l’essere coreografo, la relazione con il mondo?

C’è un mio feticismo nel raccogliere immagini di danza: seleziono e salvo tonnellate di fonti visive dai social e scarico tantissimi video da YouTube e Vimeo. Li salvo, li divido in cartelle e creo i miei archivi, con un’ossessione quasi bulimica. Negli ultimi anni, poi, cercare di capire come leggere il movimento di qualcuno che si muove sia sulla scena che in video. Mi piace molto anche il montaggio video, il montare è legato per me al fare coreografia e mi offre anche una ritmica rispetto al lavoro della scena.
Appoggiare lo sguardo: il lavoro dell’osservazione è sempre presente come allenamento ad appoggiare lo sguardo.

Il mio sguardo sulla scena si è posato su gesti, sguardi, parole, tra queste…

Se aprissimo delle persone troveremmo dei paesaggi
Imparare a essere immortali e poi morire…
Back to Black. The Sound of Silence

 

Interplay24

DANSE MACABRE! 

ideazione, coreografia, video, regia Jacopo Jenna
danza e collaborazione Ramona Caia, Andrea Dionisi, Francesco Ferrari, Sara Sguotti
collaborazione artistica e testi Roberto Fassone
suono Alberto Ricca – Bienoise
luci e direzione tecnica Mattia Bagnoli
costumi Eva Di Franco
shooting video Matteo Maffesanti
organizzazione Luisa Zuffo
management Valeria Cosi – Tina Agency
produzione Klm – Kinkaleri
co-produzione Tanzhaus Nrw Düsseldorf

Progetto vincitore del Premio CollaborAction #6 e selezionato per Étape Danse 2023