GILDA TENTORIO | Il Teatro Studio Melato di Milano, spazio multiforme che ama sorprendere, questa volta presenta al centro una collina di sabbia e da un’apertura in graticcia scende un fiotto regolare di granelli. Un’immagine poetica (le scene sono a cura di Giuseppe Stellato) per indicare la clessidra inesorabile del tempo, che si sgrana in tanti piccoli momenti e forma cumuli effimeri di esperienze.
Dopo un sintetico corale, che resta però solo fuggevole suggestione (si tratta di un prologo, di un commento, di una pista ermeneutica?), le luci (Manuel Frenda) si fanno calde e la collina diventa spiaggia, con l’andirivieni di personaggi in sgargianti costumi da bagno nella moda di inizio Novecento, come villeggianti nel tempo del “prima” (notevoli i costumi di Gianluca Sbicca). Si tratta di scenette quotidiane (creme solari, occhiali, cappelli, asciugamani, palette e secchielli) di famigliole sulla spiaggia. Ecco Ulisse a Itaca, che coccola il suo piccolo Telemaco accanto a Penelope, mentre a Troia un trio simile è quello di Ettore, Andromaca e Astianatte (i bimbi sono rappresentati da un nodo di gomene, che sarà poi facile da sciogliere a colpi furiosi). A Sparta invece si crogiolano al sole i due fratelli Agamennone e Menelao, e a Ftia c’è Achille con la madre Teti. Dialoghi a tratti ironici, posture grottesche (la ninfa marina Teti, Pia Lanciotti, è avvolta in un fantasioso costume fatto di salvagenti e gonfiabili), all’insegna di un’angoscia serpeggiante: “quanto manca?” Attesa del futuro, della partenza, dell’arrivo del nemico, della fine di una giovinezza dorata incrinata dalla certezza della morte.
Pier Lorenzo Pisano (artista associato al Piccolo di Milano e già noto al pubblico per Carbonio, in scena nelle due passate stagioni) nel suo testo pubblicato da Einaudi-Teatro, gioca con i ricordi scolastici del pubblico ma disegna profili temporali inusuali: la guerra di Troia, argomento dell’Iliade, esiste solo come minaccia all’orizzonte (nell’età dorata del “prima”) o come esito devastante (le macerie del “dopo”).
Pertanto una visuale interessante, come pure il taglio cui si allude con il titolo Semidei. I filologi storceranno il naso perché soltanto Achille merita legittimamente il titolo di “semidio” (figlio della ninfa Teti e del mortale Peleo) ma è chiaro che la parola viene usata in senso simbolico e il nucleo drammatico è in quel suffisso “semi“: le storie di questi eroi eternate da tanta letteratura vengono riscoperte come distanti dal divino e fin troppo umane. E d’altra parte anche gli dèi vengono rimpiccioliti a uno stuolo di figure anonime vocianti, genitori egoisti e iperprotettivi di mortali, pronti a risse da condominio sui ballatoi del teatro.
Gli eroi dapprima dicono “no” alla guerra, cercano di non partire, hanno paura, e dopo il conflitto – come segnala l’autore nel programma di sala – sono ridotti a relitti, chiusi in armature che sono gusci incrostati di spoglie sottratte al nemico, macerie, pezzi di cadaveri: il figlio di Achille, Neottolemo, sembra un crostaceo avvolto dai corpicini dei bambini che ha ucciso. La guerra, insomma, ti si attacca addosso come un cancro e non ti abbandona.
E infatti, anche se vincitori, i greci sembrano disorientati, traumatizzati, impauriti all’idea di tornare in patria, perché non saranno mai più gli stessi. Dieci anni di violenze hanno annullato la spensieratezza della lunga estate simbolica della prima parte. Ora, sul silenzio della devastazione, tutto sembra vano.

Buone le premesse, interessanti alcune angolazioni, tuttavia lo spettacolo non convince. Nel suo dispiegarsi, il testo presenta zone di non-detto che sarebbero colme di potenzialità poetica e scenica ma che la regia di Pisano non sempre riesce a sfruttare a fondo. Altre piste si spengono prima di trovare una rotondità di senso, come accade al tema del rapporto padri-figli: Zeus padre degli dèi e a sua volta figlio di un padre che divorava la prole, così come Agamennone che, in un impeto di tenerezza, dice che “vorrebbe mangiare” il corpicino liscio e paffutello del figlioletto Oreste. Achille teme di essere per la madre immortale solo un precario “momento finito”, trapunto sul rotolo della sua vita che si dipana infinita. E poi c’è suo figlio Neottolemo, schiacciato dal mito eroico paterno, Andromaca ed Ecuba, le due “madri“ di Troia…
Nulla di nuovo, si intende, ma in questi legami familiari così evidenziati perché fatti a pezzi dalla guerra, forse Pisano poteva fare leva anche sul nostro essere “figli” degli Antichi – padri a volte “cannibali” – e anche figli della guerra, che non cessa mai di crearci intorno macerie. Il testo è stato scritto durante il Covid, e infatti è chiara l’idea di lacerazione e impossibilità dell’abbraccio. Il teatro però è una piazza di dialogo con gli spettatori che hanno l’oggi inciso nella carne; il messaggio di Pisano rischia di diventare una cartolina opaca e talvolta sfoggio estetico senza palpiti.
L’andamento espressivo procede per sussulti e sbalzi tonali non necessari. L’orrore e il pathos in genere si raggiungono attraverso cortocircuiti innescati sulla verticalità del climax. Nel nostro caso invece l’iterazione del gesto in modo meccanico rischia di spegnere quella scintilla, così succede con la furia del guerriero greco che sfracella il corpo di Astianatte, e i colpi sembrano non finire mai, mentre l’allusione o la lentezza ieratica fermata al punto giusto possono toccare corde emozionali molto più intense. Così quando Andromaca (Claudia Gambino) rovista frenetica tra le macerie per trovare brandelli del corpicino del suo Astianatte, le parole sarebbero un corredo superfluo, perché le macerie di Troia sono già diventate Gaza. E invece il patetismo insistito non scatena la magia.

La frammentazione è una cifra voluta nel testo ma la modalità-mosaico è accentuata dalla giustapposizione spesso poco perspicua di altri linguaggi espressivi; gli effetti speciali che rendono visuale quanto viene detto, in un’armatura didascalica (te lo dico e te lo mostro) superflua ma preferita qui all’arte delicata dell’allusione. Ad esempio quando il testo parla di pioggia e precipita sulla scena un getto d’acqua, oppure quando il pathos viene rotto dall’entrata di un’enorme testa su carrello, forse simbolo del destino cieco?
Pisano insomma sembra interessato a sperimentare un ventaglio di linguaggi espressivi, introdotti però ex abrupto e senza sviluppi (patetico, grottesco, didattico, visuale, teatro di figura, poesia meditativa, ecc.), parcellizzando così il continuum narrativo.
La sapienza del battere e levare a teatro è un’arte che richiede la pazienza del levigare.
SEMIDEI
Scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Manuel Frenda
con Francesco Alberici, Marco Cacciola/Michelangelo Dalisi, Pierluigi Corallo, Claudia Gambino, Pia Lanciotti, Caterina Sanvi, Eduardo Scarpetta
Teatro Studio Melato, Milano | 13 febbraio 2025