ENRICO PASTORE | Meister Eckhart rappresenta una sfida per ogni intelletto. I suoi scritti paiono logici eppure impossibili, sembrano una cascata di paradossi costantemente in bilico tra il razionalismo della scolastica e i verticismi della mistica. La Chiesa lo considerò a lungo un pensatore eterodosso assiso sul pericoloso confine dell’eresia, una fonte da cui attingere cum grano salis, da leggere dunque con sospetto e diffidenza.
A questa figura affascinante, persino misteriosa, del pensiero medievale, a cui si ispirarono molti artisti del Novecento (John Cage su tutti), la Biennale di Venezia ha dedicato un progetto speciale: tre voci eminenti del teatro italiano, Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita, hanno dato vita al Commento al Vangelo di Giovanni (Expositio Sancti Evangelii secundum Iohannem) insieme al Coro della Cappella Marciana, sotto la guida del Maestro Marco Gemmani, per la regia di Antonello Pocetti e l’ideazione scenica di Antonino Viola e con le videoproiezioni curate da Andrew Quinn (autore di parte degli effetti speciali di Matrix).

Prima di entrare nel merito dell’allestimento, tratteggiamo un breve ritratto della figura di Meister Eckhart. Johannes Eckhart nasce nel 1260 in Turingia, da famiglia nobile e si fa monaco tra i domenicani in giovane età. Studia a Colonia ripercorrendo i passi di Tommaso d’Aquino e Alberto Magno. Insegna a Parigi dapprima come lector sententiarum, poi come maestro di teologia e infine, unico con San Tommaso, come magister actu regens, la più alta carica accademica del mondo medievale. Dal 1314 al 1324 è vicario generale dei domenicani a Strasburgo, con giurisdizione sui monasteri femminili presso i quali svolge una fervida attività come predicatore. Nello stesso periodo riprende l’insegnamento nello studio di Colonia.
Proprio qui iniziano i suoi guai. I sermoni e le prediche vengono scritti non più in latino ma in volgare, in una forma più libera, intima e vicina all’anima dei suoi ascoltatori; anche il suo pensiero mistico si sgrava, via via, dei razionalismi scolastici e delle rigidità accademiche. La sua mistica si inabissa nella teologia negativa laddove Dio si nullifica insieme all’io del credente. Dio abita la contraddizione, l’indeterminatezza, l’oscurità prima della luce. Questo Dio indistinto, che sfugge a qualsiasi definizione e individuazione, sorge all’interno dell’uomo, nel fondo insondabile della sua anima; un fondo senza fondo dove il Dio nascosto emana la sua luce facendo dell’uomo il figlio di Dio e quindi assumendolo come parte integrante della Trinità: Homo Deus. Dio e l’uomo si riflettono come in uno specchio, sono uno l’immagine dell’altro e la preghiera diventa superflua perché Dio si conosce solo nel silenzio della propria anima.

Ph Andrea Avezzù Courtesy

Queste tesi ardite spinsero l’arcivescovo Enrico di Vinenburg a intentare nei confronti di Meister Eckhart un processo per eresia associando i suoi assunti a quelli degli eretici della Setta del Libero Spirito, in Italia perseguiti da quell’Ubertino da Casale che troviamo ne Il nome della Rosa. Eckhart si appellerà al papa sfruttando il privilegio dei domenicani di essere giudicati solo dal Santo Padre. Siamo nel periodo della cattività avignonese, durante il quale il papato sta «a puttaneggiar coi regi», per dirla con Dante; anni che vedono il processo ai templari con le relative ingerenze di Filippo il Bello e il papa è Giovanni XXII, pontefice accusato da Dante di comminare scomuniche per poi cancellarle dietro pagamento. Il 27 marzo 1329, nella Bolla In agro dominico, alcune delle proposizioni di Eckhart vengono considerate eretiche, ma il mistico tedesco è già morto, forse a Colonia o, più probabilmente, ad Avignone, in attesa di giudizio. Nella Bolla è detto che, prima della morte il mistico, avrebbe rigettato le sue tesi ritornando in seno all’ortodossia di Santa Madre Chiesa. Eckhart non era più in grado di smentire o confermare e comunque le sue opere furono ritenute a lungo sospette e pericolose.

Al Portego delle Colonne della Scuola Grande di San Marco a Venezia, di questo grande e scomodo pensatore è stato allestito un oratorio moderno e multimediale ispirato al commento al Vangelo di Giovanni, il più mistico e filosofico dei quattro. L’oggetto della dissertazione è il primo capitolo, quello maggiormente intriso di elementi gnostici presi in prestito dal mondo greco in Efeso, dove il testo fu composto. Questo capitolo, detto anche Inno al Logos, così comincia: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Queste sono anche le prime parole del Commento, recitate in latino.
Il Verbo, ossia il Logos, la Parola, è dunque al principio, ma non è il principio stesso, è ciò che crea ma è a sua volta creato, è la prima stilla d’acqua che sgorga dalla sorgente divina.
Proprio la centralità della Parola nella creazione spiega questo progetto di Biennale di Venezia. Anche in teatro la parola è fondamentale ma non è l’origine del teatro. Quello tra parola e performatività è un legame fondante ma altrettanto difficile da descrivere. La parola è dunque centrale, un motore di vita, un atto magico, capace di  creare e modificare il reale, ma è anche qualcosa che segue un linguaggio più oscuro eppure più immediato che è quello della fisicità dei corpi.

Risulta quasi impossibile condensare in poche frasi il il percorso mistico e filosofico proposto da Eckhart a commento di un testo così profondo e difficile. Non resta che operare una scelta e cogliere un esile filo dall’intreccio e illuminarlo per quanto si può.
Come ha affermato il teologo, scrittore e poeta Cardinale José Tolentino de Mendonça, – prefetto del Dicastero della cultura e dell’educazione della Santa Sede – nella sua introduzione alla serata del 5 marzo (ogni serata è stata introdotta da un ospite differente), il Verbo è anche Logos, ossia la ragione illuminante e per Eckhart «quando l’anima entra nella luce della ragione essa non sa più nulla dei contrari». Ogni cosa è allo stesso tempo affermazione e negazione e pertiene al mondo della contraddizione. Il paradosso è il luogo in cui abita il Verbo, in prima istanza perché nasce in quel fondo senza fondo dell’anima, unica dimensione in cui si può incontrare il dio indefinibile. Come spiega Marco Vannini – curatore italiano dell’intera opera tedesca e latina di Eckart – «Non vi sono più parole, ma si è, nel silenzio, quella Parola che è tutte le parole, la loro origine e la loro fine».

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Nel sermone Dum medium silentium, Eckhart usa le parole del libro della Sapienza: «Quando tutte le cose erano in mezzo al silenzio, venne in me dall’alto, dal trono regale, una parola segreta». È nel silenzio che Dio parla: «Voglio sedere e tacere, ed ascoltare quel che Dio dice in me». Ecco perché la luce risplende nelle tenebre: essa rifulge: «nel silenzio e nella pace, lontano dal tumulto delle creature». Questa la conclusione del Commento, insieme a una invocazione: «Anima mia, sii sorda, nell’orecchio del tuo cuore, al tumulto della tua vanità».
Da queste poche parole si comprende la fascinazione di Cage per Meister Eckhart. Per entrambi il suono, o la Parola, nascono dal silenzio del mondo e dell’io. Un paradosso intrigante che un inno alla Parola lodi e glorifichi il suo contrario.

Il secondo filo che vorremo portare alla luce riguarda l’incarnazione della parola. Dice l’Evangelista: «Et Verbum caro factum est. Il Verbo si è fatto carne». Il Verbo per Eckhart è come l’idea di Platone, si congiunge con la carne ma non partecipa della sua natura: «la causa prima regge tutte le cose senza mescolarsi ad esse». Ma la parola non è solo idea nella purezza dello spirito, è anche rappresentazione della cosa nel mondo ed è quindi corruttibile. In questa sua seconda accezione, l’uomo nobile si deve distaccare da ogni attaccamento d’amore alla parola per ritrovarne lo spirito, abbandonare l’illusione della carne per la realtà dello spirito. Scrive ancora Marco Vannini: «all’unitas spiritus appare mistificazione e peccato ogni contenuto in cui ci si ferma e in cui ci si compiace». Quanto ritroviamo di Carmelo Bene in questo pensiero, lui che pensava, come i greci, che non bisogna dire ma esser detti.

Come dunque la parola di Eckhart si è fatta carne sulla scena? Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita salgono su un podio nascosto da un velo al centro del Portego delle colonne. Il Coro circonda il pubblico disposto a specchio su due lati. Sulle pareti lunghe della sala sorgono le immagini visive ideate da Andrew Quinn. I tre attori, come il Dio nascosto di Eckhart, uno e trino, espongono le vertiginose tesi di Eckhart, mentre il coro risponde con canti e bordoni alle singole sezioni. Lettere e parole si formano sulle pareti: soli, fontane, fuochi artificiali, forme frattali, caleidoscopi generano mondi e realtà fatte di parole. Come nella mistica della Kabbalah ebraica, le lettere si combinano in modi oscuri e imperscrutabili sgranando davanti ai nostri occhi l’essenza del mondo alla ricerca del vero nome di Dio.
Una meditazione sia laica che religiosa sul senso e l’importanza della parola, in un mondo odierno in cui essa ha perso la sua verità. Un rito religioso e laico insieme per contemplare il Verbo al di là di ogni significato. In questo forse vi è l’attualità del pensiero di Eckhart, nel ritenere la parola ancora magica e potente, un atto creativo che scaturisce dal suo contrario, da quel silenzio che è il vero principio del mondo, oggi sempre più difficile da ascoltare e contemplare.

In conclusione una piccola riflessione. Il Commento al Vangelo di Giovanni di Meister Eckhart è un testo stupendo ma alquanto ostico per chi non è avvezzo ai termini filosofici della scolastica e al linguaggio mistico medievale. Questa performance, per quanto riuscita, non era diretta a tutti i palati. Qui ci si pone davanti a più di un dilemma: semplificare Eckhart sarebbe potuta essere una soluzione? Oppure vi sono opere che per quanto ci si sforzi non possono essere accessibili ai più? O, ancora, si poteva accogliere Eckhart in forme diverse, addirittura paradossali come le sue tesi? Non è facile affrontare queste questioni e trovare il giusto equilibrio tra accessibilità e complessità, soprattutto oggi che si tende a semplificare fino a snaturare il senso originario. Forse il segreto non è capire, ma lasciarsi attraversare dal mistero.

EXPOSITIO SANCTI EVANGELII SECUNDUM IOHANNEM

di Meister Eckhart 
voci recitanti Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita
insieme al Coro della Cappella Marciana,
con la direzione del M° Marco Gemmani
scene Antonino Viola
video Andrew Quinn
luci Tommaso Zappon
musica e proiezione del suono Thierry Coduys
grafica Studio Leonardo Sonnoli
regia e drammaturgia Antonello Pocetti
produzione La Biennale di Venezia
Progetto Speciale dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia

Le prime cinque serate saranno introdotte da:
5 marzo  Cardinale José Tolentino de Mendonça Logos
6 marzo  Peter Sloterdjik Essere
7 marzo  Cristiana Collu Amore
8 marzo  Monica Centanni Bene/Male
9 marzo  Monsignor Francesco Moraglia Anima/Corpo

Scuola Grande di San Marco, Venezia | 5 marzo 2025