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giovedì, Maggio 16, 2024
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Castiglioncello (parte I): l’incontrarsi e il comprendere “per cosa combattiamo”

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foto Lucia Baldini

RENZO FRANCABANDERA | Castiglioncello è un posto fantastico dove pensare arte vivendo una dimensione di serenità. Lo è da molti anni, da quasi venti, anzi, saranno venti l’anno prossimo se l’amministrazione comunale avesse la compiacenza da consentire ad un pezzo di storia della cultura italiana di continuare un’operazione benemerita e che quest’anno tra l’altro sta conoscendo un nuovo grande ritorno di interesse con pubblico nutrito e visibilità sui media.
Si tratta di un equilibrio da trovare fra l’esigenza di mettere a reddito una struttura come Castello Pasquini, bella e fragile, con il suo stile architettonico kitch da film degli anni ’30 (e qui cade a fagiolo la pregevole operazione culturale proposta dal sempre ricercato e tagliente Luca Scarlini su Sem Benelli vista in questi giorni qui al Festival), e la possibilità che questa struttura non venga solo banalizzata e trasformata in un albergo extra lusso a ore, per pochi ricchi turisti megalomani e folle esponenziali richiamate da qualche mega produzione con divi tv, sventrando alberi e pineta per realizzare chissà cosa, ma consentire ad un BENE PUBBLICO di assolvere un ruolo preciso di dialogo all’interno della comunità dell’arte e del territorio, cercando ovviamente nuove strade e possibilità per tutti.
E’ un equilibrio non facile, un Inequilibrio, verrebbe da dire. Che è concetto diverso dal Disequilibrio.

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foto Lucia Baldini

Sarebbe interessante parlarne con qualche amministratore, tanto per dire. Ma a differenza di tutti gli altri festival in giro per l’Italia, dove il governo del territorio cerca un dialogo con l’arte, qui in giro apparentemente non li abbiamo visti. Agli spettacoli sicuramente no. Chissà. Peccato, le occasioni mancate di incontro sono sempre un sintomo di possibilità a cui non si dà seguito, manifestazioni di un tempo non sfruttato bene.

E’ peccato ancor di più perché l’amministratore di turno verrebbe comunque a trovarsi a confronto con una programmazione interessante, che quest’anno ha messo assieme nomi ma soprattutto proposte importanti del panorama dello spettacolo dal vivo in Italia, da Civica a De Summa, dai Quotidiana.com ai Sacchi di Sabbia, passando per Scarlini, Rustioni, Bertozzi, e altre realtà del teatro e della danza contemporanea nazionale e non solo.

E che questo sia un luogo di incontro lo testimonia da alcuni anni il fatto che Goffredo Fofi lo abbia scelto per consegnare il premio della sua rivista Lo Straniero, che anche se quest’anno chiude le pubblicazioni, resta uno degli esempi più fulgidi di controcultura del nostro Paese.

13502725_10206725647965191_4838933688198170185_o.jpgCi è piaciuto molto in questi primi giorni, fra le proposte di danza selezionate da Angela Fumarola, attenta a scegliere percorsi nuovi e a fare scommesse ardite con l’arte, la proposta di danza contemporanea ibridata dal linguaggio dell’hip hop di Giovanni Leonarduzzi “Ci sono cose che vorrei davvero dirti”.
L’idea è un commovente e riuscitissimo dialogo a distanza con il figlio, una creazione che inizia proprio con il catturare l’attenzione del piccolo con la modalità del gioco, per poi sviluppare l’emozione adulta e il tema dell’identità nell’identità, del gene trasmesso, di quello che si è e che si diventa attraverso lo sguardo del e nel proprio figlio. “Sei me più di ogni altra cosa, facciamo tutto quello che vuoi e forse non saprai mai quanto ti penso quanto ti cerco quanto mi manchi. Ci sono cose che vorrei davvero dirti; scappo dove non ci sei, a volte sparisco ma dove vado ti penso. Il nostro tempo sembra così poco ma ti danzo come non ho mai fatto”. In queste righe la sintesi di Leonarduzzi su questa creazione di 20 minuti, riuscitissima e che conferma il talento di questo danzatore di break dance che dal 1997 è uno degli esponenti dell’experimental più apprezzati a livello mondiale, che ha rappresentato l’Italia alle finali del Just Debout di Parigi nel 2007 e 2008 e che da allora ad oggi ha sviluppato moltissimi progetti come solista e sperimentatore di teatro danza. La sua creazione mescola la break con alcune ispirazioni degne dell’occhio da biologo di Xavier Le Roy, e tanta danza d’avanguardia nord europea. Bravo!

Talentoso e affabulatore anche Luca Scarlini che rende omaggio con la sua “conferenza-spettacolo” dedicata a Sem Bonelli, intitolata “La beffa del destino” per giocare con il titolo di uno dei più grandi successi (La cena delle beffe) di questo poeta, drammaturgo e pensatore della prima metà del Novecento, che avversò e fu avversato dal regime fascista, e pagò il suo desiderio di indipendenza con una vita di successi di cui non poté raccogliere i frutti, finendo in miseria, e nell’oblio dell’arte. Scarlini tenta una riuscita (oltre che divertente) operazione di ritorno sulla figura letteraria prima ancora che umana, affrontando come sempre la vicenda con un taglio da semiologo, attento all’evoluzione del linguaggio di Bonelli nel suo tempo e l’eredità che ne resta oggi con riferimento alle arti sceniche, dal teatro in versi alla lirica.

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foto Lucia Baldini www.luciabaldini.it

Un successo anche il progetto Metamorfosi di Roberto Latini. Parliamo di una creazione di puro teatro d’attore, centrato sulla figura dell’attore nel suo rapporto con l’ancestralità del mito. Partendo sempre dal testo di Ovidio, il lavoro proposto nel primo week end è il proseguimento dello studio iniziato ad Inequilibrio 2015. Lo scorso anno il festival aveva ospitato la proposta di cinque miti in cinque giornate e in diversi spazi e orari; quest’anno Latini ha realizzato delle drammaturgie in forma di dittico, proponendo in ogni serata l’indagine su due figure mitologiche. Il risultato è un lavoro potente e a tratti commovente, in cui ogni mito viene associato al suo attributo apotropaico intorno al quale l’abilità degli attori coinvolti si sviluppa per realizzare un’indagine profonda su quello che è il senso dell’attoralità oggi. Una creazione che nella sua evoluzione distilla con sempre maggior precisione la poetica registica di Latini verso un espressionismo che orienta il suo interesse sulla profonda verità insita nella finzione, che è esattamente la stessa operazione che compie il mito, sviluppando ed esagerando attributi tipici dell’essere umano per trasferirli in un piano in cui perfino il difetto è materia del divino. Ed è lo stesso motivo per cui lo spettatore alla fine, in questa finzione esagerata, finisce per ritrovarsi, sempre. Ritrovare in ciascuno quel pezzo di noi che è Sirena, o Aracne o Minotauro o Sibilla.

Ecco, se questa è una sintesi perfetta del teatro come concetto creativo, ovvero la profonda verità insita nel falso, ancor più forte ci viene da reclamare, chiudendo come abbiamo d’altronde iniziato questa riflessione, la VERA attenzione di chi governa questo territorio a comprendere la profonda ricchezza di questo valore del fare e del permettere di fare arte. Quando durante il secondo conflitto mondiale chiesero a Churchill di tagliare i fondi per l’arte per sostenere lo sforzo bellico, il governante deciso rispose: “Ma allora per cosa combattiamo?”
Oggi più che mai, fra crisi e altro, chiedersi (e comprendere) per cosa combattiamo, per cosa governiamo, per cosa vale la pena vivere, è LA questione del governo del consesso umano.

 

NTF 2016: “La Grenouille avait raison” di James Thierrée, immersi in un’infantile entropia

ESTER FORMATO |  Vedere in scena la Compagnia Du Hanneton, fondata da James Thierrée ovvero nipote del grande Charlie Chaplin, fa un certo effetto. Talvolta, sembra aver dinanzi proprio lo stesso Charlot osservando i gesti che Thierrée, pur in modo differente, conserva dell’illustre avo.
Ma “La Grenouille avait raison” che approda a Napoli per il Teatro Festival è anche e soprattutto una sorta di esperienza visiva che ne rende rarefatto il senso razionale, per immergere lo spettatore entro una dimensione psichica, quasi antropica, legata al mondo immaginifico dell’infanzia.

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Un sipario dal rosso acceso e fluorescente come un’enorme onda disvela un assito privato di ogni quinta; un corpo enorme e centrale sospeso – una rana – costituito attorno da neon pendenti a varie altezze campeggia nel nostro campo visivo. La rana è “collegata” ad una vasca piena d’acqua, mentre un vecchio pianoforte suonato da una fanciulla ed un antico armadio costeggiano morbidi drappi che avvolgono tutta la scena a latere. Fitte strutture metalliche sulle quali vediamo acrobati barcamenarsi dall’alto compongono un ferreo cielo; ad un tratto una scala a chiocciola, pur essa a mezz’aria e sulla quale scende Thierrée, attiva un delicato effetto che coinvolge tutto il quadro d’insieme. Ogni oggetto sembra volare, rincorrersi fra contorsioniste e danzatrici, fra abilità circensi e corpi che interagiscono attraverso sofisticate gestualità, quasi come a voler frantumare e ricomporre al contempo la relativa fisicità. Si litiga, ci si abbraccia con qualche remora, ci si confronta e ci si aggredisce goffamente fra fratelli in una lingua misteriosa, mentre in un canto una piccola tv non funzionante si accende con una sua schermata blu (rifiuto o paura della realtà esterna).
Il filo conduttore dello spettacolo si dipana in una sinergia di elementi visivi ed uditivi. Dinanzi a noi vi è un assetto disorganico di un inconscio che rigetta sulla scena retaggi d’infanzia; il gesto singolo tende a frammentare l’articolazione di un corpo perché paure, timori, capricci quali primarie e necessarie pulsioni dell’infanzia, sono ciò che emerge e ciò che si rappresenta. Un universo pre-razionale, dunque, colmo di azioni simboliche non sempre decifrabili, è questo il fantasmagorico mondo orchestrato come se la rana stessa, probabile simbolo di quella lacerazione fra infanzia ed età adulta, fosse il sistema di riferimento.
La grenouille avait raison” è uno spettacolo che attiva codici diversi e sinergici, un processo creativo che prende forma attraverso il “simulacro” di questa rana, un corpus che si alimenta con un’acqua rigeneratrice, quasi a voler esorcizzare il grumo di pulsioni infantili che costituiscono la drammaturgia gestuale e visiva dell’opera dove, come in una fiaba, il singolo elemento-oggetto, come ciascun personaggio, è latore di qualcos’altro di più profondo.
Per lo spettatore  è un’esperienza che consente di confrontarsi con una costruzione registica, tecnica, interpretativa e drammaturgica dai linguaggi iperconcettuali entro un funambolico diaframma di composizioni e scomposizioni corporee ed espressive; una cognizione immediata (perché ne è acuita la percezione visiva) ed al contempo frammentaria, giacché si è spinti oltre la soglia del razionale e del logico.

LA GRENOUILLE AVAIT RAISON

  Testo e regia James Thierrée                                                                                                                   con Valérie Doucet, Samuel Dutertre, Mariama, Yann Nédélec, Thi Mai Nguyen, James      Thierrée                                                                                                                                               Scenografia e musiche originali : James Thierrée                                                       Coordinamento tecnico : Anthony Nicolas                                                                                        Suono: Thomas Delot                                                                                                                                  Luci : Alex Hardellet, James Thierrée                                                                                                Costumi : Pascaline Chavanne                                                                                                    Marionnette : Victoria Thierrée                                                                                                        Produzione delegata : La Compagnie du Hanneton/Junebug                              Coproduzione : Théâtre de Carouge-Atelier de Genève, Célestins-Théâtre de Lyon, Radiant-Bellevue,Théâtre du Rond-Point Paris, Théâtre de la Ville Paris, Théâtre Royal de Namur, La Coursive Scène nationale de La Rochelle, Sadlers Wells Londres en collaboration avec Crying Out Loud, L’arc Scène nationale Le Creusot, Opéra de Massy, Odyssud Blagnac, Théâtre de Villefranche sur Saône, La Comédie Clermont Ferrand, Théâtre Sénart, Le Festival international d’Edimbourg, Espace Jean Legendre – Théâtre de Compiègne

Cercare senza mai trovare: Lenz Fondazione e il nuovo “Furioso”

Il Furioso (2) @ Francesco Pititto
Il Furioso (2) @ Francesco Pititto

MATTEO BRIGHENTI | A teatro una voce registrata solitamente chiede di spegnere i telefoni cellulari. Per non interrompere l’attenzione del pubblico e la concentrazione degli attori, ma anche perché la nostra vita fuori non deve entrare in sala: il palcoscenico necessita l’esclusione dal mondo, altrimenti la sostituzione della realtà con la finzione non accade. Sul muro esterno al Tempio di cremazione di Valera, un chilometro a ovest di Parma, un avviso invita a non lasciare i propri valori in macchina. Per non subire furti (povero il mondo che lucra sul dolore), ma, dato che Lenz Fondazione ha ambientato là dentro Il Furioso (2), quel cartello può essere letto anche come la richiesta di entrare così come realmente siamo nei nuovi e ultimi episodi del progetto biennale di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri sull’Orlando Furioso nel suo 500° anniversario. Quindi, la finzione secondo Lenz non nasce per esclusione e sostituzione, bensì per inclusione e contaminazione con la realtà: l’una avviene contemporaneamente all’altra, perché c’è l’altra. Allo stesso modo della recitazione degli attori, che succede insieme alla loro ‘sensibilità’, cioè disabilità psichica o intellettiva.
Dopo i primi quattro capitoli de Il Furioso (1), #1 La Fuga e #2 L’Isola, #3 L’Uomo e #4 Il Palazzo, il paladino Orlando si dipana ora tra 5# L’Illusione, 6# La Follia, 7# La Morte e 8# La Luna in un’arcaica e al tempo stesso avveniristica messinscena di una furia amorosa incessante, epica amara senza fine, come il porticato del recinto dell’imponente architettura costruita dal 2006 al 2009, che sarà completato negli anni con gli accrescimenti del cimitero e avvolgerà l’attraversamento in un percorso infinito.
Dal parcheggio, posto sul lato più stretto, entriamo in un’area all’aperto punteggiata da quattro grandi aiuole quadrate, distanziate quanto basta a tracciare per terra una croce di ghiaia. Non è un simbolo, è geometria: in tutti i 4400 metri quadrati del Tempio di cremazione non ci sono immagini religiose, siamo tutti uguali di fronte all’ultimo viaggio.
Orlando compare da dietro una delle colonne all’ingresso vestito come un becchino o uno steward delle nuvole, il casco da pugile e niente guantoni, adesso è armato solo di immaginazione, e ferma, salda rabbia (installazione, elementi plastici e regia di Maria Federica Maestri). Davanti a lui, nelle aiuole adiacenti, due figure sedute sull’erba ci danno le spalle.
Il paladino cristiano racconta di Angelica che non lo ama, perché desidera il saraceno Medoro. È un’illusione l’amore, ma ancor di più lo è la speranza, che lei gli dica sì. Siamo sulla soglia della pazzia di Orlando, parla di sé come se fosse un altro, dice tutto quello che fa con effetto straniante e dolente, le proiezioni su tutta quanta l’estensione della mastodontica facciata (drammaturgia, imagoturgia e scene filmiche di Francesco Pititto) sono la manifestazione di una solitudine acuita dalla perdita della ragione, e quindi cosmica, assoluta. In cielo un’unica stella annuncia il buio, mentre il tramonto scolora nel cielo reso bianco dal caldo.
Ariosto racconta che Angelica e Medoro incidono sugli alberi di un bosco scritte che celebrano il loro amore. Ne Il Furioso (2) anche questo non è reale, è solo un’allucinazione dell’amore frustrato di Orlando, tanto che a parlargli è proprio un albero, che lui vede con le fattezze di Angelica: la donna ripete il nome suo e dell’amante e poi scappa da Medoro sul letto dell’aiuola di sinistra. Il rigore e la cura delle atmosfere rapiscono e incantano (musica di Andrea Azzali).
Sono stesi, sembrano morti, Orlando sostiene invece stiano facendo l’amore. Il buio cala su di noi come la follia sugli occhi del paladino, mente Rinaldo lo chiama per un banchetto nel Palazzo, cioè il Tempio, su cui viene proiettata una gigantesca bocca.
La figura sull’aiuola di destra è Bradamante, la guerriera cristiana con la grande treccia che vuole essere donna e abbraccia il suo Ruggero, cavaliere pagano erede del troiano Ettore, sempre e solo in video. Il Furioso (2) è l’impossibilità di essere ciò che si vuole.
Come un fiume silenzioso e austero seguiamo i personaggi dentro il Tempio. Siamo ombre, anche noi, nel proiettore e nelle luci di taglio sul giardino. Del resto, come si dice nel Macbeth, l’altro debutto di Lenz di questi giorni, “la vita non è che un’ombra che cammina”.

Foto di Francesco Pititto
Foto di Francesco Pititto

Nella Sala del commiato uomini in nero combattono roteando come dervisci, mentre noi, da sparsi che eravamo, ci sediamo su due file di sedie parallele, sui lati lunghi della struttura. C’è un senso indicibile di fine del mondo.
Alcuni attori rimangono in piedi dietro di noi, una di loro, invece, mi è seduta accanto. È una donna anziana, velata di nero, una sposa della morte. Si scopre che è Isabella quando il suo amato Zerbino la invoca dall’ambone, dal quale di solito i cari danno l’ultimo saluto ai loro defunti. Sul soffitto si apre un lucernario, l’occhio di un qualche dio che osserva non visto il compiersi degli eventi.
Tutti si rincorrono, Orlando-Rinaldo-Angelica, Bradamante-Ruggero, Isabella-Zerbino, e tutti sono inseguiti dalla morte, che è dappertutto e arriva ovunque, come il bianco delle proiezioni. Non c’è modo di sfuggirle.
Bradamante raccoglie così il velo nero lasciato da Isabella e scappa fuori dalla Sala. La seguono e la seguiamo attraverso la Sala macchine del crematorio, con bare vere come quella del signor Giuseppe fornita dalle Onoranze Funebri Le Valli. Nessuno scandalo o vilipendio nel farne per la prima volta ‘scenografia’, perché la morte è di per sé teatro, come la vita: alla destra della sala si trova infatti una piccola stanza in cui è montato uno schermo per assistere, su richiesta, all’ingresso della salma nel forno.
Un portellone si chiude cigolando alle nostre spalle e ci ritroviamo con un nodo alla gola nel retro del Tempio, nel Giardino di aspersione delle ceneri. Quattro specchi d’acqua, al centro una sorta di fontana progettata per disperdere le ceneri nel sottosuolo, avelli in fondo al giardino, dietro di loro il cinerario comune. Qui sopra vengono proiettati i crateri della Luna, dove Astolfo va in cerca del senno smarrito da Orlando.
Ariosto allestisce una fiera delle vanità responsabili della perdita dell’intelletto della maggior parte degli uomini: l’allegoria di vizi e debolezze si unisce a considerazioni sulla caducità della vita e sulla futilità delle aspirazioni, come quelle di Orlando. Sulla Luna de Il Furioso (2) tutte le coppie si ricongiungono, Bradamante con Ruggero, Zerbino con Isabella, l’amore si compie da morti, nel per sempre dell’aldilà.
Paladini e donne in fuga non si riconoscono l’un l’altro se non nel reciproco tra-passo: da vivi c’è spazio esclusivamente per l’ossessione, l’incubo, la follia che è la continua, pervicace e mai soddisfatta tensione verso l’irraggiungibile.
Tornati sulla Terra, fluttuiamo in una gravità diversa da quella di quando siamo partiti. Il Furioso (2) si è compiuto con dolore e dolcezza e noi restiamo come incerti e sospesi: la bellezza allora serve a ingannare, l’amore non dà la felicità. Reale è l’oscurità che ci inghiotte e che solo i lumicini delle tombe rischiarano. “La vita non è che un’ombra che cammina”.

Per approfondire, leggi anche:
Sergio Lo Gatto, “Lenz, tra Il Furioso e Macbeth. Spettatori sensibili”, Teatro e Critica.
Giulio Sonno, “Il peso della consapevolezza: a Natura Dèi Teatri debutta il MacBeth di Lenz”, Paper street.


IL FURIOSO (2)

#5 L’illusione #6 La Follia #7 La Morte #8 La Luna
dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto
Drammaturgia | imagoturgia | scene filmiche | Francesco Pititto
Installazione | elementi plastici | regia | Maria Federica Maestri
Musica | Andrea Azzali
Performer | Walter Bastiani, Frank Berzieri, Marco Cavellini, Massimiliano Cavezzi, Carlo Destro,
Paolo Maccini, Delfina Rivieri, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera
Direzione tecnica | Alice Scartapacchio
Cura | Elena Sorbi Organizzazione | Ilaria Stocchi
Comunicazione | Valeria Borelli Ufficio stampa | Michele Pascarella
Tecnici | Lucia Manghi, Stefano Glielmi, Marco Cavellini Assistente | Roberto Riseri
Produzione | Lenz Fondazione
Progetto realizzato con il sostegno di DAISM-DP Dipartimento Assistenziale integrato di Salute Mentale
Dipendenze Patologiche AUSL di Parma
In collaborazione con So.Crem Società per la Cremazione | Ser-Cim Servizi Cimiteriali
I progetti di Lenz Fondazione sono realizzati con il sostegno di: MiBact | Regione Emilia-Romagna Comune di Parma | Provincia di Parma | Fondazione Monte di Parma | Università degli Studi di Parma Chiesi Farmaceutici | Festival Verdi
Visto sabato 25 giugno nel Tempio di cremazione di Valera, Parma, all’interno di Natura Dèi Teatri 2016.

“Sorry, boys”, Marta Cuscunà infrange lo specchio del maschilismo

Gli adulti @ Sorry, boys
Gli adulti @ Sorry, boys

MATTEO BRIGHENTI | Gli uomini? Sono buoni solo a dare il seme. 18 ragazze del liceo di Gloucester nel Massachusetts, Stati Uniti, hanno scelto che quel lascito inconsapevole e incosciente dei compagni fosse la radice, l’inizio e il futuro del loro mondo nuovo. Tutte rimaste incinte, contemporaneamente, per mettere alla luce una comune di sole madri e figli.
Per Sorry, boys, terza tappa del suo progetto sulle Resistenze femminili, Marta Cuscunà si ispira a un fatto di cronaca, come già per i precedenti È bello vivere liberi! sulla partigiana Ondina Peteani e La semplicità ingannata sulle clarisse di Udine nel Cinquecento, un evento accaduto realmente nel 2008 e che continua ad accadere ancora oggi, dal momento che ognuna delle giovani, all’epoca di 15-16 anni, sta crescendo il proprio bambino.
In scena, però, non c’è nessuna di loro e anche la combattiva artista di Monfalcone, come già ci aveva spiegato alla vigilia del debutto, stavolta fa un passo indietro, dietro a 12 teste ‘animatroniche’ realizzate da Paola Villani, ex Pathosformel, sui calchi di altrettanti modelli (qui un video del backstage). Cuscunà è un’esplosione di caratteri, un’orchestra di timbri e colori per 6 adolescenti maschi e 6 tra genitori, l’infermiera e il preside del liceo, e muove le braccia veloci come i martelletti della macchina da scrivere: le pagine di pensieri, parole, opere e omissioni sono i movimenti di quei volti che paiono infiniti. 12 teste mozzate, 12 maschere a cui la versatile e rigorosa autrice/attrice dà voce per una sbalorditiva indagine culturale e sociologica, che restituisce uno spaccato impietoso dell’essere virili nel nostro tempo, unendo al teatro di figura modalità narrative da new e graphic journalism.
Ci sono volute 10 persone per costruire Sorry, boys, e poi 2 fabbri, un falegname, 13 volontari, 1,74 quintali di ferro, 70 chili di siliconi e resine, qualche chilo di filamenti di PLA stampati in 3D, una quarantina di freni di biciclette, 60 pollici di monitor, che riproduce lo schermo di un iPhone e divide gli adolescenti, a sinistra, dagli adulti, a destra. Le ragazze si scambiano messaggi in un gruppo su Whatsapp che ha per sfondo una pelle di leopardo ed è chiamato ‘sorry boys’: a rispondere a domande, dubbi, richieste è infatti lo stesso spettacolo, che parla tra di loro, perché è una di loro. È la loro storia. E così comincia l’azione, tra faccine, smile, “ce ne andiamo”, “bisogna salutare”, “spiegare cosa?”. Alla chat si alterna, a mo’ di cambio scena, la app iMum che segue la gravidanza mese per mese e paragona la lunghezza del feto ogni volta a un frutto diverso.
La luce che si alza svela una vista da contrappasso dantesco, da supplizio tragico: le teste sono appese come trofei di caccia, al pari della serie fotografica We are beautiful del ventisettenne Antoine Barbot. Trofei di sconfitta, perché la decisone delle ragazze madri li ha inchiodati a ruoli residuali, senza volontà o coscienza, schiacciati in due dimensioni, destra-sinistra, alto-basso. Sono su dei distintivi di un’autorità che non esiste più, né sugli altri, né tantomeno su se stessi. Hanno abdicato in favore del “burattinaio” e per questo è oltremodo felice l’uso del teatro di figura: Marta Cuscunà, la cui silhouette, pantaloni neri, scarpe da ginnastica, termina con quelle teste, è sì la manifestazione delle conseguenze della decisone delle ragazze, ma anche, forse soprattutto, la ‘longa manus’ della società sbilanciata al maschile di cui si parla nelle note di regia, in cui si riconoscono e a cui aspirano gli uomini e che le donne adulte subiscono in silenzio.

Marta Cuscunà @ Centrale Fies
Marta Cuscunà @ Centrale Fies

I ragazzi fanno sesso (non l’amore) e non protetto con lo stesso freddo e distaccato narcisismo con cui guardano i porno o giocano ai videogame. I miti sono il macho televisivo, sposare una pornostar per sistemarsi, e il mantra scandito a turno è “non un uomo, non una macchina, molto di più, un Terminator” da Terminator: Genisys, l’ultimo della serie in ordine cronologico. Solo i sospiri, lunghi, densi, sono pieni di qualcosa di simile a rimpianti sfuggenti. La notizia della maternità delle loro ragazze arriva come una valanga sull’ennesimo film hard: restano impietriti, fermi, sbigottiti, strabuzzano gli occhi, lo stupore è vasto, continuo, in piani di ascolto lasciati fissi e sospesi, per poi essere ripresi puntualmente. Si domandano “perché non ci hanno voluto?” e poi l’unica cosa che sanno fare è comprare i pannolini.
Agli adulti interessa soltanto stabilire se c’è o no un patto tra le ragazze e se questo cambia qualcosa. “Non cambia niente” è la linea difensiva. Queste giovani vivono una guerra quotidiana e i genitori non le riescono a capire, perché non accettano che non siano più figlie, ma madri a loro volta, e pur di salvaguardare le apparenze, pur di salvare la faccia, è il caso di dire, acconsentono anche che subiscano violenze. Se il dialogo dei ragazzi è agghiacciante per via della loro pochezza intellettuale e affettiva, i monologhi degli adulti, uno a uno sotto un faro da interrogatorio di polizia, è straziante per quanto ciecamente rivendicano ragione e vittismo: non hanno lacrime o le hanno già versate tutte, eppure sembrano piangere.
Secondo la stampa italiana di quell’anno, a ispirare le 18 ragazze furono film come Juno, il bisogno di sentirsi amate e di poter amare, la crisi di identità e di vita quotidiana di Gloucester. Sorry, boys si basa su The Gloucester 18, documentario in cui una di loro confessa di aver voluto creare una famiglia tutta sua dopo aver assistito a un terribile femminicidio. Nella cittadina, infatti, non passava letteralmente giorno senza che il dipartimento di polizia non ricevesse una segnalazione di violenza maschile in famiglia. Lo si racconta nel documentario Breaking our silence, altra fonte dello spettacolo, insieme a come questa situazione avesse spinto 500 uomini a organizzare una marcia per sensibilizzare la comunità al problema.
La gravidanza rivendicata contro la violenza degli uomini convive in Sorry, boys con la consapevolezza che solamente loro possono porvi fine, rifiutando i modelli imposti di mascolinità. Gli uomini? Sono buoni soprattutto a dare risposte. E ora che lo specchio riflesso della società si è infranto contro il palcoscenico anche Marta Cuscunà può tornare a essere la ragazza che è. Tutta d’un pezzo.

Sorry, boys

di e con Marta Cuscunà
progettazione e realizzazione teste mozze Paola Villani
assistenza alla regia Marco Rogante
disegno luci Claudio “Poldo” Parrino
disegno del suono Alessandro Sdrigotti
animazioni grafiche Andrea Pizzalis
costume di scena Andrea Ravieli
co-produzione Centrale Fies
con il contributo finanziario di Provincia Autonoma di Trento, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo
con il sostegno di Operaestate Festival, Centro Servizi Culturali Santa Chiara, Comune di San Vito al Tagliamento Assessorato ai beni e alle attività culturali, Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia
distribuzione Laura Marinelli
teste gentilmente concesse da Eva Fontana, Ornela Marcon, Anna Quinz, Monica Akihary, Giacomo Raffaelli, Jacopo Cont, Andrea Pizzalis, Christian Ferlaino, Pierpaolo Ferlaino, Filippo pippogeek Miserocchi, Filippo Bertolini, Davide Amato
Un ringraziamento a Andrea Ravieli, Lucia Leo, Roberto Segalla e alle ragazze e ai ragazzi del Gender and Sexuality Group del Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico
Marta Cuscunà fa parte del progetto Fies Factory
Nello spettacolo si segnala la presenza di riferimenti sessuali espliciti nel linguaggio.
Visto martedì 28 giugno a Villa di Scornio, Pistoia, all’interno di Teatri di Confine 2016.

NTF2016: alla ribalta la storia di Giulia Civita Franceschi, l’educatrice alla guida di una “nave-scuola”

ESTER FORMATO | La collocazione site specific dello spettacolo “Mare Mater” ha una valenza duplice e tale peculiarità diviene – al primo impatto –  componente essenziale della natura e della teatralità dello stesso.

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L’area della Marina Militare che ingloba anche il Bacino Borbonico del Molo San Vincenzo, col suo bacino d’acqua, gli ormeggi e le imbarcazioni militari ancorate alle piattaforma, è lo speciale palcoscenico che ha ospitato, in occasione del Napoli Teatro Festival, il lavoro scritto e diretto da Alfonso Postiglione e Fabio Crocifoglia, facendo convergere alla perfezione l’ambientazione teatrale e quella storica, realissima di quella che fu la Nave Caracciolo e, dunque,  la vicenda individuale di Giulia Civita Franceschi (interpretata da Manuela Mandracchia). Perché proprio lì, dove eravamo ad assistere allo spettacolo, immersi in uno scorcio inedito ai molti della Napoli portuale, fu ormeggiata la nave-scuola che dal 1913 al 1928 accolse più di settecento “monelli” napoletani allo scopo di dar loro istruzione e formazione ai mestieri.

Chi è Giulia Civita Franceschi (1870-1957) forse ancora pochi lo sanno, ed è una vera falla della memoria collettiva perché, definita la “Montessori del Mare”, fu madre ed educatrice di centinaia di “scugnizzi” di strada, orfani dediti all’elemosina o ai furti  e che ella – ottenuta la direzione della Nave Caracciolo – raccolse e accudì secondo un metodo pedagogico puerocentrico; tale approccio partiva da un’osservazione costante del fanciullo nel nuovo spazio e continuava con un progressivo sviluppo delle relative inclinazioni naturali con le quali il bambino poteva identificarsi e acquisire autonomia e significato all’interno della società e costruire, così, costantemente una propria autobiografia che successivamente imparava a mettere su carta, come un’autentica terapia.

La regia e la drammaturgia di “Mare Mater” prediligono un taglio intimistico della vicenda; si rievoca la nave (la scuola fu chiusa nel 1928 a causa dell’obbligatorietà di conformazione all’educazione fascista)  che era in quello stesso bacino, ora contigua parte dell’assito naturale e dal quale con una barca a remi – a mo’ di “Inferi della memoria” – giungono i due ex caracciolini che innescano il susseguirsi dei ricordi ed il padre Emilio che sollecitò l’attività pedagogica della figlia, assumendola sin da ragazzina come educatrice nel suo laboratorio d’ebanista e scultore. Un “tornare indietro” – è questo l’adynaton che si traduce nell’enucleazione drammatica dei punti essenziali ed intensi dell’esperienza della donna  –  che inizia con la banda dei ragazzi dell’Associazione Life-Scugnizzi a Vela che, impersonando i tanti ragazzini della Nave, “scorrono” dinanzi ai nostri occhi sotto una luce bluastra, scatto fotografico, fusione del passato e del presente.

Di sottofondo delle musiche accompagnano la rappresentazione, suggestioni sonore – echi bambineschi rimbombano nel bacino a sciorinare alcuni dei nomi dei ragazzi – acuiscono la natura introspettiva della storia il cui rammentare è vissuto come parto maieutico giacché uno dei due ex caracciolini rifiuta di ricordare i suoi anni nella Nave e dal suo  faticoso riconoscersi traluce la condizione vessatoria di chi, secondo un determinismo sociale ancora vigente in una città come Napoli, è  stato (o ha continuato ad essere senza possibilità di redenzione) “scugnizzo”, plebaglia informe e viziosa.

Nel complesso, allora, la vicenda della Civita Franceschi si concreta in “Mare Mater” come un’estrapolazione lirica – non scevra di contorni tipicamente indigeni, come i canti – cesellata dagli episodi presenti nel grande archivio fotografico e documentario tuttora esposto al Museo del Mare, che ne plasmano la drammaturgia in cui emblemi cruciali quali la storia di Pinocchio, la polisemica figura del Mare vengono interiorizzati dalla protagonista per riconoscere ancora una volta, le più profonde ragioni di un’educazione definita semplicemente “del cuore”.

Del site specific che probabilmente in questo frangente si  rivela elemento doppiamente suggestivo ne osserviamo anche il rischio e cioè quello di una declinazione a puro evento di cui  il Napoli Teatro Festival pare essere affetto nei suoi labili “approdi” al tessuto autentico di una città così complessa. Più che altro si auspica che tale materia drammaturgica  possa essere ridefinita  nella volontà di continuare a veicolarne la storia, elargendo spunti di approfondimento ad un pubblico meno circoscritto .

Mare Mater                                                                                                                                                  o della esemplare storia della Nave Caracciolo e del suo capitano Giulia Civita Franceschi 

UNO SPETTACOLO DI FABIO COCIFOGLIA E ALFONSO POSTIGLIONE
COLLABORAZIONE DRAMMATURGICA DI ANTONIO MARFELLA
CON MANUELA MANDRACCHIA, GRAZIANO PIAZZA, LUCA IERVOLINO, NIKO MUCCI, GIAMPIERO SCHIANO
E LA PARTECIPAZIONE DEI BAMBINI DELLA BANDA MUSICALE DI BARRA DEL PROGETTO CANTA SUONA E CAMMINA
E DEI RAGAZZI DELL’ASSOCIAZIONE LIFE-SCUGNIZZI A VELA
MUSICHE E AMBIENTE SONORO LUCA TOLLER
COLLABORAZIONE ARTISTICA ENZO MUSICÒ
PRODUZIONE LE NUVOLE/CASA DEL CONTEMPORANEO – CENTRO DI PRODUZIONE
IN COLLABORAZIONE CON MARINA MILITARE ITALIANA, FONDAZIONE THETYS-MUSEO DEL MARE DI NAPOLI, INTERNATIONAL PROPELLER PORT OF NAPLES, AUTORITÀ PORTUALE DI NAPOLI, LEGA NAVALE ITALIANA, PIO MONTE DELLA MISERICORDIA

Stravinsky e il suo soldato in guerra col destino

 

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Roberto Zibetti
LAURA NOVELLI | E’ inconsueto per una rassegna consolidata come il Rome Chamber Music Festival diretto da Robert McDuffie osare incursioni in ambiti espressivi diversi dalla musica. E invece quest’anno la manifestazione, svoltasi  ancora una volta nella splendida cornice di Palazzo Barberini, insieme ad un raffinato bouquet di proposte concertistiche e sottolineando in modo sempre più decisivo il sostegno alle giovani promesse della musica classica internazionale, ha avuto in serbo una sorpresa teatrale davvero degna di nota. Un allestimento, cioè, dell’Histoire du soldat di Igor Stravinsky che ha mescolato insieme musica, teatro, narrazione, danza, visione scenografica e magia favolistica in un unicum capace di rievocare il wor ton drama wagneriano, l’epicità brechtiana, il teatro simbolista d’inizio Novecento, un certo gusto naïf per la mitologia popolare: echi di quella tradizione spettacolare che scorre nelle vene più autentiche del nostro dna artistico e che si è spesso configurata, nei secoli, come tensione rivoluzionaria, innovativa, moderna.

Scena nuda. Un divano rosso. L’orchestra dietro al piccolo palcoscenico allestito  in un luogo incantato, dinnanzi ad archi, statue e colonne che creano già di per sé un’architettura di linee, luci e scorci di forte impatto. Il tempo è sospeso. Lo spazio è uno spazio universale. Niente di meglio per un’opera da camera che, come è noto, il compositore russo scrisse nel 1918 sulle ceneri del primo conflitto mondiale nell’intento di realizzare una storia “da leggere, recitare e cantare” che avesse giocoforza un legame con quella carneficina insensata e barbarica. Con lui collaborò lo scrittore e romanziere Charles-Ferdinad Ramuz che ne scrisse il libretto ispirandosi alla favola Il soldato in fuga e il Diavolo di Alexander Nokolayevich Afanasyev.

Nel lavoro prodotto dal RCMF e diretto dal regista e musicologo Enrico Stinchelli (conduttore del fortunato show radiofonico “La Barcaccia”, curatore di numerose regie liriche e monografie specialistiche), la voce narrante è affidata ad un energico, ironico, istrionico Roberto Zibetti, attore di indubbio temperamento di cui ricordiamo la recente interpretazione di Herbert Lehman nella Lehman Trilogy di Massini allestita da Ronconi al Piccolo. Impeccabile in frac e con portamento elegante, egli ci introduce alla vicenda, spiegandoci con il necessario distacco che Stravinsky l’aveva immaginata per delle marionette. E in effetti, quando compare in scena la brava Alessia Patregnani nei panni del soldato e la musica, meravigliosa, è già alta, si ha davvero l’impressione di vedere apparire un pupazzo marciante. Un pupazzo che emblematicamente personifica l’Uomo. Un pupazzo che va incontro al suo destino caparbio e crudele con l’ingenuità di un giovane scampato alla morte. Divisa verde e basco in testa, passo deciso ma volto trasognato, la Patregnani ben intercetta e restituisce le intenzioni stesse dei due autori: recuperare il mito di Faust per ricordare all’uomo che ogni tentativo di sottrarsi alla propria sorte  è vano. Ma qui c’è di più. L’ottima regia di Stinchelli, arricchita da contributi video proiettati sul fondo, immagina infatti un soldato androgino, un po’ maschio e un po’ femmina. Un simbolo. Una marionetta, appunto, che sfiora l’utopia della supermarionetta di Gordon Craig – l’attore “solido”, stabile, privo di fluttuazioni e imprevisti –  restituendo al pubblico un’idea di dolore e di perdita dai richiami ancestrali.

La storia inizia non appena il/la protagonista si ferma ed estrae dal suo zaino un piccolo violino; in quel suono c’è tutto il bene possibile, tutta la fiducia spassionata nella vita, nella rinascita. L’arrivo del Diavolo (interpretato da un disinvolto, prorompente Paolo De Vita) distrugge questo afflato di leggerezza e dà avvio ai fatti: egli chiede al militare di dargli lo strumento in cambio di un libro che lo renderà “ricchissimo”. Il povero soldato accetta il baratto e solo più tardi capirà il folle inganno in cui è caduto: ostaggio di Lucifero per tre anni, perderà gli affetti, la famiglia, il suo sogno futuro. Certamente si arricchirà ma sarà triste e sconsolato e cercherà la vendetta. Convinto di aver avuto la meglio, riuscirà persino a sposare una principessa danzante – la ballerina Chiara Giancaterina – ma alla fine sarà di nuovo prigioniero del Diavolo che lo porterà via con sé per sempre.

Su tutto si eleva poi la perfetta esecuzione dell’orchestra diretta da Carlo Rizzari (Yoon Known bravissima al violino),  in un impasto di marcia, tango, valzer e ragtime che favorisce esso stesso un perfetto incastro di note e parole, un ritmo sempre sostenuto, sempre incisivo. L’Histoire du Soldat ci stordisce insomma di Umanità attraverso una storia semplice che richiama altre storie, altre visioni simili. Mentre assistevo allo spettacolo mi è tornato in mente qualche passaggio di quello straordinario lavoro di William Kentridge che è Woyzeck on the Highveld : marionette nere per raccontare la tragedia di un altro soldato, di un’altra sofferenza, di un altro strazio che tanto somiglia a questo di Stravinsky/Ramuz.

 

Igor Stravinsky (1882–1971)

Histoire du Soldat

La marcia del soldato; Il violino del soldato; Marcia Reale; Piccolo concerto; Tre balli: Tango—Valzer—Ragtime; Danza del diavolo; Corale; Marcia trionfale del diavolo

Roberto Zibetti, il narratore; Alessia Patregnani, il soldato; Paolo De Vita, il diavolo; Chiara Giancaterina, la principessa

Enrico Stinchelli, regia

Carlo Rizzari, direttore

Yoon Kwon, violino; Alessandro Carbonare, clarinetto; Francesco Bossone, fagotto; Alfonso Gonzalez Barquin, tromba; Enzo Turriziani, trombone; Reed Sarusa Tucker, contrabbasso; Aurelio Scudetti, percussioni

Produzione, Rome Chamber Music Festival 2016 – Palazzo Barberini di Roma, 29 giugno 2016

 

 

 

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L’umanità spaesata e violenta di Veronese/Rustioni

GIULIA MURONI | Proporre spaesamenti. Raccogliendo i frammenti di ciò che è andato distrutto, il teatro costruisce un percorso – o meglio – dirotta una traiettoria, per tracciarne una nuova e gonfiare lo sguardo di smarrimento.

Daniel Veronese, personalità centrale del teatro argentino contemporaneo, nel suo “Donne che sognarono cavalli” tratteggia le tensioni e le altalene emotive di un ristretto gruppo sociale, tre fratelli con rispettive consorti, inquadrato nel chiuso claustrofobico di un interno domestico. Roberto Rustioni si è fatto carico di questo testo per la rappresentazione omonima, andata in scena in anteprima nazionale al Festival delle Colline Torinesi, in coproduzione con Sardegna Teatro e Fattore K.

Entrando in sala, il pubblico trova una conformazione mutata: la scenografia ritaglia una porzione di spazio scenico e lo avvicina agli spettatori, invitandoli a sedere sul palco a pochi passi dall’affaccendarsi degli attori. Sulla parete articoli di giornale, tubi gialli a vista, un armadio di latta e al centro un tavolo rettangolare: efficace la scenografia a cura di Sabrina Cuccu, immerge in un’atmosfera densa da sit-com sudamericana.

I tre uomini – Rainer, Roger e Ivan – fratelli, incespicano su dinamiche familiari apparentemente insolubili: competitività, sfide, violenza latente ma anche affetto e afasia comunicativa. Rainer ha chiuso l’azienda di famiglia, Roger ha un male incurabile, Ivan è assillato da gelosie e paranoie e nessuno dei tre è in grado di rendere gli altri partecipi di ciò che gli accade; i dialoghi avvengono per provocazioni, talvolta sbottando in eccessi di ira.  Le loro tensioni non sono le uniche a animare la storia: ci sono anche quelle tra le coppie – Rainer e Ulrike che abbandonano la cena per urlarsi addosso nella stanza accanto, Roger e Bettina in un intrico di violenza e dipendenza, Ivan e Lucera dentro una bolla di ansia e incomprensione, tra il desiderio di maternità e quello di morte. Lucera ha un ruolo ibrido, nell’avvicendarsi domestico tende a assumere una posizione laterale ma è lei a padroneggiare i  momenti di uscita: di fronte al pubblico, illuminata da una luce calda mentre sul resto della scena cala l’ombra, parla in prima persona, snocciola quesiti e dilemmi. Attraverso le sue parole fa capolino in punta di piedi la Storia, Lucera, figlia di due desaparecidos durante la dittatura militare in Argentina, porta in grembo un atavico senso di morte e di angoscia, insieme a una estraneità con cui guarda il teatrino umano di cui è parte.

La lezione di Cechov, ben nota sia a Veronese che a Rustioni – di cui si ricorda l’ottimo “Tre atti unici da Anton Cechov” –  si riverbera nello sguardo impietoso e beffardo sugli interni, sulle chiacchiere e i personaggi che li attraversano. Fuori da eroismi e slanci lirici, è l’umanità nel suo tratto grottesco, a essere messa a fuoco in modo ironico e amaro.  La recitazione, naturalistica con coloriture locali – come spesso nei lavori di Rustioni –   è accordata su un canone condiviso e palleggiata con ritmo dagli attori e dalle attrici. La narrazione, per quadri, viene disarticolata e riorganizzata su un andamento non lineare. La regia ricostruisce sulla drammaturgia di Veronese un soggetto corale dissonante, un’umanità complessa, sofferente e sorniona e, benché non tutti i raccordi siano cristallini, è nel concerto di stratificazioni umane che si trova la qualità –  imprevista, efferata, fragile –  dello spaesamento come categoria esistenziale, oltre che estetica.

 

 

Sarà il 7 e l’8 Luglio a Castiglioncello, al festival Inequilibrio

 

Visto alle Fonderie Limone (TO), nel cartellone del Festival delle Colline Torinesi

di Daniel Veronese

regia Roberto Rustioni

adattamento Roberto Rustioni

con Valeria Angelozzi, Maria Pilar Perez Aspa, Michela Atzeni, Paolo Faroni, Fabrizio Lombardo, Valentino Mannias

assistente alla regia Soraya Secci

scene e costumi Sabrina Cuccu

assistente scenografo Sergio Mancosu

luci Matteo Zanda

foto Alessandro Cani

co-produzione Fattore K – Sardegna Teatro – Festival delle Colline torinesi

con il sostegno di Fondazione Olinda Teatro La Cucina

Impavida e dolente, la Fedra di Seneca nella infuocata lettura di Cerciello

FILIPPA ILARDO | Fedra, si libera come da un bozzolo da un enorme, sontuoso mantello che la sovrasta, rimane solo corpo, lei e il suo destino, lei e il suo amore, lei e sé stessa, lei che vuole e non vuole, in poche parole Fedra. Fedra e il suo amore impuro, scellerato: spogliata da simboli di potere che delimitano la libertà, dalle strutture sociali e dalle convenzioni rigide che impongono regole, dal pesante fardello di doveri, tradizioni, convenzioni, Fedra, dilaniata, obliqua, sommamente tragica e poeticamente umana, è sola con la sua coscienza.Imma Villa_foto Franca Centaro.jpg

Al teatro Greco di Siracusa per il 52esimo Ciclo delle rappresentazioni classiche, Carlo Cerciello, regista napoletano, mette in scena la Fedra di Seneca, tragedia senza eroi che fonda una nuova forma di tragico giocato dentro i confini dell’animo umano, in cui lo scontro tra bene e male è sviscerato in tutte le sue possibili declinazioni. 

In una selva che è anche palazzo-prigione dorata, si muovono due cori -bravissimi gli allievi e gli ex allievi della scuola dell’Inda-, uno maschile, dedito alla caccia, e uno femminile, composto da stilizzate figurine giapponesi che disegnano nello spazio incantevoli arabeschi, straordinariamente concepite dal coreografo Dario La Ferla, su musiche di Paolo Coletta. Tutto sulla scena contribuisce a creare un riverbero del dramma che si consuma, un dramma interiore che prende forma e si materializza nell’oro abbagliante dei costumi (di Alessandro Ciammarughi), nel bianco dei kimono, nella porpora sanguigna della regina, nei grigi luciferini di Teseo, sfuggito all’Ade.
Ci si accorge del taglio registico, fin dall’inizio, quando si intrecciano la monodia di Ippolito e il monologo di Fedra, a dare rilievo e ritmo alla reciprocità di due situazioni esistenziali antitetiche, incomunicabili, ma entrambe morbose e piene di furore, la passione di Ippolito per la caccia e quella di Fedra per Ippolito.
Una Fedra dolente, ma fiera, una Fedra impavida e divorata dalla passione che la infiamma è quella di Imma Villa, che accende ogni parola, ogni gesto del necessario pathos, il suo è un corpo docile, dibattuto dall’infuriare delle onde, che corre verso il destino di morte, che s’affretta verso il precipizio di distruzione, che tende fino al parossismo l’incessante lotta contro le passioni, che sviscera con mille toni e sfumature una lacerante crisi di coscienza e di dubbi.

Ippolito e Teseo, padre e figlio che Fedra confonde, sovrapponendoli l’uno all’altro, sono in realtà due facce della stessa medaglia, due risvolti dello stesso sentimento, da qui la scelta di farli interpretare entrambi da Fausto Russo Alessi, più convincente nel primo ruolo che nel secondo.

Non seconda ai due attori, Bruna Rossi, formidabile nei panni di una rigida e amorevole nutrice, sacerdotessa che incarna i valori tradizionali del buon senso, della moralità. È lei a richiamare la responsabilità individuale di un amore peccaminoso che infrangerebbe il tabù dell’incesto, contro ogni legge, attribuendo la passione della donna non più alla divinità, ma alla libido e al furor, trasportando così questo sentimento dalla sfera di un’azione divina alla sfera della coscienza.
Uno spettacolo che concede molto, moltissimo all’occhio, ma che lascia in primo piano la comunicazione fondata sulla parola, sulle parole, parole che di un mito sa risvegliare l’orrore, che trascende le facoltà della ragione per inoltrarsi nel mondo dello stupore e del terribile. Un mito che diventa potenza visionaria del mondo, immaginario collettivo che contribuisce a dare significato al nostro esistere: quello di Cerciello è uno spettacolo pieno di coraggio, ma che si fida del testo e che da esso si lascia trasportare, uno spettacolo che segna un percorso di risalita verso l’antico, ma rifratto sulla realtà presente, uno spettacolo che si sedimenta nella memoria, e che ti lascia dire che i miti non muoiono mai, per fortuna.

 

FEDRA

di Seneca

Regia Carlo Cerciello

con

Imma Villa

Fausto Russo Alesi

Bruna Rossi,

Sergio Mancinelli,

Elena Polic Greco,

Simonetta Cartia,

allievi ed ex allievi dell’INDA

Traduzione Maurizio Bettini

Scene Roberto Crea

Musiche Paolo Coletta

Costumi Alessandro Ciammarughi

Coreografie Dario la Ferla

Assistente alla regia Walter Cerrotta

dal 23 al 26 giugno Teatro Greco di Siracusa, nell’ambito del 52esimo Ciclo delle rappresentazioni classiche

 

 

 

 

Socrate passa la maturità: dietro ai banchi di scuola con Anagoor

GIULIA RANDONE | Un maestro e i suoi discepoli a confronto nell’ora della morte. Giugno 2001: un ragazzo di vent’anni stermina a sangue freddo tutti i componenti della commissione d’esame di maturità, risparmiando soltanto il professore di storia e filosofia. Maggio 399 a.C.: Socrate muore circondato dai propri allievi e amici, ragionando serenamente insieme a loro del rapporto tra l’anima e il corpo,  fino all’ultimo istante. Due atti liminali che la compagnia veneta Anagoor fa dialogare a dispetto dei secoli, riattizzando gli interrogativi sulla giustizia, la libertà, la verità e la conoscenza intorno ai quali da sempre si consuma il rapporto dell’uomo con se stesso e il mondo. La prima assoluta di Socrate il sopravvissuto / come le foglie ha chiuso la XXI edizione del Festival delle Colline Torinesi, che dello spettacolo è co-produttore insieme a Centrale Fies, con un affondo nel mondo dei giovani e del nostro sistema di educazione.

anagoor socrate foto di Giulio Favotto
Foto di Giulio Favotto

Sulla scena sgombra delle Fonderie Limone un adulto fronteggia un gruppo di ragazzi: da una parte l’uomo e il suo carico di esperienza, dall’altra otto giovani silenziosi e intrappolati nei propri banchi. Due soggetti che agiranno quasi sempre separatamente, fatte salve alcune cruciali interazioni, ma che paiono connessi da un filo trasparente, in costante tensione: una relazione attraverso cui si gioca l’opportunità di un reciproco cammino di conoscenza o, al contrario, una semplice distribuzione e assimilazione di informazioni regolamentata dallo Stato. Il punto di osservazione è quello di Andrea Marescalchi (interpretato da Marco Menegoni), docente di storia e filosofia alle prese con una classe di adolescenti e un programma ministeriale da comprimere nel poco tempo a disposizione. Inizialmente dal coro degli studenti – otto giovanissimi attori/performer scelti da Anagoor attraverso un annuncio – spicca un’unica voce di protesta, in absentia: quella di Vitaliano Caccia, l’alunno che ha lasciato vuoto il nono banco. Lo studente, già bocciato e per questo pregiudicato, provoca l’insegnante domandando se sia giusto concludere il programma liceale con un elenco impersonale e sbrigativo degli orrori del Novecento e che “non si può lasciare l’ultima parola al massacro”. Il professore si libera del problema suggerendo allo studente di scrivere sul tema una tesina di maturità, ma all’esame finale Caccia si presenterà in veste d’assassino, in una riproposizione estrema del medesimo quesito.

Intrecciando alcuni passi del romanzo di Antonio Scurati Il sopravvissuto con innesti da Platone e dallo scrittore olandese Cees Nooteboom, Simone Derai e Patrizia Vercesi compongono una tessitura drammaturgica fitta e accurata, seppur viziata da un certo didattismo. Quello stesso didattismo che la pièce condanna per bocca dell’insegnante protagonista, ma che in un effetto boomerang torna a colpire l’opera stessa con immagini che sembrano trascrivere “in bella” i concetti, senza metterli alla prova. Per fuggire l’illustrazione occorrerebbe infatti che gli interpreti di Socrate il sopravvissuto si assumessero il rischio di un corpo a corpo con lo spazio e il tempo della scena, ma questo confronto non sembra interessare affatto la regia, che guarda con occhio estetico alla composizione dell’immagine.

La narrazione incede scandita dai mesi che ingabbiano la moderna istruzione scolastica, settembre-giugno, ma sconfina felicemente nel passato, nelle ore che precedono la morte di Socrate. Quelle stesse pagine del Fedone a cui il prof ha sapientemente destinato l’ultima ora prima delle vacanze estive, per inchiodare alla sedia i corpi impazienti degli studenti e sedurli con il proprio carisma, rivivono nella raffinatissima ripresa video curata da Derai e da Giulio Favotto, che domina la sezione centrale dello spettacolo. Il narcisismo dell’insegnante, che in classe recita la parte di Socrate “come se ci credesse”, commuovendosi della propria esibizione e della seduzione esercitata nei confronti di Lisa, alter ego del “più caro tra gli allievi” Critone, si rispecchia nell’autocompiacimento della lunga ripresa video, inappuntabile e seducente nello stile, ma allo stesso modo finalizzata a soggiogare. Come il liceale di fronte al professor Marescalchi, lo spettatore di Socrate il sopravvissuto / come le foglie viene sottoposto a istruzione, scoprendosi più ammaliato dall’eleganza con cui l’insegnamento viene messo in scena che dal vigore intrinseco al dialogo socratico.

Impressione spiacevole quella di essere destinatari di una lezione ben confezionata, che però in questo caso si trasforma in un insospettato punto di forza, perché ci sprofonda nelle ambivalenze che caratterizzano il processo di trasmissione della conoscenza. Dopo aver vestito la condizione di allievi indottrinati, ci accorgiamo di sentirci via via contagiati dal disagio del maestro Marescalchi, consapevole di tacere le proprie disillusioni e di mentire “a fin di bene”, per guadagnarsi la riconoscenza degli studenti.

Nel romanzo di Scurati e nello spettacolo di Anagoor il percorso di alienazione in cui si è convertita la paideia, formazione dell’uomo che coinvolge tanto i maestri quanto gli allievi, è interrotto bruscamente dall’irrompere della morte. A chi è sopravvissuto resta la possibilità di mettere in atto l’insegnamento che Socrate traeva dal motto delfico “Conosci te stesso”, ossia guarda te stesso riflesso nello sguardo dell’altro. O, parafrasando ancora un po’, vai il più spesso possibile a teatro.

Il prossimo appuntamento con Socrate il sopravvissuto / come le foglie è il 29 e 30 luglio al Festival Drodesera.

SOCRATE IL SOPRAVVISSUTO / come le foglie

di Simone Derai e Patrizia Vercesi
regia Simone Derai

dal romanzo Il Sopravvissuto di Antonio Scurati
con innesti liberamente ispirati a Platone e a Cees Nooteboom
con Marco Menegoni, Iohanna Benvegna, Marco Ciccullo, Matteo D’Amore, Piero Ramella, Francesca Scapinello, Margherita Sartor, Massimo Simonetto, Mariagioia Ubaldi

maschere Silvia Bragagnolo e Simone Derai
costumi Serena Bussolaro e Simone Derai
musiche e sound design Mauro Martinuz

video Simone Derai e Giulio Favotto
con Domenico Santonicola (Socrate), Piero Ramella (Alcibiade), Francesco Berton, Marco Ciccullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro, Massimo Simonetto
riprese aeree Tommy Ilai e Camilla Marcon
concept ed editing Simone Derai e Giulio Favotto
direzione della fotografia e post produzione Giulio Favotto / Otium
regia Simone Derai

produzione Anagoor
co-produzione Festival delle Colline Torinesi, Centrale Fies

progetto realizzato con il sostegno del bando ORA! Linguaggio contemporanei produzioni innovative della Compagnia di San Paolo

Di forme, di colori e di corpi: il Béjart Ballet Lausanne a Parma

FRANCESCA DI FAZIO | Ieratico, d’impatto, colorato. Queste le prime tre parole con cui si potrebbero descrivere le coreografie del Bèjart Ballet Lausanne andate in scena lo scorso 21 e 22 giugno nella cornice scenografica del cortile della Pilotta di Parma, all’interno della rassegna estiva del Teatro Regio. Una quarta sarebbe sensuale.
La compagnia, formata nel 1987 dal ballerino e coreografo Maurice Béjart e dal 2007 diretta dal suo discepolo Gil Roman, ha portato in scena a Parma alcune delle più compiute creazioni di Béjart: Suite Barocco (1997), Ètude pour une dame aux Camélias (2001), Bhakti III (1968), il famosissimo Boléro (1961) e una creazione coreografica di Gil Roman, Impromptu…(2015).

Il primo movimento, Suite Barocco, è una colorata visione onirica: un insieme di ballerini costituiscono uno sfondo in movimento alla figura del solista che si aggira smarrito in quella foresta di corpi vestiti dei colori più sgargianti. All’inno vivace dei danzatori simili a un nugolo di uccelli fa da contrasto l’uomo, torso nudo, pantaloni neri, soprabito e un’espressione tormentata. Tiene in mano una pistola: la punta alla tempia, e spara. La morte non sarà tuttavia definitiva: il ballerino si rialzerà per ricominciare a danzare, a simboleggiare un ciclo vitale che fuoriesce dal tempo reale. Tutta la coreografia è come immersa in un sovramondo irreale di fantasia, in cui ogni cosa può compiersi. Meravigliosa la danza dei ventagli: tre donne con candidi abiti leggeri eseguono una danza sinuosa muovendo enormi ventagli bianchi, in una fantasmagoria che sa di lontano oriente, di chinoiserie in movimento. La danza si muove sulle note di musiche barocche del XVIII secolo, per terminare in un crescendo di pathos nel solo del protagonista, Julien Favreau, che danza sullo sfondo del coro colorato, immobile salvo lenti movimenti accennati agitando piano i ventagli, sulle note di un Lascia ch’io pianga che diviene coerente accompagnamento ad una scena pop.

Il secondo movimento, Ètude pour une dame aux Camélias, danzato da Elisabet Ros (interprete anche della Melodia nel Boléro), è un universo più intimo e introspettivo, dai toni elegiaci. Una donna di bianco vestita danza lentamente mentre una nera schiera di figure maschili si aggira frettolosamente intorno a lei, che cerca invece un abbraccio. Ricerca un istante in cui sostare. Alcuni si fermano e la stringono per un momento, ma subito i corpi si separano: lui torna a camminare, lei a danzare smarrita, e qui la memoria è sfiorata dal ricordo degli abbracci impossibili del Cafe Müller di Pina Bausch. Mentre lentamente la spogliano del vestito per lasciarla con solo una tuta aderente e bianca, le nere figure cominciano a dileguare. Rimasta sola sul palco, compie un assolo dai movimenti classici e moderni a un tempo, un assolo che, forse per il forte contrasto con il pezzo precedente, lascia come un vuoto e risulta meno convincente di altre scene corali.

Bhakti III, un classico del repertorio del Béjart Ballet, è un’ipnotica e perfetta fusione di danze sacre orientali e discipline del balletto occidentale. La ieraticità della danza indiana si fonde alle movenze della danza occidentale in figurazioni sacre: Shiva, il dio della danza, si unisce alla sua sposa Shakti, l’energia vitale, in una cornice di luci e costumi di un rosso acceso, che conferiscono a questa coreografia dai ritmi veloci e serrati un più intimo respiro sensuale. A testimoniare il sincretismo culturale caratteristico di Béjart, questo movimento è un distillato dell’essenza di cerimonie coreutiche tradizionali in una trasfigurazione di forma occidentale, dove gli accenni coreografici alle danze rituali indiane sono restituiti “in un’astratta cornice moderno-accademica”.

A seguire, Impromptu…, ideato da Gil Roman, è un inno alla femminilità, in cui le danzatrici sono delicate e al tempo stesso furiose come Danaidi in perpetuo movimento. Si muovono slegate le une dalle altre o insieme in coreografie incrociate, in movenze che trasmutano fluidamente da ostilità a corteggiamenti, il più intenso dei quali è danzato da un uomo e una donna che disegnano delicate figure di unione.

Béjart-Ballet-Lausanne-Bolero-Maurice-Bèjart-ph-I-Chkolnik-2007.jpgGran finale affidato al Boléro, unico pezzo ad essere arricchito da una scenografia che nell’estrema semplicità risulta essere potentissima: un enorme tavolo rotondo al centro, circondato da tre file di sedie disposte lungo i lati del palco. Tutto di legno dipinto di rosso, linee pulite e scevre da decori. La coreografia segue l’andamento musicale del balletto di Ravel, un moto costante e uniforme, una composizione di armonia e ritmo che si ripete infinitamente uguale a sé, nella sola variazione di volume e intensità che porta alla travolgente melodia finale. Così, una sola ballerina posta in risalto al centro del tavolo (qui Elisabet Ros, ma la danza è stata ugualmente pensata ed eseguita nel tempo sia da un uomo che da una donna) comincia la danza al lento ritmo del Boléro, contornata da una schiera di ballerini immobili seduti sulle sedie intorno. A poco a poco, a piccoli gruppi, i ballerini si alzano e cominciano a danzare attorno al tavolo, assecondando e valorizzando il ritmo in crescendo della musica.
A differenza di gran parte di altri che hanno coreografato il Boléro prima di lui, Béjart ha voluto tralasciare i mezzi pittoreschi per esprimere l’essenziale. Nel mémoir La Vie de qui?, l’artista lo descrisse così: “il Boléro è un grande rituale di morte, la donna (o l’uomo) che danza sul tavolo è desiderata, inghiottita dalla vitalità e dalla fame di coloro che le danzano intorno. Ci si mantiene in vita con la morte di altri organismi”.