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Tagad’Off2016: la Nuova Drammaturgia Lombarda al fotofinish

VALENTINA SORTE | La Nuova Drammaturgia Lombarda non se la cava male, o almeno così sembra dall’alta qualità dei lavori presentati durante Tagad’Off 2016, festival organizzato da ILINXARIUM nei tre comuni di Inzago, Cassano d’Adda e Cassina de’ Pecchi e rivolto a giovani compagnie/artisti (under 35) o costituiti da meno di 3 anni, operanti in Lombardia.
Oltre ad assegnare il premio finale a Servo Muto Teatro per lo spettacolo Polvere, la giuria del concorso, insieme alla direzione artistica di ILINXARIUM, ha deciso infatti di premiare con una residenza produttiva anche FrigoProduzioni e Coperte Strette, e di segnalare con menzioni speciali alcune cose apprezzabili di questa quinta edizione.Schermata 2016-06-26 alle 17.05.57.png

Iniziamo dai vincitori ufficiali: in Polvere di Servo Muto Teatro una bambina sola in scena (Marzia Gallo) sovrappone nella propria narrazione ricordo e presente, fantasia e realtà per riuscire a superare l’evento drammatico che l’ha separata per sempre dalla madre, un bombardamento. La storia non ha volutamente una collocazione storica o geografica definita, perché l’ambientazione è soprattutto intima. La scelta di Michele Segreto di costruire lo spettacolo sullo scambio di battute tra due voci che non si sentono è molto riuscita. Da una parte c’è la presenza viva della Gallo che racconta le sue giornate al collegio o a casa del nonno, dall’altra c’è la voce-off della madre assente che si rivolge (forse) alla figlia. Allo spettatore il compito di realizzare la sintesi, di unire in qualche modo queste due voci parallele. Ed è proprio lo sguardo del pubblico a rompere “a dovere” il ritmo binario su cui si regge lo spettacolo.

Oltre a vincere il concorso, Polvere si aggiudica una menzione per il migliore allestimento scenico. Pochi, e semplici, gli oggetti in scena – un’enorme sedia, un piccolo sgabello, un cappello, una radio – ma capaci di trasformarsi all’occorrenza e di creare velocemente nuovi spazi e atmosfere.

Anche FrigoProduzioni opta per una sorta di non-dialogo in Mondo Cane, ma non per ragioni di “assenza” quanto per una vocazione alla menzogna. Attraverso alcune conversazioni telefoniche di cui sentiamo solo una voce, quella di Daniele Turconi, assistiamo alle continue bugie che il protagonista racconta alla madre, alla ex-fidanzata e a se stesso per far fronte a una vita che non è esattamente come avrebbe voluto, fino ad una vera e propria caduta libera. Buio. Tutto si ferma. Turconi (bravissimo) finge una sorta di resa al pubblico, piuttosto spiazzante. In realtà riavvolge la sua storia e la apre ad una seconda possibilità. Racconta da capo, ripartendo proprio da dove aveva iniziato: l’esame di maturità.
Si tratta di un lavoro ben fatto, non solo per una regia molto asciutta e fluida (dello stesso Turconi e di Matteo De Blasio) ma per lo spunto drammaturgico da cui nasce. Nonostante FrigoProduzioni non abbia all’attivo molti lavori (Socialmente, Mondo Cane e Tropicana), la scrittura scenica è più che sperimentata. Ironica e pungente, senza fronzoli. Molto calata nella contemporaneità che vuole raccontare.
Mondo Cane fa incetta di premi: oltre a una residenza di 20 giorni, riceve una menzione speciale per la migliore recitazione e per la migliore drammaturgia.

Schermata 2016-06-26 alle 17.02.37Coperte Strette con Hotel Lausanne parla di un altro tipo di “menzogna”, ricorrendo questa volta al travestimento. La giovane compagnia porta al Festival un lavoro sull’idolo e sull’ideale. In scena Christian Gallucci e Anna Sala interpretano Maria Lina e Uguale, i sosia di Marilyn Monroe e Adolf Hitler. Quella che si svolge davanti al pubblico è la loro ultima esibizione all’Hotel Lausanne, una sorta di museo dei sosia con pubblico pagante. In realtà qualcosa va storto, i sosia non riescono a staccarsi dalle figure che li hanno ispirati e le loro identità si mischiano sempre di più con i personaggi che interpretano, ribaltando la premessa iniziale. Non è una somiglianza fisica che avvicina il sosia al personaggio famoso, ma al contrario è quest’ultimo che invade e plasma l’identità del sosia. Per Maria Lina e Uguale non c’è più modo di tornare indietro, la finzione diventa l’unica realtà possibile. L’identificazione con l’idolo è totale.
Hotel Lausanne ha senza dubbio una costruzione interessante, anche se forse lo spettacolo non entra subito nel vivo della questione, rischiando di condensare tutte le questioni più importanti nella seconda parte. Nonostante questo il lavoro è molto valido, tanto da vincere una residenza di 20 giorni e una menzione speciale per la migliore interpretazione (Anna Sala).

In direzione completamente opposta si muove Tiziana Vaccaro con Terra di Rosa – u canta ca vi cantu. La giovane attrice catanese racconta e canta la vita di Rosa Balestrieri, figura decisiva del cantautorato siciliano degli anni ’70 e della canzone popolare. La Vaccaro, molto intensa e potente nella sua interpretazione, punta sulla verità biografica della “Cantatrice del Sud”.
La narrazione segue fin da subito un ordine cronologico, ripercorrendo non solo gli eventi più duri e significativi nella vita di questa donna (una vita fatta di stenti e abusi ma anche di incontri importanti) ma restituendo anche il rapporto difficile con la sua terra. La tanto amata/odiata Sicilia. Terra di Rosa è uno spettacolo ben strutturato, con un ritmo sostenuto, soprattutto nella parte iniziale (l’infanzia e la maturità di Rosa) quella finale (il ritorno in Sicilia). La parola e la canzone sono le protagoniste, in qualche punto fin troppo, ma anche il gesto si inserisce con la giusta forza. Il risultato: una grande partecipazione alla storia di Rosa dalla parte del pubblico  e una menzione come migliore interpretazione.

E infine Fenice dei Rifiuti, ex CTAS, compagnia da tempo dedicata al teatro civile. Michela Giudici e Alessandro Veronese affrontano un tema molto delicato in Annabel, Ballata anoressica per Manichini Bulli. Il percorso di autodistruzione della protagonista viene presentato e raccontato con dovizia di particolari ma senza riuscire ad andare a fondo nella questione. Lo spettacolo sembra avere infatti ancora dei punti irrisolti sia dal punto di vista drammaturgico, sia da quello registico e attorale. Per prima cosa poco funzionale e giustificata la scelta di disporre il pubblico in senso circolare rispetto allo spazio scenico. Allo stesso modo la vicenda sembra mancare di un vero conflitto, o per lo meno di uno sviluppo significativo, e non riesce ad arrivare allo spettatore, nonostante l’interpretazione energica di Michela Giudici. Sicuramente un lavoro da rivedere.

Al di là delle singole questioni di merito, Tagad’Off si sta dimostrando un banco di prova per tutte quelle compagnie e artisti che desiderano confrontarsi con altre realtà emergenti e proseguire un percorso di alta professionalità. Quindi, sotto a chi tocca!

NTF 2016: il Pinocchio di Jöel Pommerat, tra smarrimento e ribellione. Coni di luce sulla realtà

ESTER FORMATO | Il “Pinocchio” firmato da Joël Pommerat che nel 1990 ha fondato la Compagnia Louis Brouillard, parte da uno studio sull’opera collodiana che, col sostegno di una mega coproduzione francese, si è tradotto nel lavoro teatrale che abbiamo visto al Napoli Teatro  Festival.

La scena, scevra di ogni possibile “mondo a colori” col quale c’immaginiamo le marachelle di Pinocchio, è essenziale, vuota; solo una turchina tenda a pieghe posta centralmente al fondo conferisce una tonalità differente dalla restante semioscurità che avvolge l’assito.

Ma il buio è qui un quadro mentale,  modus videndi di questo misterioso narratore,  girovago quasi cieco, e presto metafisica scatola scenica ove la Compagnia, in sinergia al piano della narrazione di quest’ultimo, ci mostra in vari quadri le avventure di Pinocchio.

Pommerat ricava spesso – attraverso fasci di  luci significativamente caravaggesche – delle sezioni luminose nelle quali immerge letteralmente i protagonisti della vicenda collodiana di cui  rispetta la natura episodica. Tale natura si rivela consona e funzionale alla regia, per poter giustapporre i piani di narrazione pura (il narratore ha un microfono dal quale tesse una continuità diegetica fra un quadro e l’altro) e di mimesi, facendo si che i singoli episodi che determinano il percorso di formazione del burattino di legno, abbiano una sequenzialità talvolta cinematografica, talvolta, invece, assistiamo ad un’articolazione dell’azione scenica che sfrutta la profondità dell’assito potenziata da un telo semitrasparente o meno, a seconda dell’impatto delle luci stesse.

Il risultato è un continuo fluttuare in una dimensione onirica ove si concreta un processo di teatralizzazione dello stesso Pinocchio, quale emblema di una molteplicità di riflessi vitali che si rifrangono sulla realtà, ed esattamente come il teatro ne fanno da contrappunto, quale dolce ed immaginifica ribellione ad essa.  Realtà ignota, realtà progressivamente disvelata a mo’ di un’oscura selva nella quale ci si dimena con quell’impertinente e fiera ingenuità per poterne poi in seguito farne parte, quando da “maschera scenica” quale burattino diviene un ragazzino in carne ed ossa.

Pinocchio, nell’ottica di Pommerat, è una ricreazione di pure visioni crogiolatesi nel buio del paio d’occhi di un narratore che prendono vita su un assito. Seguitano dinanzi ai nostri occhi, Mastro Geppetto, il Gatto e la Volpe con il teatro dei Burattini, qui  trasformato in una sorta di locale serale che “distrae” le giovani e scanzonate menti d’oggi e per il quale viene barattato il prezioso abbecedario, il Giudice che dal suo enorme scranno –  emblema dell’insopprimibilità dell’ingiustizia umana – condanna Pinocchio derubato alla prigione, l’episodio delle monete del Campo dei Miracoli, il Paese dei Balocchi sino a giungere alla trasformazione in asino e alla Balena in cui il burattino di legno si ricongiunge col suo Geppetto. In ogni singolo episodio il sentimento d’inadeguatezza rovista  nell’anima del protagonista, riluttante alla povertà, al sacrificio, di animo fondamentalmente indolente che gli confonde la natura del bene e del male. Il suo è un approccio complesso al mondo, decisamente più drammatico e rispetto al protagonista di Collodi si rivela molto simile a quello di un adolescente o un giovane, refrattario alla crescita e alla maturità quando queste significano responsabilità, e nell’arduo compito di autodeterminarsi. D’altronde è un Pinocchio questo, che avverte come peso la totale abnegazione del  papà nei suoi confronti e mal sopporta i relativi sacrifici a causa di una latente condizione d’inadeguatezza ; la sua è un’eredità del tutto simile a quella dei giovani d’oggi che, pur inconsapevolmente, i genitori hanno caricato di aspettative non connaturate ad essi e quindi tradottisi in sensi di colpa.

Lo sguardo di Pommerat è uno sguardo che interroga il rapporto fra generazioni, e pur non annullando di Pinocchio l’acerbità dei suoi strumenti critici per poter comprendere il mondo ed interagirci, al contempo vi innesta  il controverso sentimento della responsabilità dal cui conflitto si sviluppano, a mo’ di scatole cinesi, le sue traversie.

Gli spettatori sono immersi in un impianto scenico intenso in cui – specie nell’ultima parte – gli effetti della fonia come quelli visivi conducono sulla soglia dell’onirico; il narratore che “entra” da una porta nella pancia del pesce-cane dal quale Pinocchio trova la via di fuga, saldando le sue responsabilità nei confronti di Geppetto, e dimostrando di saper affrontare la vita, suggella, infine, l’elevata qualità registica e drammaturgica di Pommerat in grado di equilibrare una significativa drammaturgia con linguaggi puramente scenici che in qualche modo decodificano simboli e significati. Forze comunicative che si integrano fra di loro, come nella precedente “La riunificazione delle due Coree”, e dalla cui integrazione scaturisce una teatralità che va guardata in tutta la sua complessità, nel relativo tentativo di destrutturare, almeno psicologicamente, il protagonista collodiano al cospetto della sua storia originale, e restituire a noi del pubblico ulteriori domande su cosa realmente significhi diventare uomini a tutto tondo, riconvertendo una certa antica lettura didascalica in un’altra di più ampio respiro.

PINOCCHIO

UNA CREAZIONE TEATRALE DI   JOËL POMMERAT
DA CARLO COLLODI CON MYRIAM ASSOULINE, SYLVAIN CAILLAT, HERVÉ BLANC, DANIEL DUBOIS, MAYA VIGNANDO
COLLABORAZIONE ARTISTICA PHILIPPE CARBONNEAUX
SCENOGRAFIA E LUCI ERIC SOYER
MARIONETTA FABIENNE KILLY
COSTUMI MARIE-HÉLÈNE BOUVET
COMPOSIZIONE MUSICALE ANTONIN LEYMARIE
PRODUZIONE COMPAGNIE LOUIS BROUILLARD IN COPRODUZIONE CON L’ESPACE MALRAUX-SCÈNE NATIONALE DE CHAMBÉRY ET DE LA SAVOIE, CENTRE DRAMATIQUE RÉGIONAL DE TOURS, THÉÂTRE DE VILLEFRANCHE / SCÈNE RHÔNE ALPES / SCÈNE CONVENTIONNÉE, LA FERME DE BEL EBAT / GUYANCOURT, THÉÂTRE BRÉTIGNY/ SCÈNE CONVENTIONNÉE DU VAL D’ORGE, LE GALLIA THÉÂTRE / SCÈNE CONVENTIONNÉE DE SAINTES, THÉÂTRE NATIONAL DE BORDEAUX AQUITAINE, LES SALINS/SCÈNE NATIONALE DE MARTIGUES, THÉÂTRE DU GYMNASE-MARSEILLE, CNCDC – CHÂTEAUVALLON, GRENOBLE / MAISON DE LA CULTURE MC2, LA SCÈNE NATIONALE DE CAVAILLON, AUTOMNE EN NORMANDIE, CDN DE NORMANDIE – COMÉDIE DE CAEN

Lingua francese con sovratitoli in italiano.

Al NTFI 2016 va in scena ST/LL di Shiro Takatani: elogio del visuale

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MILENA COZZOLINO | La cifra predominante degli spettacoli internazionali dell’edizione 2016 del Napoli Teatro Festival Italia sembra correre lungo due direttrici: la mescolanza del teatro col cinema, o meglio con la videoarte – ossia con quel senso originario del cinema dei primordi tanto vicino al teatro da esserne la naturale continuazione – e la volontà di collocarsi in una posizione creativa originaria, quella propria della scaturigine di qualsiasi racconto.

ST/LL di Shiro Takatani, andato in scena al teatro Politeama di Napoli, raccoglie in sé e fa proprie queste due esigenze artistiche, probabilmente dettate dai tampi, e ci conduce in prossimità di quel gesto, tipico del teatro orientale, che riattiva una mimesi che è imitazione attiva e passiva, ossia quelle facoltà proprie rispettivamente dell’attore e dello spettatore.

Il termine inglese significa silenzioso, immobile, ma cosa più importante, il titolo reca il senso di un’interruzione, ST/LL, con quella barra al posto della i, è soprattutto quella fermata brusca che interrompe ciò che è immobile. È la ferita da cui si genera l’esistenza del tempo, il fermo immagine un attimo prima del big bang dell’anima. E infatti non manca l’elemento primigeneo per eccellenza, l’acqua che è motivo filosofico e scientifico della vita. Gli attori si muovono in connessione reale con la placenta ancestrale, ci sguazzano come se senza di essa nulla fosse possibile. Non c’è storia qui, c’è l’idea di un caos post atomico che ci conduce in un Giappone mescolato d’occidentalità. Dove la quotidianità dell’esistenza è scandita da pranzi, cene, sonni, che si consumano su tavoli dell’Ikea, tra forchette e piatti a buon mercato, i quali si trasformano in bouvette di stazioni metropolitane di un luogo qualsiasi del mondo, dove tutto è scandito da una ripetitività comune, quella di un metronomo, grazie a cui ascoltiamo la musica delle esistenze che scorrono silenziose e identiche accanto alla nostra.

Ascoltiamo l’eco del vuoto della modernità nel silenzio assoluto, nella sottrazione degli oggetti ai corpi, che però continuano a muoversi sulla scena in modo identico, nell’immagine della pioggia che è un pianto d’occhi che viene giù dall’alto. Tutto è splendidamente visivo, con un rimbalzo continuo dalla scena teatrale allo schermo ipertecnologico e slittamenti di senso continui. L’orchestrazione delle immagini non è sempre comprensibile, ma inchioda lo sguardo, riattiva la facoltà di codificazione dello spettatore e l’immaginazione creativa fa il resto quando siamo lasciati soli in una selva oscura di segni.

I corpi dei quattro attori, Yuko Hirai, Mayu Tsuruta, Misaku Yabuuchi e Olivier Balzarini, si muovono con perfetta sincronia sulla scena, le immagini video si mescolano ad essi fino a farli fluttuare nell’aria; il gioco dei corpi dietro il velatino che si confondono con le proiezioni ci regalano immagini da teatro delle ombre orientale. Mentre le maschere della commedia dell’arte ci portano in prossimità di quel teatro di figura nostrano. Tutto si mescola come un caos di forme belle, dove regina assoluta della scena è però la visione. La parola reca in sé la radice di quel verbo greco che nello spettacolo si declina in tutti i modi possibili: vedere, visto, veduto, visibile, visuale, video. La visione è ciò che per eccellenza fluisce e si oppone perciò a ciò che è immobile.

L’idea è però che all’origine delle forme d’espressione visiva ci sia sempre il corpo con i suoi gesti ad attivare quella facoltà empatica e dunque mimetica che ci coinvolge alla vista dell’immagine. Lo stesso corpo dell’uomo che può fermare il tempo con un click.

 

Rischiare secondo la Magnolia: imprevisti erotici e intrighi internazionali

GIULIA MURONI | “E’ un doppio rapporto col nulla che convochiamo sotto il nome di desiderio: il nulla dentro di noi, il buco doloroso che si riapre sempre e ci fa invidiosi di ciò che non siamo; e il nulla del mondo da cui siamo capaci di trarre ciò che vogliamo: produzione di case e di quadri, di pranzi e di amori, di imperi e di piccole comodità domestiche”(Ugo Volli).

Forza e ferita, voragine e tensione disordinata, il desiderio mostra la sua natura di contenitore vuoto palpitante e insoddisfatto.

Nella prospettiva di abbozzare uno scorcio tra gli infiniti paesaggi dettati dalla brama dell’altro, la Piccola Compagnia della Magnolia si è fatta carico – per un esordio gremito di pubblico al Festival delle Colline Torinesi – della famosa vicenda della liaison tra Bernand Boursicot e Shi Pei Pu. Nell’episodio della relazione tra il diplomatico francese e il giovane cantante d’opera dalle fattezze femminili, “1983 Butterfly” trova l’occasione poetica per interrogare e dare espressione a due soggetti di desiderio. La faccenda è piuttosto nota: il diplomatico francese, spesso in Cina per ragioni lavorative, viene sedotto e circuito da una giovane cinese, rivelatasi poi una spia del governo oltre che un uomo.

La relazione si nutre della distanza e di piccoli accorgimenti di Pei Pu per non rivelare la propria sessualità biologica, al punto che l’arrivo di un figlio è accolto da Boursicot con il consueto groviglio di affetto e senso di colpa, caratteristico dei padri fedifraghi e distanti. Il momento di agnizione accade nel 1983, al cospetto una corte avida di scandali, maggiormente disposta a frugare tra i dettagli pruriginosi della relazione piuttosto che indagarne gli aspetti criminosi. Boursicot è infatti colpevole di aver rivelato molte informazioni segrete al partner, spia del governo cinese.

La Magnolia complica il menàge: mentre Giorgia Cerruti indossa i panni di Bernard Boursicot, Davide Giglio è un’ambigua e convincente Shi Pei Pu. Questa la vicenda al cuore dello spettacolo, mentre i due estremi sono congiunti da un immaginario arco extradiegetico e mostrano dapprima una coppia non riconoscibile, celata da maschere e lunghi mantelli operistici, immersa in un’atmosfera cupa in cui le voci si mescolano e confondono. Sulla chiusa si assiste allo sfumare dell’incantesimo davanti agli occhi del pubblico. Via maschere e forcine, liberate le chiome e sciolte le posture, emergono in scena Giorgia Cerruti e Davide Giglio nei loro volti e sguardi, a fronteggiarsi e poi darsele di santa ragione, rimescolando ancora ruoli e identità, per un finale violento, eccitante, spietato.

ph: S. Roggero

La scena ritaglia uno spazio sui toni del rosso e del nero. Un lungo tavolo rubino,  alcuni candelabri, sagome di luci calde e un pannello verticale sul fondale, sul quale sono proiettati volti di celebrità, frammenti dai carteggi di Boursicot-Pei Pu, stralci della vicenda giudiziaria, un pezzo del film di Cronenberg sulla medesima vicenda e altro ancora. Lo spazio viene attraversato e animato da camminate, cambi di prospettiva, traiettorie e danze.

D’eccezione la prova attorale, ambiziosa e riuscita: mentre Cerruti riesce a volgere la sua femminilità esplosiva nei dati di energia e presenza del maschio occidentale che si percepisce come dominante, Giglio d’altra parte è conturbante e perturbante insieme, dal tratto ambiguo. Ricorrono alcuni motivi della compagnia tra cui in primis l’affastellarsi di segni unito a una considerevole qualità recitativa mentre compaiono o prendono spazio alcune componenti in altri spettacoli più sacrificate. Una su tutti il rilievo sul movimento: un valzer epifanico, l’attraversamento costante della scena e la qualità peculiare del movimento di Giglio, in grado di scorrere tra il registro netto da samurai a quello frivolo da geisha, cifra efficace della duplicità del personaggio.

Uno spettacolo ricco, a tratti sovraccarico e ridondante nel suo dipanarsi esponenziale di segni ma in grado di restituire molteplicità di prospettive e colorature semantiche, rigore biografico e rotondità interpretativa,  assumendosi la responsabilità di suggerire qualcosa. È un’ode al rischio – dice Cerruti – un invito a darsi la possibilità di vivere ai bordi, cavalcando l’imprevedibile. Seconda tappa del progetto Bio-graphie, come nella prima parte relativa a Zelda Fitzgerald, si propone di illuminare gli anfratti eccezionali di esistenze ordinarie e ci riesce con coerenza stilistica e profondità espressiva.

 

Anteprima nazionale alle Fonderie Limone (TO), 17 Giugno 2016, Festival delle Colline Torinesi,di Giorgia Cerruti

regia Giorgia Cerruti

assistente alla regia Cleonice Fecit
con Davide Giglio e Giorgia Cerruti
scene e luci Lucio Diana
costumi Gaia Paciello – atelier Pcm
musiche Giorgia Cerruti – Cleonice Fecit
organizzazione Giulia Randone

produzione Piccola Compagnia della Magnolia, Festival delle Colline Torinesi

Tagad’Off 2016: il videoreportage

RENZO FRANCABANDERA | Mentre Nicolas Ceruti e Luca Marchiori di residenza Ilinx completano il loro lavoro ibrido di manovalanza fisica e intellettuale per far calare il sipario sull’edizione 2016 di Tagad’Off, festival di nuove drammaturgie lombarde, sul terrazzo della palazzina in stile razionalista del dopolavoro di Cassano d’Adda ci godiamo una vista stupenda sul fiume Adda gonfiato dalle piogge di questi giorni mentre in cielo si stampa un arcobaleno di un nitore impressionante.

Il tumulto della natura è sempre una meraviglia che supera l’umana creazione. Ma anche sostenere nuove realtà in ascesa è magnifico.

PAC era media partner, io personalmente in giuria. Una bellissima esperienza con alcuni lavori davvero apprezzabili.  Ecco allora i risultati:

Vince il festival e il relativo premio Polvere di Servo Muto Teatro, che si aggiudica una residenza produttiva di 20 giorni, 1000 euro di premio produzione e una data nella stagione del Piccolo Teatro della Martesana grazie al LAP di Cassina de Pecchi.

La Giuria, poi, in accordo con la direzione artistica di ILINXARIUM, data la grande qualità dei lavori presentati, ha deciso di premiare con 20 giorni di residenza produttiva anche Frigoproduzioni e Coperte Strette Teatro.

Ma abbiamo anche deciso di segnalare alcune cose di particolare pregio di questa edizione, dando una menzione per la migliore interpretazione a Tiziana Francesca Vaccaro, Daniele Turconi e Anna Sala, una per la miglior drammaturgia a Daniele Turconi per Mondo Cane, e una per il miglior allestimento a Servo Muto Teatro.

Abbiamo cercato di raccogliere le voci delle compagnie, miste a quella di guida di Nicolas Ceruti, maestro di cerimonie del Festival, nel videoreportage che vi presentiamo oggi.

 

Che ci fa una GoPro a teatro? Amir Reza Koohestani alle Colline Torinesi

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Foto di Amir Hossein Shojaei

GIULIA RANDONE | Iran,  notte di Capodanno. Un ragazzo riesce a intrufolarsi in una residenza universitaria femminile, ma la trasgressione viene scoperta e denunciata. In realtà non è chiaro se l’evento da cui prende le mosse Hearing – ultimo lavoro del regista iraniano Amir Reza Koohestani e della sua compagnia Mehr Theatre Group – sia realmente accaduto o sia stato solo immaginato perché nessuno ha visto il presunto visitatore e la notizia si fonda su una voce di corridoio che riferisce di avere udito una voce maschile provenire dalla stanza di una ragazza. Una voce si è accavallata su un’altra voce.

Sulla scena deserta un rettangolo di luce imprigiona a turno due studentesse, che vengono sottoposte a un interrogatorio da parte della responsabile del dormitorio, una ragazza appena più grande di loro alla quale sono state affidate le chiavi della struttura. L’inquisitrice, seduta tra il pubblico, incalza verbalmente le ragazze alternando toni minacciosi e suadenti. Sameneh è imputata di avere scritto una lettera di denuncia nei confronti di Neda, la compagna che avrebbe fatto entrare il proprio ragazzo nel dormitorio con un sotterfugio per trascorrere insieme la festa di Capodanno. Insicura e impaurita, Sameneh nega di essere l’autrice della lettera ma confessa di avere effettivamente udito una voce maschile filtrare dalla porta della stanza di Neda e di avere riferito i suoi sospetti a un’altra studentessa. Neda viene convocata ma appare tranquilla e sicura di sé: respinge le calunnie e accusa Sameneh di essere ossessionata dallo sguardo dei ragazzi e dall’osservanza dei divieti e di essersi pertanto inventata tutto. Il confronto tra le tre donne si riavvolge su se stesso in un estenuante palleggio di discolpe e insinuazioni fino a quando le coordinate temporali si dilatano e la narrazione slitta in avanti di una decina d’anni.

Entra in scena un’attrice più adulta – che scopriamo essere Sameneh – e si rivolge a Neda, ora interpretata dall’attrice che prima interrogava le ragazze, per chiederle perdono. Sul sottofondo monotono di accuse e difese si innestano le prime variazioni, grazie alle quali apprendiamo che la denuncia di Sameneh – o meglio, la mancata difesa della compagna (che avrebbe potuto tentare ammettendo di essersi inventata tutto) – aveva avuto come effetto l’espulsione di Neda dal dormitorio. In seguito all’incidente, Neda era però riuscita a realizzare il suo sogno di emigrare e si era trasferita in Svezia, dove aveva proseguito gli studi e trovato un lavoretto come fattorina. Le due donne mature conversano sul filo del tempo, tra rimorsi e scelte che hanno marcato un punto di non ritorno: Sameneh è rimasta in Iran, dove ha messo su famiglia, mentre Neda, che pure aspettava un bambino, si è tolta la vita in Svezia dopo che la sua richiesta di asilo era stata rifiutata. La loro storia comune resterà per sempre amputata: ininfluente ormai per chiunque la risoluzione del mistero iniziale, impossibile oggi, per Sameneh, qualsiasi espiazione.

A dispetto del titolo, l’ossatura drammaturgica di Hearing – purtroppo meno complessa e perturbante di quella del precedente Timeloss – si regge sull’esplorazione del senso della vista. Nel nuovo lavoro di Koohestani lo sguardo è tematizzato in rapporto alle sue evidenti implicazioni politiche e al suo ruolo di strumento primo della composizione artistica. L’aspetto politico è evidente fin dalla comparsa delle attrici, abbigliate secondo l’uso imposto dal regime: abiti lunghi che coprono braccia e gambe e obbligo di indossare il velo islamico, quel hijab che porta inscritto nel suo stesso nome il compito di celare qualcosa allo sguardo di qualcuno. Per le ragazze iraniane di oggi il velo è un’imposizione relativamente recente e di cui poche condividono la necessità: le loro madri e nonne non lo portavano perché è stato reintrodotto solo nel 1980 in seguito alla Rivoluzione Islamica e le più giovani sono felici di disfarsene appena varcano i confini del paese, magari per ragioni di studio come nel caso di Neda. Ma per chi rimane in Iran la pena è severa: una donna sorpresa senza velo rischia da dieci giorni a due mesi di prigione e, se proprio le va bene, se la cava con una multa salata. Costretta alla discrezione e alla parziale invisibilità in patria, Neda scoprirà che, paradossalmente, per l’Europa il suo corpo è troppo poco visibile. Nel raccontare il proprio suicidio la donna accenna al motivo per cui la richiesta di asilo è stata respinta: le autorità svedesi pretendevano prove tangibili o filmate della sua opposizione al regime iraniano, ma il suo corpo non recava segni di ecchimosi né lei era in possesso di alcun video che testimoniasse il proprio dissenso. Seppure da una prospettiva geografica e sociopolitica radicalmente diversa, il corpo di Neda tornava sotto processo.

Se chi governa approfitta dello sguardo per esercitare il proprio potere coercitivo, in Hearing l’artista Koohestani mette invece in questione ogni pretesa di verità e chiarezza legata allo sguardo umano o a quello “aumentato” dalla tecnologia. Durante lo spettacolo le quattro interpreti entrano in possesso a turno di una GoPro, la popolare videocamera indossabile che da qualche anno viene utilizzata per filmare le proprie prodezze sportive o vacanziere e diffonderle attraverso i social. Ogni volta che una delle attrici indossa la GoPro non fa che proiettare in tempo reale sullo schermo che sostituisce il fondale il proprio sguardo. Ad esempio, quando le due giovani Sameneh e Neda escono di scena seguiamo il loro sguardo perdersi tra il corridoio del dormitorio in Iran e il foyer del Teatro Astra in cui si sta svolgendo lo spettacolo; quando una delle accusate rivolge lo sguardo in direzione della responsabile del dormitorio l’occhio della videocamera restituisce un’immagine confusa della platea in penombra, popolata di figure indistinguibili. Anche nel dialogo finale, in cui una Neda matura inquadra dalla platea la compagna di un tempo e ne proietta – questa volta con un effetto di moltiplicazione – la silhouette, abbiamo a che fare con uno sguardo che si perde e si confonde, sottraendosi all’illusione della giustezza e alla pretesa di giudizio.

Con Hearing Amir Reza Koohestani dimostra che l’artista può opporsi all’inquisizione dello sguardo, confondendo la vista e sovvertendo la pratica della rappresentazione. Ciò che la videocamera immortala non è particolarmente significante né utile a costruire alcun giudizio e l’immagine su cui si chiude lo spettacolo – un quadro di Shohreh Mehran che ritrae la conversazione tra due studentesse che (deliberatamente o meno) nascondono il volto all’osservatore – sembra annunciare una possibile libertà, lontano dalla voracità dello sguardo.

Scritto tra il 2014 e il 2015 in occasione di una residenza presso l’Akademie Schloss Solitude di Stuttgart, dopo una lunga tournée europea Hearing è approdato per la prima volta in Italia il 18 giugno di quest’anno all’interno del cartellone del Festival delle Colline Torinesi/Torino Creazione Contemporanea. Le prossime repliche dello spettacolo – le uniche in Italia – sono previste per il 15 e 16 luglio a Santarcangelo.

HEARING

di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani

assistente alla regia Mohammad Reza Hosseinzadeh
con Mona Ahmadi, Ainaz Azarhoush, Elham Korda, Mahin Sadri
video e direzione tecnica Ali Shirkhodaei
musiche Ankido Darash e Kasraa Paashaaie
suono Ankido Darash
luci Saba Kasmei
scena Amir Reza Koohestani assistito da Golnaz Bashiri
costumi e oggetti di scena Negar Nemati
secondo assistente Mohammad Khaksari
direzione di scena Mohammad Reza Najafi
assistente ai costumi Negar Bagheri
produzione Mehr Theatre Group
coproduzione La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, BOZAR – Centre for Fine Arts Brussels

presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal Vivo
nell’ambito di Scene d’Europa

Il giardino ritrovato. Apre la rassegna di arte, musica e spettacoli a Palazzo Venezia

PAV

 

MARIELLA DEMICHELE | Ha aperto, con il concerto/installazione Songlines di Luigi Cinque, la rassegna “Il giardino ritrovato. Arte, musica e spettacoli a Piazza Venezia”, concepita come fondamentale momento di riqualificazione di questo Palazzo e del suo giardino, al fine di restituire al pubblico non solo “un edificio, un grande istituto museale” – così Edith Gabrielli, Direttore del Polo Museale Laziale – ma anche per “offrire ai romani e ai turisti un programma culturale all’altezza delle sue tradizioni e del futuro della città”. Tra i momenti più significativi del programma il ciclo di conferenze intitolato Conversazioni d’arte, a cura del Prof. Marco Ruffini dell’Università La Sapienza di Roma; attraverso il qualificato intervento di studiosi di fama internazionale, a partire dal 6 luglio il pubblico potrà rivivere momenti cruciali della storia artistica romana, dal tardo Medioevo al Barocco in un avvincente percorso di formazione che, alla fine di ogni appuntamento prevede anche visite guidate del Palazzo condotte da Sonia Martone, Direttore del Museo Nazionale di Palazzo Venezia, attraverso “luoghi o intere zone in precedenza poco noti, se non addirittura inediti”.

Ampio e articolato il programma della rassegna; tuttavia, durante la conferenza stampa, tenutasi lo scorso mercoledì, 15 giugno, nel suggestivo giardino di palazzo Venezia – da aprile finalmente sottratto al triste destino di parcheggio ministeriale – le autorità intervenute si sono soffermate più sul contenitore che sul contenuto. I già menzionati Direttori Gabrielli e Martone, insieme al Ministro dei beni e delle attività culturali, Dario Franceschini, hanno infatti posto l’accento soprattutto sugli obiettivi del Polo Museale del Lazio, organismo creato nel 2015 per la gestione di quarantatré musei, aree archeologiche e istituti di Roma e del Lazio. Una riforma finalizzata ad un miglioramento gestionale, sia economico che delle risorse umane, ma anche alla realizzazione di una politica museale di respiro regionale. Il piano di rilancio di Palazzo Venezia e dei singoli istituti che ospita – oltre al Museo Nazionale, da ricordare la preziosa Biblioteca di Archeologia e di Storia dell’Arte -, la cura del suo giardino che, anche grazie alla riapertura dell’ingresso quattrocentesco di Piazza San Marco e di quello settecentesco di via degli Astalli, dischiude ai cittadini e ai turisti un angolo di meraviglia e di pace, in un’area della città congestionata dal traffico e dal rumore, sono punti fondamentali di questo progetto al quale la Legge 190 del 23 dicembre 2014 ha già consentito di destinare un finanziamento di cinque milioni e quattrocentomila euro per il triennio 2016-2018.

Un processo di valorizzazione che assume particolare significato se si pensa che, a fronte dei circa sei milioni di visitatori del Colosseo, a poche centinaia di metri di distanza, Palazzo Venezia, nonostante la sua bellezza e l’importanza delle collezioni che conserva, ne ha solo cinquantamila. Edificato nel 1455 per volontà del cardinale di Venezia Pietro Barbo, divenuto successivamente papa con il nome di Paolo II, il Palazzo ha attraversato numerose fasi della storia italiana, ma nell’immaginario comune rimane inscindibilmente legato all’uso che Mussolini ne ha fatto, trasformandolo in quartiere generale del regime a partire dal 1929. Questa una delle cause principali dell’oblio in cui è caduto negli ultimi decenni e al quale si può e si deve porre rimedio superando la damnatio memoriae attraverso un intervento museologico capace di integrare criticamente tutte queste fasi “all’interno di un quadro narrativo in grado di tenere uniti il piano della tutela – ha ribadito la Gabrielli – e quello della divulgazione”. Allo stesso tempo, non può esserci tutela del passato senza attenzione al presente e, nello specifico, alla produzione culturale contemporanea.

Il Giardino allora, a partire da oggi, si apre: la “bella addormentata” – come si legge nel comunicato stampa – esce dal suo sonno per diventare “luogo di apertura, d’incontro e d’interazione per le arti. Tutte le arti”. Uno scrigno segreto che accoglierà circa trecento spettatori attorno ad artisti attentamente selezionati per la qualità del loro lavoro e della loro ricerca.

Tra gli appuntamenti da ricordare in questo ultimo scorcio di giugno, i ritmi swing e jazz del Fabrizio Bosso Quartet il 25, e l’atteso ritorno della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, il 28, che presenterà al pubblico romano la poesia di Santo Genet “in una versione site specific […] dove un teatro totale darà forma visibile alla bellezza, alla libertà interiore, ovvero a quella Santità che l’artista indaga da anni, in filigrana, nella sua riflessione artistica”.

Di particolare importanza ci sembra la volontà di collaborare con realtà consolidate del panorama artistico romano come il festival Short Theatre, diretto da Fabrizio Arcuri che, arrivato alla sua undicesima edizione, si terrà dal 7 al 18 settembre. Quest’anno la serata inaugurale si terrà a Palazzo Venezia con il concerto-spettacolo LUŞ di Ermanna Montanari, Luigi Ceccarelli, Daniele Roccato, con la regia di Marco Martinelli – tra le pagine più belle della storia del teatro italiano degli ultimi decenni.

Programma completo e informazioni su orari e biglietti al sito  www.giardinoritrovato.it

 

 

Kiss & Cry: il visionario racconto delle Mani del cineasta belga al NTFI 2016

MILENA COZZOLINO | Ci sono spettacoli che costringono a starefoto kiss & cry scomodi in poltrona. Così spesso quelli da festival: in Italia alla fine degli anni ’70, i gruppi delle avanguardie davano la possibilità di assistere, specie all’interno dei festival, a operazioni artistiche che costrinsero a rivedere le definizioni dei generi e le arti a sconfinare. Ma il teatro – si sa – è una selva inesplorata di segni e le declinazioni possibili sono infinite, così come i percorsi aperti dal teatro di ricerca verso il futuro.

L’apertura (più o meno ufficiale) del Napoli Teatro Festival Italia 2016 (direzione Franco Dragone), il 15 giugno al teatro Politeama di Napoli, con lo spettacolo Kiss & Cry del belga Jaco Van Dormael, si realizza proprio nel segno dello sconfinamento. Da subito è lo spettatore che sconfina dalla sua poltrona comoda: sul palco è allestito un set cinematografico e la troup si muove in attesa delle riprese. Non è spettacolo, è realtà. Ed è un’immagine che dà un colpo di spugna immediato all’illusione scenica. Oltre Brecht e oltre le ricerca del corpo che si fa immagine, ombra, rappresentazione, superficie e oltre quei segni – la parola in primis – che il teatro di ricerca nostrano negli anni ’80 aveva distrutto e ricordificato. Oltre la Socìetas Raffaelo Sanzio, Barberio Corsetti, Studio Azzurro, qua si recupera un incanto tutto umano, una creatività bambina. Non si decostruisce, ma si ricostruisce. In principio era il verbo e la parola inizia di nuovo a raccontare. Si impara da capo, si riannodano i fili perduti, si tesse l’immagine alla parola e soprattutto la si potenzia coi nuovi media. Si recupera la dimensione epica dal mondo dei racconti di infanzia. Non quelli fatti dagli adulti, ma quelli dei bambini. A partire da quell’infanzia, a cui per definizione manca la parola, si mostra cos’è l’arte di rappresentare.

Il presupposto dello spettacolo è una domanda semplice: dove finiscono le persone quando scompaiono dalla nostra vita? Sul filo di un sentimento universale come l’amore, una voce registrata e lontana, quasi straniera e meccanica, forse ancestrale, ci narra le vicende di una donna a cui è l’amore è sfuggito (forse per sempre). Le è scappato tra le mani a 12 anni, quando le sue mani, in treno, sfiorarono quelle di un ragazzo poco più grande di lei e in 15 secondi avvertì tutta la fuggevolezza del sentimento che tiene insieme gli uomini. Si trovò da sola. Entriamo nella sua testa, in un mondo di fantasmatiche visioni che incastra i giochini dei bambini chiusi nei cassetti del passato a visioni oniriche: le riprese video ci conducono negli anfratti più nascosti, negli angoli dimenticati. Ingigantiscono ricordi, ci riavvicinano a loro. Li mettono a distanza. La voce commenta ironicamente. Tutto viene proiettato su un maxi schermo, dove quelle mani, immagine primigenia connessa all’amore, diventano protagoniste assolute di una coreografia speciale orchestrata da Michèle Anne De Mey e realizzata dalla stessa coreografa insieme al ballerino Gregory Grosjean. Le Mani dei due danno vita ad uno spettacolo di nanodanse e si trasformano in ballerini, corpi sinuosi che si muovono in perfetta armonia con la musica. Le luci fanno il resto e creano l’incanto. L’illusione, che sembrava ricacciata indietro, è fatta salva. Non solo grazie ai potenti mezzi del cinema, il livello di rappresentazione qui è doppio: si vede il video, la superficie, l’esterno di un risultato, che mette a fuoco il mondo interiore, e poi la fatica dell’interno, ciò che sta dietro la produzione dei sogni, le azioni sceniche che li determinano e che sono spettacolo a se stante.

Anche i livelli di comprensione come quelli di visione si moltiplicano. Il lavoro del cineasta belga sembra raccontare l’epopea della rappresentazione: il cinema nacque dal teatro, poi vennero a scontro, si difesero l’uno dall’altro cercando il proprio specifico, ma oggi nell’era del digitale spinto non possono che ritrovarsi dalla stessa parte sul palco, per capire fin dove è giunta l’arte e ricominciare a ricostruire, sulle macerie dei vecchi codici, un nuovo immaginario poetico.

Festival delle Colline Torinesi e la domanda da centomila dollari

ph : Nada Zgank

GIULIA MURONI | L’identità è un genere?

Questo è l’enigmatico interrogativo che accompagna la XXI edizione del Festival delle Colline torinesi.  Ma nel senso che l’identità risiede in un genere? O forse che esiste una corrispondenza univoca tra genere e identità? Che lo stesso assunto – opaco – di identità trovi un rispecchiamento nel mutevole e precario concetto di genere?

Per dare linfa alla questione ha senso scomodare Judith Butler, la quale postula una nozione di genere come luogo di crisi e precarietà permanente. La presa di coscienza della precarietà della vita coincide con l’assunzione che il potere di condurre un’esistenza sia determinato da fattori esterni al soggetto, ma soprattutto la precarietà denota la condizione umana nella misura in cui affonda le proprie radici nello statuto di soggetto debole, che si costituisce soltanto in relazione agli altri. Tale necessità di interdipendenza e relazione di fatto esclude la possibilità di una costruzione identitaria statica che a sua volta trovi un precipuo tradursi in un genere, così come in un sesso.

Se sui perni di precarietà, crisi e trasformabilità si trovano facilmente appigli per descrivere il travaglio del nostro tempo, d’altra parte un interrogativo di questa portata, in questi termini, corre il rischio di apparire ostico. Nelle brevi videointerviste (https://www.facebook.com/festivalcollinetorinesi/videos) in cui vien posto ex abrupto agli artisti accadono infatti reazioni interessanti, significative in più sensi: il sottrarsi di Silvia Calderoni a una modalità che non le pertiene, riconferma con il suo tratto impertinente la volontà di non compromettere un linguaggio. Sì che “MDLSX” acchiappa, tritura e sputa fuori questo coagulo di nozioni e tensioni, rivoltandolo e focalizzandolo attraverso una lente strabica che interseca la vicenda di Calderoni e quella dell’omonimo romanzo di Eugenides. Ma lo fa attraverso  un codice astratto, sofisticato nelle sue diramazioni mediali e segniche, in un rappresentare scenico sapiente, efficace, doloroso, mai intellettualistico e massimamente espressivo.

ph : Nada Zgank
ph : Nada Zgank

Il duo Deflorian / Tagliarini risponde alla questione evocando con ironia lo scollamento tra genere e identità di genere che nel loro duo si realizzerebbe in una inversione chiastica dei ruoli imposti dell’eteronormatività. Per questo fanno vibrare, dicono loro stessi, i meccanismi del duo Mondaini – Vianello, sparigliando le simmetrie. Dicono di accettare la confusione e in effetti nei loro spettacoli questa è una cifra che, facendosi qualità estetica, compone l’incedere compassato, dialettico e laterale rispetto alle vicende mostrate. “Reality”, in scena in questa edizione delle Colline, mostra la vicenda di Janina Turek, una donna polacca che, sul filo della psicosi, ha passato la vita a annotare eventi rilevanti e insignificanti, tenuti insieme da una pletora di liste all’apparenza asettiche. Questa ossessione maniacale diventa materia elastica che Deflorian e Tagliarini fanno scorrere su una scena nuda, immersi in una pratica teatrale estroflessa e esposta, che fa dell’attraversamento del vuoto e della non rappresentabilità il carattere peculiare.

Alla luce degli spettacoli visti risaliamo a monte degli interrogativi condivisi. Appare calzante proporre la connotazione performativa della nozione butleriana del concetto di genere: cioè quella composizione a partire da una serie di atti espressi, interpretati e incorporati dagli attori sociali, che formano una rappresentazione sociale e culturale dell’identità, ben lontana da qualsivoglia forma di innatismo naturale. La presa di coscienza di questo dato di performatività sociale permette di assumersi il rischio della precarietà del genere, sovvertendo il dato di crisi in valore di resistenza e appropriandosi della capacità dei corpi di prestarsi a infiniti tracciati, fuori dai percorsi già definiti dell’identità e del genere.

ph: Filipe Viegas
ph: Filipe Viegas

Motus propone un percorso esperienziale in cui viene esplicitamente mostrata la destrutturazione della performatività del genere femminile, aprendosi al gioioso divenire continuo, libero dalla maglia dell’identità normata. “Reality” non mette il fuoco su questo tema, ne scoperchia invece degli altri: la memoria collettiva, la paranoia della ripetizione, l’incubo del quotidiano, il rapporto tra collante narrativo e il suo deflagrarsi scenico. Tuttavia la dialettica da strana coppia che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini azionano, percorre come una sottotraccia i loro lavori comuni (“Rewind”, “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”) e rappresenta una ridefinizione spigliata e libera, efficace e carica di grazia, di una sconquassata dinamica di genere, immersa in un teatro squadernato alla vista del pubblico.

MDLSX

di Daniela Nicolò e Silvia Calderoni
regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

drammaturgia Daniela Nicolò e Silvia Calderoni
suoni Enrico Casagrande
in collaborazione con Paolo Panella e Damiano Bagli
luci e video Alessio Spirli

produzione Motus
in collaborazione con La Villette Parigi, Create to Connect (progetto europeo) Bunker/Mladi Levi Festival Lubiana, Santarcangelo Festival, L’Arboreto Mondaino, Marche Teatro
con il sostegno di Mibact, Regione Emilia Romagna

presentato in collaborazione con Fondazione Live Piemonte dal vivo

REALITY

di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
regia Daria Deflorian e Antonio Tagliarini

a partire dal reportage di Mariusz Szczygieł Reality, traduzione Marzena Borejczuk, Nottetempo 2011
ideazione e performance Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
disegno luci Gianni Staropoli
consulenza per la lingua polacca Stefano Deflorian, Marzena Borejczuk e Agnieszka Kurzeya
collaborazione al progetto Marzena Borejczuk
organizzazione Anna Damiani
produzione e accompagnamento internazionale Francesca Corona

produzione A.D., Festival Inequilibrio/Armunia, ZTL-Pro con il contributo della Provincia di Roma, Assessorato alle Politiche Culturali
in collaborazione con Fondazione Romaeuropa e Teatro di Roma
residenze artistiche Festival Inequilibrio/Armunia, Ruota Libera/Centrale Preneste Teatro, Dom Kultury Podgórze
con il patrocinio dell’Istituto Polacco di Roma
con il sostegno di Nottetempo, Kataklisma/Nuovo Critico, Istituto Italiano di Cultura a Cracovia, Dom Kultury Podgórze
ringraziamenti Janusz Jarecki, Iwona Wernikowska, Melania Tutak, Magdalena Ujmae Jaro Gawlik
un ringraziamento speciale a Ewa Janeczek

Absolute beginners: la rifondazione dell’ideale secondo TeatrInGestAzione


RENZO FRANCABANDERA | Con vero piacere abbiamo incontrato all’inizio del mese di maggio negli spazi di Zona K a Milano la poetica di TeatrInGestAzione.Si tratta di uno spettacolo con alcuni interessanti elementi di carattere performativo, suddiviso in una serie di quadri che emergono dal buio attraverso il ricorso a luci che non sono però all’interno della macchina scenica, ovvero visibili allo spettatore al suo ingresso in sala, come i normali fari di scena. Questo fa sì che la creazione sia una sorta di universo capace di autogenerazione, in cui i performer in maniera autarchica sviluppano un linguaggio fondativo di una poetica che cerca di bastare a se stessa pur senza definire postulati e assiomi.

Un po’ come i piccoli mattoni di legno che vengono utilizzati ad un certo punto dello spettacolo, il linguaggio di questa creazione sembra fondarsi sui singoli elementi di evidente accessibilità che vengono di volta in volta composti e scomposti per creare una continua alternanza fra caos e ordine, materiale ed immateriale, luce e buio.

Partendo da un interprete che con il ricorso ad una luce dal basso stampa sul suo volto il senso della maschera e del teatro, ma anche del grottesco, si passa poi ad un caos quasi da espressionismo informale ricavato con luci led rosse nel buio dell’ambiente. Primi piani e lontananze. Apparizioni ed evanescenze, tracce sonore che descrivono ambienti, abitazioni, sentimenti dello stare, dell’essere, dalle sue forme primordiali, come il dolmen fino al caos della città contemporanea, magari quella Napoli piombata nel caos rifiuti alcuni anni fa e costruita una casa sull’altra dove è nato il germe di questa ideazione collettiva. “Absolute Beginners è il primo movimento del progetto avVento – Geografie e Identità a venire – opera sistemica e polisemica, tentativo di scrittura di un mito di fondazione postmoderno, nato da un senso di spaesamento, estraneità rispetto al presente storico-sociale-geografico-identitario che viviamo.” La creazione collettiva è frutto di un gruppo di lavoro, TeatrInGestAzione, di base a Napoli, un organismo creativo in cui l’intersoggettività è la base dell’evoluzione poetica, le cui tensioni si risolvono in atti creativi dal forte impatto visivo ma anche su una attenta gestione dello spazio e della presenza dell’attore, la cui cifra performativa appare manifestarsi in modo evidente.

Questo preferenza si risolve anche in una prassi come quella dell’azione nella città, con il gruppo che è da alcuni anni, insieme ad altre identità di valore del territorio partenopeo, del Festival dedicato alle arti performative AltoFest, che si tiene fra fine giugno e inizio luglio a Napoli, per le strade, con un meccanismo di mutualità e ospitalità popolare, fatto da gente comune che apre la propria casa per ospitare artisti, ospiti, giornalisti, e dare così al festival la possibilità di esistere, al di fuori di logiche di attribuzione di fondi che ha dell’irragionevole se si pensa a baracconi indegni che a pochi isolati e con più clamore e sperpero, macinano e consumano denaro in modo autoreferenziale e senza ritorno sulla città.

Torniamo, in chiusura, su Absolute Beginners e sui motivi per cui la creazione ci è parsa degna di nota: il motivo risiede essenzialmente nel fatto che queste idee creative si inseriscono in un filone che dopo i primi importanti approdi di Pathosformel, Santasangre o Muta Imago da anni non trovava riflessioni compiute sufficientemente complete dal punto di vista estetico e concettuale. Anche se ancora in maturazione, in un liquido amniotico molto cerebrale che dovrebbe ambire ad una ulteriore limpidezza per distillare con ancora maggior nettezza il senso profondo dell’affermare, o

ltre che del disputare e dell’interrogarsi. L’artista infatti (e lo spettacolo si conclude su questa cifra) afferma, costruisce, è capace di illuminare quello che emerge dalle acque dopo il diluvio. Anche oltre la meditazione filosofica. Fermando e affermando.

ABSOLUTE BEGINNERS

una creazione collettiva di TeatrInGestAzione;

itinerari scenici Gesualdi / Trono;

itinerari drammaturgici 
 Loretta Mesiti;

con Giovanni Trono, Alessia Mete, Marzia Macedonio, Laura Russo;

con il sostegno di PROGETTO DE.MO./MOVIN’UP 2011 a cura di Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Direzione Generale per il Paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee e GAI – Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani; Insitut für Theater, Film und Medienwissenschaf der Goethe Universität (Frankfurt am Main); Hessische Theaterakademie (Accademia teatrale dell’Assia); Tanz der Künste; Frankfurt LAB (Frankfurt am Main)