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Correndo fuori dalla campana di vetro. Nicoleta Lefter e Cuocolo-Bosetti al Festival delle Colline Torinesi

GIULIA RANDONE | Giro di boa per il Festival delle Colline Torinesi / Torino Creazione Contemporanea, che in questi primi dieci giorni ha offerto una panoramica di debutti nazionali e recenti successi, collegati alle due tracce tematiche che caratterizzano questa XXI edizione. Da un lato il festival prosegue l’indagine sul mondo femminile, inaugurata l’anno scorso e promossa dal MiBACT; dall’altro si propone di pungolare artisti e spettatori con un interrogativo quanto mai attuale: “L’identità è un genere?”. Attorno all’identità di genere, alle sue articolazioni e ricadute sociali, hanno ruotato due tra gli appuntamenti più attesi – l’inedito Geppetto e Geppetto di Tindaro Granata e l’ormai cult MDLSX dei Motus – mentre la donna è stata protagonista di due intense biografie sceniche: Aleargă della performer romena Nicoleta Lefter e Roberta cade in trappola. The space between del duo Cuocolo/Bosetti (Iraa Theatre).

Aleargă in romeno significa “Corri!” e la corsa è l’attività a cui si prepara la giovane attrice mentre il buio scende sulla sala. Dopo un meticoloso riscaldamento, Nicoleta Lefter inizia a correre sul posto, solcando la platea con la luce della sua lampada frontale in una maratona interminabile, estenuante per chi la osserva, gratificante per chi la compie. Quando finalmente si ferma e si toglie la tuta indossando una felpa di peluche con orecchie da orsetto, sembra infatti rinvigorita e pronta a sopportare il ritmo lento e malinconico della vita. Almeno fino alla prossima corsa. Di questa minuta trentenne, che dichiara di correre «per non restare impantanata», «per vivere più a lungo e più veloce», non sappiamo nulla. Alcuni filmati la ritraggono a casa, circondata di gatti, la vediamo allenare il corpo, suo «animale domestico», e saggiarne la resistenza, ma anche agghindarsi per una festa e rievocare le persone che hanno incrociato la sua strada: un uomo, una sconosciuta suicida.

aleargaok Nell’esistenza di questa giovane donna non è accaduto nulla di terribile, ma ogni azione – ad eccezione di quella disciplinata della corsa – si è rivelata inconsistente, incapace di imprimere una direzione. E il presente è un collage di diapositive solitarie. Forse è per questo che l’attrice fugge dalla scena per avvicinarsi a noi spettatori e domandarci con voce delicata e incerta nell’uso dell’italiano: “Sei felice?”, “Cosa farai da grande?”, “Ti piace la mortadella?”. Vale a dire: tu, che spazio occupi nel mondo? A che punto sei arrivato e con chi? Chi di noi, sembra chiedersi Nicoleta Lefter, potrebbe fare parte dei Maratoneti di Paul Auster? Di quel gruppo di corridori che si sottopongono a un paradossale allenamento, esercitando il corpo e sottraendogli via via nutrimento, per arrivare alla corsa finale, quella in cui i corpi – tonici ma esausti – lasceranno l’anima libera di evadere?

Dopo aver descritto il trapasso collettivo dei runners, la protagonista di Nel paese delle ultime cose – il libro di Auster che l’attrice romena legge all’inizio e alla fine dello spettacolo – si domanda se la morte non sia l’unica cosa che davvero ci interessa, se non sia «la nostra forma d’arte, l’unico modo per esprimere noi stessi». Un interrogativo che sembra risuonare anche nell’ultimo lavoro di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti, Roberta cade in trappola. The space between. Come i precedenti capitoli dell’Interior Sites Project, anche quest’ultima creazione della compagnia nasce dall’autobiografia e gioca a sovrapporre i piani della realtà e della finzione, il ruolo dell’attore e del personaggio, la vita e il teatro. In questo caso l’evento autobiografico che innesca lo spettacolo è la morte della madre di Roberta che, avvenuta circa un anno fa, ha scatenato nella figlia un “normale” sentimento di disperazione e di futilità per gli affanni del mondo. Una condizione che si è però cronicizzata, facendo scattare la diagnosi di depressione (la “Cosa Brutta” di cui parla David Foster Wallace) e consegnando la paziente alle cure del Dottor Spera, distributore di psicofarmaci e di consigli.

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ph Antonella Carrara

Come in MM&M, Roberta Bosetti è seduta dietro a un tavolo su cui sono disposti una pila di taccuini, un vecchio registratore modello Geloso e, su un leggio, un catalogo d’arte che Renato Cuocolo riprende con una videocamera. Sulle pagine che riproducono le sculture iperrealistiche di Duane Hanson si accumulano appunti, fotografie, cartoline della vita di Roberta, e insieme compongono la traccia di qualcuno che non c’è più. «Perché racconta sempre di gente che parte, se ne va o si sottrae?», chiede il medico alla donna. Perché dalla morte bisogna passare, sembrano dirci Cuocolo-Bosetti, per non restare intrappolati tra un passato mitico e in-formato («Il passato ha una forma che sfugge al caos del presente» è uno dei leitmotiv della protagonista) e sporadiche giornate felici, in cui sembra che «le cose abbiano un senso da rivelarti». Se, dimentichi della morte, ci abbandoniamo a queste due dimensioni, rischiamo di trovarci dentro alla campana di vetro di Sylvia Plath; se ripassiamo la morte – come fa Bosetti esibendo per noi l’immagine di lei bambina, sola di fronte a una torta di compleanno a pochi giorni dalla morte del padre, o facendoci ascoltare la voce della madre immortalata dal registratore quarant’anni prima – ci offriamo la possibilità di stare con gli altri, di stare nella vita.

Due protagoniste in apparenza distanti: da una parte una ragazza sui trent’anni che si racconta per frammenti e movimenti muscolari, dall’altra una donna matura che non esce mai dal recinto della scrivania e squaderna davanti a noi la propria storia; ad avvicinarle due lavori che, ospitati nello stesso spazio a distanza di qualche giorno, evocano la solitudine e la morte, corteggiando la prima ed esibendo la seconda nella caducità stessa del fare teatrale.

 

ALEARGA

dal romanzo di Ana Maria Sandu
regia Nicoleta Lefter
ideazione Silvia Călin
video Black Horse Mansion
interpretazione Nicoleta Lefte

 

ROBERTA CADE IN TRAPPOLA – the space between

di Roberta Bosetti e Renato Cuocolo

regia Renato Cuocolo

tredicesima parte di Interior Sites Project

coproduzione IRAA Theatre e Il Funaro Pistoia
in collaborazione con Teatro di Dioniso

 

Festival Primavera dei Teatri 2016 di Castrovillari. Seconda parte

ESTER FORMATO |  Nelle ultime due serate del Festival di Castrovillari abbiamo visto all’opera, presso il teatro Sybaris nello splendido Protoconvento francescano che introduce all’antico borgo della cittadina, Geppetto e Geppetto di Tindaro Granata e Ci scusiamo per il disagio de Gli Omini.
Nel primo si racconta una storia di omogenitorialità che si estende nell’arco di più di vent’anni. Un tavolo di legno rettangolare si situa al centro del palcoscenico con tre cartelli, “a volte è agenzia”, “a volte è una cucina”, “a volte è una scuola” e ai lati, seduti su due file, i personaggi con i propri nomi sulla t-shirt che aspettano d’intervenire nella narrazione. Luca e Tony sono invece attorno al tavolo.Geppetto-Geppetto

Anche qui l’azione scenica è quasi, ancora una volta, unidimensionale, affidata esclusivamente ai dialoghi che in maniera frontale rispetto al pubblico prendono vita, fatta eccezione per l’ultima parte. Se i cartelli affissi, i nomi sulle magliette, i personaggi che seduti sono in attesa di un loro turno, i ricordi e pensieri veicolati con voce-off danno l’impressione che si stia mettendo in luce una certa natura didascalica della narrazione scenica, è d’altro canto vero che la permanenza in assito dei vari personaggi acquista fondamentale significatività per definire una rete sociale precisa entro la quale poter situare questo nucleo familiare, posta in evidenza con tutti i relativi rapporti dei quali è costituita. Non c’è alcuna coralità di fondo, ma l’impressione è che il focus dello spettacolo si concentri sulle risonanze dei rapporti madre-figlio, padre-figlio che raccogliamo durante la vita, rilette secondo una matrice psicoanalitica e che in un bambino, poi giovane che sa di essere stato generato da un utero (in affitto), che non appartiene ovviamente a nessuno dei due genitori e di cui uno soltanto è biologico, desta un importante conflitto interiore. Tindaro Granata mette in scena una prima infanzia felice del bambino Matteo Salvini bruscamente interrotta dalla malattia e conseguente morte di Tony, uno dei due papà. Da questo momento in poi anche lo spettacolo subisce una forte virata; la parentesi degli assistenti sociali funzionalmente amplificata, l’avvenire dell’età adulta di Matteo, il conflitto e l’allontanamento col papà Luca, le complicazioni con i migliori amici tra cui Lucia (figlia di Franca, migliore amica dii Toni e Luca, e cresciuta senza padre), l’allagarsi e al contempo il restringersi di quella rete sociale in cui si è sperato di dare consistenza ad una nuova famiglia in cui la si è riconosciuta come tale. “Geppetto e Geppetto” – richiamando nel titolo la tenera paternità (surrogata) del falegname di Collodi – elude ogni sorta di polemica, al contrario fa sua l’idea della tenerezza, dell’amorevole consapevolezza e coraggio dell’essere genitori, raccontando semplicemente una storia che, però, nel relativo prosieguo si rivela abbastanza fragile nella misura in cui resta ancorata a letture psicoanalitiche che sembrano imporre una chiave di lettura forzata. L’evoluzione cronologica della storia è non priva di parti che appaiono ridondanti che ne sfaldano la consistenza, sicché anche il finale giunge in maniera sostanzialmente affaticata.

Voltiamo completamente pagina con “Ci scusiamo per il disagio” de Gli Omini, senza dubbio il miglior lavoro visto nell’ultima parte di Primavera dei Teatri 2016, ma che ha già debuttato nel 2015. Questo spettacolo nasce da un progetto (Progetto T) di valorizzazione del territorio, quello pistoiese, partendo della difesa della Transappenninica, linea ferroviaria che congiunge moltissimi di quei piccoli centri che stanno subendo l’enorme spopolamento.

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Su delle panchine adiacenti poste al centro dello spoglio palcoscenico sostano individui diversi (gli attori interpretano più personaggi). In un angolo al fondo s’illumina un semaforo rosso, e al lato sinistro sta un enorme altoparlante dal quale la voce del disco registrato della stazione ferroviaria entra a gamba tesa nei funambolici dialoghi fra i protagonisti e ne diviene primario interlocutore. Sono essi protagonisti per i quali la stazione non è mai partenza né arrivo, ma non-luogo, zona franca ove stranieri diseredati, prostituti, coppie di ogni sorta trovano un loro rifugio. Coi loro paradossi espressivi che si alternano a brevi silenzi che non pesano sulla cronometria della recita, cercano di ingannare un tempo di cui ormai non si ha percezione (“Gli orologi della stazione sono fuori servizio” dirà l’altoparlante); frammenti di vite sono raccontati in maniera estraniante mentre essi si scoprono inchiodati ad un’immobilità strana e beffarda. Il treno che aspettano è di continuo procrastinato, non sembra esistere e, infine, passa senza che se ne accorgano. La stazione è luogo beckettiano laddove tempo e spazio raggiungono le loro frenetiche velocità, ma al contempo si annullano in una condizione bislacca d’immobilità. Un posto marginale delle nostre società, solo apparentemente di passaggio e invece ostello di un brulicare di vite pasoliniane le cui esistenze sono qui ironicamente adattate ai tempi teatrali, con qualche strambo cortocircuito di fondo come la breve pausa (una sorta di parodia di un intervallo fra due tempi di una recita) in cui l’altoparlante “racconta” la storia della patata.
Il pregio del lavoro risiede, inoltre, nell’interazione di quelle stesse individualità che accennano ad una coralità spontanea, ad un senso sinergico dell’essere legati virtuosamente alle trame della stessa drammaturgia e nello stesso tempo rivelarsi, attraverso un’ironia non retorica, monadi metropolitane. Le due accezioni della parola “disagio” che alludono a certe condizioni umane sia al malfunzionamento delle ferrovie si congiungono in un unico segno, dando vita ad una tessitura drammaturgica che si traduce sul palcoscenico in una strana e pulsante “entropia esistenziale”.

Cala con Gli Omini il sipario sulla XVII edizione di Primavera dei Teatri 2016 di Castrovillari, piccola cittadina del nostro sud che, distante dai grandi centri di produzione del paese, continua ad essere luogo di incontro e riflessione; un posto dove ci scopriamo con meraviglia arricchire il proprio sguardo di spettatore al cospetto di stili, di esperienze teatrali diverse  e con il confronto fra esse (ri)scoprire le ragioni più profonde dell’agire sul palcoscenico e dello stare seduti in una platea.

PROXIMA RES / TEATRO STABILE DI GENOVA / FESTIVAL DELLE COLLINE TORINESI
GEPPETTO E GEPPETTO Anteprima nazionale                                                                                        scritto e diretto da Tindaro Granata
con Alessia Bellotto, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Carlo Guasconi, Paolo Li Volsi, Lucia Rea, Roberta Rosignoli
regista assistente Francesca Porrini
assistente ai movimenti di scena Micaela Sapienza
allestimento Margherita Baldoni
luci e suoni Cristiano Cramerotti
coproduzione Teatro Stabile di Genova – Festival delle Colline Torinesi – Proxima Res

GLI OMINI / ASSOCIAZIONE TEATRALE PISTOIESE
CI SCUSIAMO PER IL DISAGIO                                                                                                                 uno spettacolo teatrale de Gli Omini
di e con Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Giulia Zacchini e Luca Zacchini
luci Emiliano Pona
produzione Associazione Teatrale Pistoiese-Centro di Produzione Teatrale
con il sostegno di Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Regione Toscana

 

 

Latte léttone e mucche baltiche: Black Milk di Alvis Hermanis

ELENA SCOLARI | Splendide, giovani, slanciate, eleganti. Donne? No, mucche. In leggeri abitini fiorati, tutte con orecchini gialli numerati (come i marchi sulle orecchie del bestiame), campanaccio al collo, una treccia di lana come coda e un cerchietto con le corna. E reggiseni molto molto imbottiti.
Sei bravissime attrici hanno osservato e imparato a imitare l’andatura lenta, un po’ sghemba, a volte tremebonda di questi bovini, e si muovono armoniose sul palco ora come in un pascolo ora come in una stalla. C’è anche un toro, Vilis Daudzins, visibilmente confuso da questo harem campestre.
Black Milk (Melnais piens) del regista lettone Alvis Hermanis – direttore del New Riga Theatre dal 1997 –  è uno spettacolo poetico, forte, ironico, pieno di tenerezza e dotato di un fortissimo senso del teatro: le sei attrici sono mucche niente affatto ridicole e assai credibili, movenze, espressioni e gesti rendono inequivocabile il parallelo elettivo tra i sentimenti umani e quelli animali. Siamo di fronte a una visione divertita ma seria dei rapporti di affinità che si possono creare tra una fattora e la propria bestia, metafora chiara della profondità emotiva che nasce solo dall’attenzione e dalla lenta vicinanza tra creature viventi.
E se questa si perde allora le mucche protestano, con appesi al collo cartelli con la scritta “in India”!

truogolo

Hermanis sceglie una rappresentazione stilizzata del mondo rurale per dirci che stiamo perdendo il contatto con gli aspetti più viscerali della vita: il ritmo della natura, l’aggressività, la fragilità e l’immensa potenza della nascita, la gestione delle separazioni e della morte, l’appartenenza a una specie, che sebbene umana ritiene in sé una forza animale che non vogliamo più riconoscere. Non sembri un’ingenua o pasoliniana ode della campagna e della semplicità, qui si parla di macelli, di sangue, di donne che aiutano le vacche a farsi montare perché sanno cosa bisogna fare e conoscono i comportamenti degli animali, di contadini che guadagnano una miseria perché sono costretti a svendere il latte, ma soprattutto si parla del nostro moderno ribrezzo verso tutto ciò che non è patinato, smussato, levigato, inzuccherato, scremato.
La comodità è regina, fino all’inutilità stupida dell’aria condizionata polare accesa appena si superano i 22° o dei distributori automatici che vendono arance già sbucciate. Oibò! Stiamo veramente andando in vacca, è il caso di dirlo.
Ma lo si dice senza mai perdere di vista la grazia degli abiti fiorati, campagna sì ma non rozzezza.

Lo spettacolo è in lingua lettone e il regista ha deciso di fornire tutti gli spettatori di cuffie preferendo la traduzione simultanea del testo alla lettura dei sopratitoli. Pur capendone le motivazioni pratiche questa scelta non convince: non sentire le voci, le intonazioni, non sentire la musicalità della lingua e non percepire come le voci si muovono sulla scena toglie un po’ la specificità “qui e ora” del teatro, anche se si fosse persa qualche battuta non si sarebbe perso il senso, caldo, di ciò che avveniva sul palco.
La bellissima scena del parto, per esempio, in cui una delle attrici scalcia tremante stesa sotto le gambe di un’altra e poi tutte insieme sorreggono il vitellino fatto arrotolando un lenzuolo.

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La favola serale raccontata al truogolo dove le mucche ruminano mele finché si addormentano una addosso all’altra. O ancora la storia archetipica del bovino femmina che spaccherà le catene per andare verso il suo toro e morirà sgozzata per lo slancio d’amore che l’ha fatta impigliare nel filo spinato.

Il Black Milk del titolo è il latte nero che misteriosamente si produce dopo una maledizione, come fosse la perdita ultima del carattere lettone. La compagnia ha svolto un lungo lavoro di studio e ricerca nelle aree rurali della Lettonia ritrovando lì, e non in città, l’identità di una nazione: “Quando l’ultima nonna lettone avrà consegnato l’ultima mucca, la Lettonia autentica sarà solo cosa del passato”, dice Hermanis.
Il testo, per quanto si può dire dalla traduzione italiana, non vuole ricercatezze, porta le idee cardine senza fronzoli, lascia al pubblico di leggervi il senso, un lavoro supportato da un gruppo di attori eccellenti, per espressività e precisione.
Regia, luci e suoni dello spettacolo sono netti, mai ridondanti, sostengono senza retorica. In particolare Hermanis dirige la “mandria” alternando racconti e dialoghi su ricordi di stalla, anche di tono tecnico/agrario, a parti più coreografiche e di movimento, tutte molto curate.
Bello il diario dell’uomo che lavora in un macello e ha faticato ad abituarsi a questo mestiere ma poi ha capito che è un lavoro, un po’ particolare, sì, ma un lavoro, certo meno artificiale di altri.

In Black Milk si può ritrovare una certa consonanza con il recente Battlefield di Peter Brook, che si chiude con il suono di un tamburo, non una musica ma un suono primordiale, il battere della terra, che mette in contatto con qualcosa che non si può dire. Il segreto del mondo è un sussurro e si può sentire anche in un muggito.

 

BLACK MILK
con Jana Civzele, Iveta Pole, Liena Smukste, Sandra Klavina, Kristine Kruze, Elita Klavina, Vilis Daudzins
luci Lauris Johansons
suono Gatis Builis
regia Alvis Hermanis
produzione The New Riga Theatre
visto al CRT Teatro dell’Arte

Il mercante di Venezia: videointervista a Filippo Renda

13413600_1627516544232104_848737000319885907_nRENZO FRANCABANDERA | Ha debuttato pochi giorni fa al Teatro Sala Fontana un Mercante di Venezia giovane e concettualmente ambizioso, che vuole abbinare una compagine attorale anagraficamente fresca ad un ripensamento sull’opera shakespeariana che parte da alcune rivisitazioni testuali per indagare qualche concetto più ampio come la corruttibilità dell’animo umano, l’impatto del denaro sulle relazioni sociali.

Una rilettura (e riscrittura) molto orizzontale dove non esiste un vero e proprio protagonista, a vantaggio di una coralità in cui ogni personaggio è portatore di bene e male, ambizioni negative e generosità.

Ne emerge uno spaccato con alcuni indubbi punti di interesse di cui abbiamo parlato con il giovane e promettente regista Filippo Renda, formatosi come attore e che ha poi imboccato la carriera registica. Una video intervista realizzata nel bellissimo chiesto del Teatro Sala Fontana che ospita e produce il lavoro, in cui si parla dello spettacolo ma ancor più in generale di teatro, scelte e nuove generazioni, con una interessante considerazione conclusiva sul rapporto regista-attore.

 

Il rap delle sorelle Kovacic

ANGELA BOZZAOTRA | Scrittura collettiva e centralità del testo drammatico: due elementi chiave dello stile del Collettivo Sch., ensemble di giovani artisti romani fondato da Dante Antonelli e impegnato dal 2014 nella Trilogia dei Drammi Fecali di Werner Schwab. Presentato all’interno della rassegna Dominio Publico – Under 25 al Teatro India di Roma, Kova Kova è lo spin off di Sterminio (1991), ultimo dramma della trilogia ambientato in un condominio dove gli strambi e larvali inquilini conducono vite parallele talvolta intersecanti.
Il titolo è la contrazione del cognome dei coniugi Kovacic, sostituiti qui dalle figure delle due figlie, interpretate da Valeria Belardelli Arianna Pozzoli. Intrappolate in posture fisse o animate da rabbiosa isteria, le interpreti slittano costantemente da un registro linguistico a un altro – la rappresentazione segue infatti la loro impossibile crescita anagrafica e biologica. Sono due bambine mal cresciute, che si lamentano per gli sciocchi torti subiti, poi di colpo si trasformano in coatte di strada che provano a ribellarsi inutilmente contro il sistema, rimanendo incastrate nella propria camera, divengono infine due tardo-adolescenti perse tra la discoteca e le possibilità di rimorchio.

Il testo è contorto, denso e ricco di rimandi e citazioni, mescolati a slang urbano e dialetto. Il light design assume rilievo fondamentale ai fini di ricreare atmosfere di volta in volta mutevoli, per sottolineare la claustrofobica ambientazione della camera, le luci disegnano figure geometriche rettangolari ingabbiando i corpi, mentre momenti di penombra alternati all’utilizzo dello strobo rendono il terrore e l’angoscia isterica della ripetizione incessante della monotonia della quotidianità delle protagoniste. Un tappeto sonoro originale accompagna la recitazione come un mantello, mutando da trance a disco music, fino a fare da sottofondo al brano rappato nella metà dello spettacolo, una sorta di climax anti-drammatico durante il quale al ritmo della base musicale, le due interpreti cantano un brano intervallando un hook che ripete “digiunami”.
Un digiuno di morale, di ideali e di autonomia intellettiva: le due figure sono infatti costantemente schiacciate e inibite sia dalle figure genitoriali sia dai dettami dei trend sociali, si dimenano nella propria cameretta per poi ritornare a dimenarsi in squallide discoteche, per “rimorchiare” e perché, in fondo, “scopare fa bene”.  Nella cruda fotografia di una generazione involuta e bloccata in un’eterna adolescenza, il testo di Schwab risulta quanto mai appropriato; l’abbrutimento dei condomini della Trilogia dei Drammi Fecali ben si sposa al contesto storico e sociale di oggi, utile a tal proposito è l’inserimento di stralci di vita quotidiana nella tessitura originale.

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Nell’universo di questa trilogia non c’è redenzione e non c’è margine di salvezza, il ritratto generazionale che ne risulta è cinico e amaro; in un percorso che avanza a sottrazione (il numero degli interpreti diminuisce gradualmente, da tre per Fäk Fek Fik a uno per S Santo Subito, passando per Kova Kova), il Collettivo Sch. dimostra di poter portare avanti un discorso teso a svecchiare il linguaggio scenico, prediligendo una comunicazione diretta e in parte violenta, dove lo spettatore è costantemente chiamato a identificarsi e nonostante ciò allontanato dalla sconfinata solitudine dei personaggi, persi nei propri assoli logorroici (il dialogo è abolito dalla rappresentazione), nei propri tic e nelle proprie sconfitte. Con movimenti precisi e una gestualità studiata sino all’ultimo dettaglio, le due interpreti in sola mezz’ora di spettacolo, regalano un esempio che apre grandi possibilità a un gruppo di così recente formazione, una scarica elettrica in un panorama ammuffito e mummificato che mai quanto oggi ha bisogno di rinnovarsi.

Kova Kova – lo spin off
di Collettivo Sch.,
con Valeria Belardelli, Anna Pozzoli
Rassegna Dominio Pubblico – La città agli under 25

5 Giugno 2016, Teatro India, Roma

Festival Primavera dei teatri 2016 di Castrovillari, prima parte

ESTER FORMATO | Nell’arco dei tre giorni – dal 2 al 5  giugno – in cui abbiamo preso parte al festival “Primavera dei Teatri” a Castrovillari, iniziato quest’anno il 29 maggio, si sono alternati sul palcoscenico calabrese lavori che pur nella loro diversità sono stati accomunati da una cifra stilistica simile, ovvero una tendenza alla frontalità della narrazione teatrale che si traduce in  soluzioni sceniche poco artificiose.

atir.jpg32 secondi e 16 è un testo scritto da Michele Santeramo per la regia di Serena Sinigaglia (Teatro Atir Ringhiera),  strutturato in maniera particolare e suddiviso in tre capitoli (Gli abissi, l’isola, terraferma). All’inizio una pellicola trasparente funge da quarta parete, la scena sembra metafisica nella sua semioscurità, simbolo di abissi irrequieti colmi di cadaveri e che poi, si vedrà in seguito, circondano un’orribile isola sulla quale approda Samia Yasuf Omar che durante le Olimpiadi di Pechino gareggiò nell’atletica leggera, e che in realtà morì durante uno dei viaggi tremendi nel Mediterraneo. La drammaturgia di Santeramo predilige nella prima parte una narrazione statica; i tre protagonisti raccontano di Samia e della sua Mogadiscio, del tentativo di fuga, delle tratte umane in cui s’incappa prima di prendere il largo; lo fanno esemplificando con la gestualità le fasi più importanti della sua breve storia sportiva. Ma nella seconda parte l’autore devia dalla cronaca reale, immaginando la ragazza somala come unica sopravvissuta di un naufragio al cospetto di due soli bianchi che coabitano l’isola d’approdo; un fratello e una sorella ricreano una sorta di genesi negativa in cui all’armonia complementare dei sessi si sostituisce una grottesca voluttà incestuosa di velata repulsione. Certi della morte di tutti coloro che non sono riusciti a toccare terra, finiscono per negarne l’esistenza inaugurando un anti  Eden contro il quale Samia si ribella, costringendoli a cibarsi della carne dei morti ripescati in mare. Michele Santeramo e Serena Sinigaglia rimarcano attraverso la storia di Yasuf Omar l’abbrutimento morale dell’Europa dinanzi al problema dell’immigrazione, e lo fanno  mediante un’ottica straniante nella quale entriamo però un po’ a fatica, condizionati da un lento svolgimento della prima parte e da una seconda del tutto staccata dalla precedente. Alla fine riusciamo a riannodare i pezzi di questa scrittura, frammentaria o quantomeno priva di un nucleo centrale agglutinante, carpendo nell’ultimo capitolo un carattere grottesco ed apocalittico che  non lascia però un segno forte, nonostante la complessità ed il peso etico del tema.

scena verticaleAltro allestimento che desta una riflessione dal punto di vista stilistico è Il Vangelo secondo Antonio di Scena Verticale, spettacolo scritto e diretto da Dario De Luca che ne è anche principale interprete. In questo caso la drammaturgia è di una semplicità lineare tradotta in quadri giustapposti che narrano le fasi di avanzamento del morbo d’Alzheimer e che progressivamente priva il protagonista Don Antonio delle funzioni intellettive e poi fisiologiche.  La scena è realistica, una sagrestia con pochi mobili corrosi dal tempo, dove troneggiano un grande guardaroba nel quale sono riposti gli abiti sacerdotali e due confessionali adiacenti. Un altare ed il crocifisso sono posti ad un livello superiore rispetto al piano d’assito, chiaro rimando  visivo al senso religioso dei protagonisti e alla loro pia accettazione della sofferenza. Dario De Luca non sembra cercare un preciso filtro critico ma restituisce in base ad un’ottica verista la parabola di un sacerdote e la sua malattia, nuova condizione mentale che lo fa entrare tragicamente in contatto con una percezione quasi inconscia del proprio legame con il Cristo. Tra un quadro e l’altro si nota talvolta uno stacco ex abrupto, i linguaggi sono svuotati di ogni sovrastruttura a vantaggio di stilemi afferenti il contesto religioso (meridionale) in cui la fede e la stessa devozione tutta femminile per un fratello consacrato rinsaldano quotidianamente la stretta aderenza con il proprio unico destino. Sicché viene da pensare che “Il Vangelo secondo Antonio” non sia una parabola sull’Alzheimer in quanto tale, ma più che altro il racconto di come la deturpazione fisica e mentale incida sullo stesso contesto di riferimento, portando all’estremo abnegazione e rassegnazione di chi assiste Antonio, unica arma (forse necessaria) conosciuta nel confronto con la sofferenza. Solo con l’alienazione psicofisica e la perdita della dignità più elementare rivelano allo stesso Antonio un Cristo non più sacramento d’Eucarestia, concetto ormai incomprensibile per un ottenebrato da quella patologia, quanto un giovanotto da sottrarre a quella croce e sul quale trasferire le stesse minime cure di cui lo stesso prete necessità dagli altri, come flebile ribellione al dogma del dolore, incondizionato riflesso di memoria che ha dimenticato sé stessa. Di conseguenza pare che quel minuscolo mondo rinvigorito dalla devozione della sorella e da quella del giovane sagrestano – dei quali è spesso posto in luce la relazionalità, colmo ancora di tipici retaggi del sud – non possa essere raccontato onestamente se non con i linguaggi, le forme ad esso più consone e quindi con un’ottica e con alcune soluzioni registiche retoriche che talvolta potrebbero andare più in profondità, ma utilizzate con profonda consapevolezza.

lei-e-gesuDi tutt’altra fattura, è Lei è Gesù di Quotidiana.com, terzo atto di una trilogia dal titolo “Tutto bene quel che finisce bene”. Qui la
frontalità diventa  totale, unidimensionalità dello spettacolo che prende vita con due sedie e un unico e continuo dialogo fra un uomo e una donna, flusso quasi ininterrotto che inizia dopo che gli attori entrano in scena e si siedono fronte alla platea. Il primo  elemento specifico dello spettacolo è una maggiore amplificazione del suono che risulta preponderante se unito alla cifra stilistica utilizzata; la sonorità, difatti, rientra in una veste estetizzante nella quale si propone il dialogo. Una  Bibbia contro un numero di Vogue (“per avere un contraddittorio adeguato”). Un Gesù volto al femminile, donna provocatrice e femminista che alla semplice e spoglia sintassi del Nuovo Testamento ne sostituisce una decostruzione ironica, scomposta in giochi di parole e figure retoriche; se Vogue fosse uno stile espressivo, sarebbe quello di “Lei è Gesù”. Il pragmatismo tutto femminile non contempla il Discorso della Montagna, si burla della crocifissione, si nega al sacrificio, combatte la volontà del Padre. Riunisce invece gente alla Casetta dell’acqua, pensa  agli apostoli come ad una torma di comparse ed assimila la Creazione ad un processo di produzione di uno spettacolo. Il risultato è un profluvio icastico dalle venature ironiche e pungenti; la staticità della scena è ricompensata dalla vivacità del botta e risposta con una gestualità calibrata e ironica, atta ad accompagnare l’abilità verbale degli interpreti, ma non è essa surrogato dell’azione scenica quanto dichiarato manifesto teatrale. Difatti la partitura e la natura  recitativa che tale “manifesto” contempla sono costruite in base ad un centellinato controllo del ritmo in cui, nelle relative pause, ci sono i vuoti di senso ed il completo disorientamento del nostro tempo, caratteristica fondamentale della poetica dei Quotidiana.com.

 . .

 

 

ATIR TEATRO RINGHIERA
32 SECONDI E 16
di Michele Santeramo
regia di Serena Sinigaglia
con Tindaro Granata, Valentina Picello, Chiara Stoppa
scene e costumi Stefano Zullo
musiche Silvia Laureti
disegno luci Sarah Chiarcos
produzione ATIR Teatro Ringhiera
con il sostegno di NEXT2015
foto Serena Serrani

SCENA VERTICALE
IL VANGELO SECONDO ANTONIO
scritto e diretto da Dario De Luca
con Matilde Piana, Dario De Luca, Davide Fasano
musiche originali Gianfranco De Franco
assistente alla messinscena Maria Irene Fulco
scenografia Aldo Zucco
realizzazione scultura Cristo Sergio Gambino
realizzazione scene Gianluca Salomone
costumi e assistenza all’allestimento Rita Zangari
distribuzione e ufficio stampa Settimio Pisano
coproduzione Scena Verticale, Festival Primavera dei Teatri, Festival Città delle 100 Scale

QUOTIDIANA.COM

LEI È GESÙ

3° capitolo di “TUTTO È BENE QUEL CHE FINISCE”  (3 capitoli per una buona morte)

di e con Roberto Scappin e Paola Vannoni
regia Roberto Scappin
produzione quotidiana.com, Armunia/Festival Inequilibrio
con il sostegno di Provincia di Rimini, Regione Emilia Romagna
in collaborazione con Istituzione Musica Teatro Eventi Comune di Rimini, SPAM! rete per le arti contemporanee

 

 

Castrovillari 2016: una Primavera dei Teatri per bambini

ESTER FORMATO | Il festival “Primavera dei Teatri” di Castrovillari che ha cone sempre avuto luogo fra fine maggio ed inizio giugno nei punti nevralgici della cittadina calabrese, poco distante dal suo antico borgo medievale, ha saputo riservare spazio ai più piccoli attraverso una programmazione a loro adatta – Primavera Kids, per l’appunto –  di cui Scena Verticale ha condiviso il progetto con il Teatro della Maruca.

Nei tre giorni che ci ha visti impegnati nel seguire il festival, abbiamo assistito a tre lavori dedicati ai bambini che hanno affollato il Palazzo di Città:  “Zampalesta U Cane Tempesta” dello stesso Teatro della Maruca, “Quel pazzo di Orlando” della compagnia Conimieiocchi, “Il cantastorie” di TeatroP.

Quest’ultimo in realtà è stato un laboratorio creativo che ha coinvolto i più piccoli in un lavoro di manualità, attraverso ritagli di carta davvero originali con i quali si è provato a raccontare una parte della storia del Piccolo Principe e a ricreare collettivamente un’unica struttura cartacea a forma di pianeta in cui collocare il piccolo omino, stavolta nascosto in un minuscolo cubo.

“Zampalesta U Cane Tempesta” spettacolo di figura di Teatro della Maruca, ha come protagonisti dei burattini i cui tratti sono tipicamente rurali e sono saldamente legati alla cultura contadina calabrese. Il dialetto, i canti e le danze popolari, gli arnesi e le suppellettili, persino i costumi coi quali sono vestiti i pupazzi rimandano alle tradizioni indigene, e la storia, quella del cane Zampalesta che fugge al suo padrone e ne fa di tutti colori, è quella delle  più semplici ed elementari. Essa si sviluppa attraverso due episodi sostanzialmente simili, due marachelle del grosso e grigio cane lupo, per poi concludersi con il ritrovamento da parte del padrone di Zampalesta e il relativo (ri)addomesticamento, dopo che lo stesso contadino viene picchiato dal proprietario della coloratissima gallina Serafina che il cane ha mangiato, e dal cuoco della locanda che doveva ospitare l’arcivescovo e nella quale Zampalesta ha divorato tutto. Ovviamente la storia veicola un messaggio etico che interessa il rapporto uomo e animale, proposto in modo accattivante anche per gli adulti. Colpisce poi come la semplice costruzione dell’azione si accompagni a espedienti comici altrettanto elementari; viene in mente il cartello “uova frische scpeciali” in dialetto calabrese, il realismo di certi oggetti della vita rurale e le singole scene, la gallina Serafina che cova uova di dimensioni via via più grandi secondo le aspettative del padrone, e Zampalesta che mangia tutti i cibi (tipici calabresi, tra l’altro) appesi alle spalle dello chef; espedienti vincenti da un punto di vista dell’attenzione e dell’interazione con i bambini in sala che pongono domande, compartecipano alla “ricerca” di Zampalesta da parte del padrone sino a “suggerire” allo stesso come poter giocare col suo cane e ripristinare una relazione armonica. Arte vecchia quella dei pupazzi e burattini, ma che nel 2016 riesce ancora a stimolare l’immaginazione e mantenere vivo il gioco delle illusioni, seppur al cospetto dei nuovi “nativi digitali”.

Meno convincente da un punto di vista della costruzione dello spettacolo, è stato  “Quel pazzo di Orlando” della Compagnia Conimieiocchi. Anche in questo caso gli oggetti, costruiti con materiale riciclato, sono elementi arricchenti e fondamentali; ci sono un paravento ed un ombrellone sotto il quale la maga Logistilla legge “le carte” che rappresentano le armi, i cavalieri, le donne e gli amori, e con una “giostra del tempo”, meccanismo metanarrativo, c’introduce nelle ottave di Ariosto. Il risultato è un’alternanza tra mimesi e narrazione ove però prevale quest’ultima, conferendo allo spettacolo un aspetto più statico e di poca tenuta. Difatti, procedendo per episodi (la storia di Ruggero a partire dall’incontro con Logistilla, di Medoro e Cloridano, di Medoro e Angelica e viaggio di Astolfo sulla luna), attraverso un primo livello narrativo che è quello di Logistilla, faticosamente si riesce a trasmettere la storia che in Ariosto è la spina dorsale di tutto il poema; probabilmente sarebbero dovute essere accantonate le ottave o riadattarle in maniera più efficace  e restituire ai piccoli spettatori una completa ed altra rielaborazione del classico, meno frammentaria, facendo leva magari su un approccio più immaginifico della vicenda e su una maggiore versatilità.  Tuttavia, in alcuni punti come nel clou della pazzia d’Orlando, oppure quando si chiede alla platea dove sia Medoro, dopo che sul paravento Angelica ha inciso scritte e cuori, i bambini interagiscono facilmente, vivacizzando lo spettacolo che termina buffamente in slow motion quando Astolfo, armatosi di uno strano scudo e forchetta al posto di una spada, riporta ad Orlando il senno.

Guardando  complessivamente ai tre spettacoli, riflettiamo sul fatto che ancora adesso, nell’era digitale, con i bambini abituati all’utilizzo di tecnologie per la fruizione di filmati ed altri giochi di loro interesse, il teatro riesca ancora nella magia interattiva che consente la ricerca e l’utilizzo di meccanismi semplici che tuttora appaiono determinanti per l’approccio con i bambini, certamente più o meno vincenti, a seconda dell’abilità di ciascun teatrante, ma ancora efficaci nel veicolare storie e rinsaldare tramite l’esperienza teatrale il rapporto dei ragazzi con l’immaginazione.

TEATRO DELLA MARUCA
Zampalesta u cane tempesta – spettacolo di teatro di figura per bambini e adulti
Spettacolo di burattini tradizionali calabresi
Di e con
Angelo Gallo 
Scene e burattini 
Angelo Gallo

CONIMIEIOCCHI
Quel pazzo di Orlando – spettacolo per bambini e adulti

Il Cartastorie 
Laboratorio-spettacolo a cura di TeatroP

 

X MEDIA – Specchi profetici: il caso Black Mirror

ALESSIO DEGIORGIS | In principio era il cinema. Immagine che articolava il proprio movimento, inventando storie nel quale specchiarsi. Il telefilm semplificava questa vocazione, senza pretendere da se stesso più di quanto non potesse essere realizzato, con mezzi e idee più originali, dal grande schermo. Sono molteplici i fattori che hanno assottigliato, forse annullato, la distanza qualitativa fra cinema e serial televisivo. Quest’ultimo ha conquistato un pubblico sempre più esigente. A colpi di sceneggiature originali, attraversando i generi più disparati, forzando sino al punto di rottura le regole della televisione e della sua fruizione. Alcuni serial sono virali, sono oggetto di discussioni accese, li si riconosce, in certi casi, come pregiati saggi di filosofia per immagini. La serie inglese “Black Mirror”, ideata da Charlie Brooker, è partecipe di questo cambiamento e lascia lo spettatore turbato, ben oltre i titoli di coda.

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Superfici nere ci riflettono quotidianamente. L’immagine cupa che può essere intravista, e che spesso ignoriamo, merita più attenzione. I nostri computer, i nostri telefoni e televisori, quando riposano spenti, possiedono il fascino di uno specchio oscuro al quale abbiamo ceduto, almeno in parte, la nostra libertà. “Black Mirror” immagina il futuro per poter meglio raccontare le derive del presente. Lo fa ricollegandosi solo in parte alla tradizione precedente, rinunciando al citazionismo di genere, elaborando un mondo distopico inedito. Il suo percorso produttivo esemplifica bene la trasformazione del fenomeno “serie”. Prodotto dalla televisione britannica, “Black Mirror” conosce un successo crescente che lo porta ad essere acquistato dal gigante Netflix, già responsabile della consacrazione del programma in USA. In certa misura, dunque, sottratto al circuito televisivo tradizionale. Solo tre puntate a stagione, nelle quali non è riprodotta una vicenda puntinata da attese e colpi di scena. La struttura dello sceneggiato classico è scardinata a favore dello sviluppo di un’idea, segnata dall’iperbole e dal grottesco di episodi autoconclusivi.

Le storie di “Black Mirror” restano separate. Nessun incrocio, nessuna interazione fra i protagonisti dei singoli episodi. Montaggio alternato di vite di uomini e donne che godono crudelmente della condizione di spettatori isolati. Salvo poi riconoscere la propria debolezza e l’inconsistenza di una felicità illusoria. I desideri sono livellati, grazie ad essi un potere impersonale sorveglia e punisce. Ogni puntata costituisce un’audace provocazione diretta a un società che ha delegato molto, se non tutto, alla tecnologia. La politica, l’arte, il sesso e la morte sono incolori in un universo che si esprime con alfabeto binario. Viene da chiedersi se la qualità degli interrogativi sollevati da “Black Mirror” si conserverà anche nelle stagioni future (la terza è prevista per il prossimo autunno) o come spesso capita, i buoni spunti offerti dalla manciata di episodi finora prodotti finiranno per ripetersi vanamente.

La bellezza come promessa di felicità. La massima di Stendhal sembra imperitura. Anche un mondo tecnologico, ossessionato dall’efficienza, insegue un ideale estetico che immagina uomini e macchine armonicamente congiunti. L’idillio scade però nella farsa, causa lo squilibrio emotivo che permette di riconoscere l’uomo in preda ai soliti interrogativi primordiali, bisognoso di conferme, cure e sguardi complici. Si potrebbe scrivere la sinossi di ogni singola puntata ma ciò non aggiungerebbe nulla alla chiarificazione della tesi di fondo che sostiene ogni episodio. Dispotico è già il nostro presente, adulati come siamo da macchine indifferenti alle quali, causa esposizione costante, finiamo per assomigliare. Eppure debolezze umane troppo umane possono rivelare falle impreviste nel sistema, ci ricorda “Black Mirror”, imperfezioni che indicano vie di fuga da un incubo ad aria condizionata.

Per un teatro “popolare”: Lanera rilegge Pasolini

FRANCESCA GIULIANI | In occasione della prova aperta a L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino abbiamo incontrato Licia Lanera / Fibre Parallele. Dai 10 anni della compagnia all’adattamento drammaturgico di Orgia che debutta domani al Festival delle Colline Torinesi, l’artista barese ci ha accompagnato nel percorso che l’ha portata alla messa in scena del testo che Pier Paolo Pasolini scrisse nel 1966.

Da Mangiami l’anima e poi sputala a La Beatitudine quali sono i momenti di svolta in questi 10 anni di Fibre Parallele? 

Mangiami l’anima e poi sputala è il primo spettacolo. Daniele Timpano lo vide alle semifinali del premio “Scenario” e ci propose di partecipare all’ultima edizione di “Ubusettete” a Roma. 2.(DUE) fu uno spettacolo gettonatissimo, che ancora gira ma di cui vorrei liberarmi. La svolta venne con Furie de Sanghe, il primo con una produzione, in un teatro con altri attori. È in questo momento che si sono definiti meglio anche i nostri ruoli – drammaturgo Riccardo e regista io. Poi Duramadre che ha avuto una serie di brutte vicissitudini produttive e non solo. È uno dei lavori meno riusciti ma da qui si generò una crisi che portò al nostro lavoro più solido e compiuto, Lo splendore dei supplizi. La beatitudine ha segnato altri momenti difficili che riguardavano la nostra vita privata, la nostra separazione come coppia. È uno spettacolo fatto in un tempo lampo ma molto compiuto, raffinato, che denota come dopo tanti anni abbiamo sviluppato un metodo di lavoro molto solido.

 E ora Pasolini.

Orgia nasce su commissione. Rodolfo di Giammarco mi invita alla rassegna “Garofano Verde” consigliandomi la lettura di Orgia e proponendomi di fare l’uomo. Con lui avevamo già collaborato per “Trend”, la rassegna sulla nuova drammaturgia inglese, dove avevamo messo in scena il testo di Edward Bond Have I non. IMG_4858Quando lessi il testo di Pasolini rimasi folgorata perché alcune cose del testo erano in forte connessione a come mi sentivo in quel momento della mia vita. Lo trovai molto appartenente e decisi di farne l’adattamento drammaturgico. A Roma feci una “lettura agita” La donna nell’uomo che andò molto bene e Antonio Calvi mi chiese di metterlo in scena nella stagione successiva. Questi furono gli input che mi spinsero a terminarlo. Per una questione di diritti ho utilizzato il testo integrale e si è presentata la sfida per come metterlo in scena, come sviluppare entrambi i ruoli, come trovare una forma unica, se avere o no un’altra attrice per il ruolo della ragazza. Io vivo da un lato la gioia di aver dominato un testo e di averne fatto una regia assolutamente mia dall’altro il terrore di essermi confrontata con un autore così mastodontico e di averlo in qualche modo destrutturato nella sua forma teatro anche se la lingua è quella, io non ho aggiunto una parola e non ho cambiato nulla. La mia autorialità, nonostante sia molto forte, in Orgia è puramente registica. Praticare quella parola e tenerla sempre viva è stato un lavoro attoriale molto faticoso.

È cambiato l’immaginario di riferimento in questi 10 anni? 

Non è tanto cambiato. Prima eravamo molto carichi di quell’immaginario pop che già da Furie de Sanghe si è più rarefatto. C’è sempre l’immaginario della violenza. È cambiato il nostro modo di lavorare, è come se avessimo raffinato il palato con gli anni, gli incontri, le letture, gli spettacoli visti – noi che non abbiamo seguito nessuna scuola di teatro siamo stati degli spettatori accaniti. Per me l’incontro con Ronconi ha segnato un passaggio come attrice e come regista. Se non lo avessi incontrato non so se sarei riuscita a fare La beatitudine, ma sicuramente non sarei riuscita a mettere in scena Orgia come l’ho fatto oggi sia registicamente sia attorialmente.

La figura retorica dell’ossimoro sembra caratterizzare la vostra poetica: in Orgia è forte la commistione tra immaginario pop e pittura seicentesca. È il contrasto necessario a creare il cortocircuito in teatro? 

Mi piace che il teatro, che dovrebbe raccontare la vita, crei questo cortocircuito che nel quotidiano c’è sempre. In più si sta sviluppando anche un esercizio di stile rispetto a questo elemento. Esteticamente cerco la commistione tra basso e alto. In Furie de Sanghe c’è la scena più cruda della violenza sessuale fatta su una canzone popolare barese; in Orgia c’è la replica del Caravaggio che crea questo contrasto con Eminem e il mondo del rap.

Quando e come sposti la tua attenzione durante la creazione allo sguardo dello spettatore?

Sempre. Per me il teatro è un mezzo innanzitutto politico in quanto fa parte della polis. È un’arte comunicativa e se non comunica perché è difficile, ermetico, non si sa spiegare non è riuscito. Io sono per un teatro popolare nel senso di Leo de Berardinis, un teatro che possa parlare a tutti. Se non riesce ad arrivare si perde il suo essere atto rivoluzionario. Sono molto per l’empatia, ci si deve emozionare, si deve entrare in una storia, non amo gli spettacoli che svelano continuamente il meccanismo scenico. In Orgia manca la contrapposizione tra l’elemento alto e basso, quell’aspetto popolare che aggancia, non in senso ruffiano ma nel prendere per mano lo spettatore per portarlo nel mondo più alto. È il testo a essere così: l’ironia non c’è quindi io spingo attorialmente l’acceleratore sul sarcasmo per rendere la parola più concreta perché ho il terrore di essere troppo elitaria.

Orgia
di Pier Paolo Pasolini.

con Licia Lanera
e Nina Martorana
regista assistente Danilo Giuva
consulenza artistica Alessandra Di Lernia
luci Vincent Longuemare
costumi Antonio Piccirilli
dipinti Giorgio Calabrese
tecnico di produzione Amedeo Russi
assistente tecnico Cristian Allegrini
organizzazione Antonella Dipierro
regia e spazio Licia Lanera

produzione Fibre Parallele
coproduzione Festival delle Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Costing & Management
e con il sostegno di L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
si ringrazia Garofano Verde

Nuovi ciliegi all’Elfo: il realismo elegante di Bruni

ROBERTA ORLANDO | Anche in questa stagione teatrale che si avvicina al termine, l’eco di Cechov ha dato vita a nuove rappresentazioni, soprattutto a rivisitazioni in chiave contemporanea. Villa dolorosa di Rustioni ci ha fatto rivivere le Tre Sorelle, ma menzioniamo anche il ben riuscito Vanja della Compagnia Oyes.
Eppure l’Elfo, benché di teatro contemporaneo sia da sempre portavoce, sceglie di riportare sul palco, a dieci anni dal debutto (e per la prima volta nella sede di corso Buenos Aires), un classico di Cechov: Il Giardino dei Ciliegi, ultima opera dell’autore.

Ferdinando Brungiardinoi, che questa volta cede il suo ruolo di Lopachin (a un ottimo Federico Vanni) e si concentra sulla regia, ce lo propone così: con un testo fedele, di cui ha curato anche la traduzione, con costumi eleganti e con una scenografia che sembra pensata per creare spazi (anche non visibili) e accogliere un cast di 12 attori senza mai appesantire lo spazio scenico. Le azioni, che si svolgono principalmente nella stanza dei bambini, continuano anche fuori dalla villa e in altre stanze, anche se ne vediamo solo le porte e le luci (di Nando Frigerio) che penetrano dalle finestre. Un’atmosfera calda, come dev’essere quella di una casa che è luogo di riunione per una famiglia non sempre unita, luogo di ricordi nostalgici e ultimo appiglio prima della rovina e del cambiamento. I mobili e i quadri dei primi due atti si diradano negli ultimi due, cedendo il posto a sedie e bauli; pochi oggetti che simboleggiano una decadenza economica e uno spostamento, fisico e psicologico. Il suono di un pendolo è un frequente sottofondo, e risalta ancor più nei diversi momenti di pausa, come dei fermo-immagine, che il regista inserisce soprattutto nella prima metà dello spettacolo, per mettere a fuoco i momenti più rilevanti. Ed è di nuovo un effetto sonoro (se ne cura Jean-Christophe Potvin) che ci annuncia, nell’ultimo atto, l’abbattimento dei ciliegi del giardino, per mano di Lopachin, il nuovo proprietario della villa.

Questo testo è lo specchio della Russia di inizio Novecento, quando la società soffriva la decadenza economica e politica, mentre la borghesia cavalcava l’onda dell’industrializzazione acquisendo sempre più potere. Ciò che però caratterizza la versione di Bruni è una tangibile leggerezza, concessa da un lavoro corale sorprendente e dalla forte e precisa caratterizzazione di ogni personaggio. Una leggerezza difficile da intravedere in un’opera che lo stesso Stanislavskij, dirigendo la prima assoluta a Mosca nel 1903, aveva letto come dramma sociale, provocando il disappunto di Cechov che l’aveva concepita come una commedia.

Nel cast di questo Giardino rivediamo gli “evergreen” dell’Elfo: Ida Marinelli (nel ruolo di Ljubov), che cavalca bene l’incostanza emotiva di un personaggio passionale quanto fragile; il fratello Gaev, interpretato da Elio De Capitani, in una delle sue migliori interpretazioni; Elena Russo Arman (Varja) e la sua indiscussa intensità interpretativa. Tutte ottime prove attoriali quelle degli altri attori in scena, con qualche stonatura nel caso di Liliana Benini (Anja) e Carolina Cametti (Duniaša), all’interno della spontanea sintonia e della coerenza scenica degli altri interpreti.

 

IL GIARDINO DEI CILIEGI
di Anton Cechov
regia di Ferdinando Bruni
con Ida Marinelli, Elio De Capitani, Federico Vanni, Elena Russo Arman, Luca Toracca, Nicola Stravalaci, Corinna Agustoni, Carolina Cametti, Fabiano Fantini, Vincenzo Giordano, Marco Vergani, Liliana Benini
luci di Nando Frigerio
suono di Jean-Christophe Potvin
produzione Teatro dell’Elfo