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sabato, Maggio 10, 2025
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Il fascino misterioso del duende. Al via il Festival Primavera d’Europa ad Avigliana

GIULIA MURONI| Le ballerine di Cadice, il grido strozzato della seguiriya di Silverio, le ginocchia dipinte da Goya, Pastora Pavòn dopo un sorso generoso di acquavite. E più di tutti Santa Teresa di Avila. Questi i luoghi in cui si annida il duende.

Teoria e gioco del duende è il titolo di una conferenza tenuta da Federico Garcia Lorca nel 1934. A partire da un proposito piuttosto ambizioso, dare una lezione sullo spirito occulto della dolorosa Spagna, l’autore mette a fuoco quelle personalità spagnole che hanno mostrato di essere caratterizzate dal duende. Attraverso questi exempla c’è il tentativo, che non aspira in alcun modo ad essere analitico né esaustivo, di fornire un quadro tanto vago quanto suggestivo del duende. Erede del daimon socratico, Goethe lo definì: «Potere misterioso che tutti sentono e che nessun filosofo spiega».  Entità dai contorni metafisici, sorta di nietzscheano spirito dionisiaco con il quale si deve fare i conti, un riferimento conflittuale che irrompe, prosciuga il sangue, respinge le dolci geometrie apprese e rompe gli stili. Da questo sconquassamento emerge un genio imprevisto, la possibilità concreta di superare le tecniche e penetrare nella trama oscura degli intricati sentieri dell’emotività.

Dolores Lago Azqueta, compagnia Cie Oiseaux Migrants (Spagna-Francia), ha portato in scena “Teoria e gioco del duende” nella chiesa di Santa Croce ad Avigliana. Spettacolo concepito per essere rappresentato in luoghi piccoli, risponde all’aspirazione di un ritorno all’essenziale del processo teatrale: la comunicazione. L’interprete infatti si rivolge direttamente al pubblico e racconta il duende attraverso il registro poetico di Garcia Lorca. Tutto nella scena è funzionale a rendere la narrazione il più chiara possibile: i libri presenti servono a sviscerare le citazioni del testo, così da mostrare al pubblico quei casi, citati da Lorca, in cui è forte la presenza del duende: nel giallo burro e nel giallo fulmine dei dipinti del Greco,  nelle teste gelate tratteggiate da Zurbaràn, nell’abside della chiesa di El Escorial. Parimenti i volti di alcuni, tra i quali Nietzsche e lo stesso Garcia Lorca, sono ritratti in alcune cartoline che l’attrice esibisce e appunta su un leggio in bella vista. Alcune brevi incursioni sonore, a cura di Mario Tomás López, contribuiscono anch’esse a sottolineare l’atmosfera prodotta dal timbro magnetico di Dolores Azqueta.

Lei, vestita di rosso e nero, è avvolta in uno scialle color porpora che si dispiega al muoversi elegante e concitato delle braccia. Le mani disegnano arabeschi e saette, impegnate a mostrare, a spiegare, accompagnare verso una suggestione. La postura, lievemente rivolta verso l’interno, non inficia l’atteggiamento fiero e il volto aperto e disponibile al fluire sincero delle emozioni. Attrice di temperamento, nella sua voce scorrono i caratteri di una passionalità genuina, al servizio del desiderio di un teatro in grado di imprimere al pubblico un quesito, un tentativo di profondità. D’altronde il tema scelto si presta ad un atteggiamento di ricerca: il termine duende ha equivalenti in tante culture ma poche traduzioni puntuali, eppure tutti coloro che hanno provato a vagheggiarne l’idea sono riusciti a formarsene un’immagine più o meno costante. Il duende, come lotta per la comunicazione dell’espressione, nel linguaggio poetico si fa carico di caratteri mortali. Per questo si trova facilmente in Spagna, paese in cui, di fronte alle manifestazioni della morte, piuttosto che chiudere le tende stretti in un dolore privato, si spalancano le porte, in un atteggiamento disponibile all’attraversamento pubblico della sofferenza. Il duende è in una posizione liminale, ama il bordo della ferita, cavalca l’abisso come anelito superiore alle sue espressioni visibili. È ineffabile, non si ripete, come non si ripete la forma del mare in burrasca. DUENDE

Spettacolo sincero e dalle tinte delicate e suggestive, forse potrebbe osare un ulteriore salto immaginifico per dare più respiro all’assetto didascalico e posizionarsi in una chiara tensione poetica.

Seconda parte della prima serata, è un buon inizio per la seconda edizione del festival Primavera d’Europa a cura della Piccola Compagnia della Magnolia, a partire dall’esperienza francese del Festival Printemps d’Europe. Anche qui l’obiettivo è ben focalizzato: promuovere il teatro contemporaneo attraverso un circuito europeo, in un’ottica di condivisione e abbattimento degli steccati culturali. D’altronde, per giungere ad una definizione del sé che non sia monolitica, è necessario aprire al confronto con l’alterità, in un’ottica dialogica di costruzione.

Paneacqua testimonierà, come media partner, dei prossimi spettacoli di Primavera d’Europa/02: tra le compagnie italiane Bottega Bombardini, Piccola Compagnia della Magnolia e Macelleria Ettore e, tra quelle estere, Live Art Society (Finlandia), Sandman (Belgio) Teatr Nowy (Polonia) e Cie Oiseaux Migrants (Spagna/Francia).

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Jeu et théorie du Duende – Federico García… di oiseauxmigrants

Troppo vicino, troppo lontano. Un cabaret doloroso inaugura Primavera d’Europa

Macabra Dolorosa fotoGIULIA RANDONE | Un aperitivo in piazza Conte Rosso, nel cuore medievale della città di Avigliana (Torino), dà il via alla seconda edizione italiana del Festival Printemps d’Europe, nato nel 2008 a Lione. La Piccola Compagnia della Magnolia, curatrice del festival, fa gli onori di casa. Si mangia, si beve, si fanno le presentazioni e gli abitanti hanno l’occasione di conoscere gli artisti ai quali offriranno ospitalità durante la settimana. La conversazione scorre piacevolmente, punteggiata da intermezzi lirici e dai discorsi di Giorgia Cerruti, direttrice artistica della PCM, Renaud Lescuyer, direttore artistico del festival lionese, e dell’Assessore alla Cultura Andrea Archinà.
Ore 20.30. Entrati nel Teatro Fassino ci troviamo di fronte una donna mostruosa, il volto pallido, le labbra e i denti tinti di nero. Per un’ora e mezza sprofondiamo nel bunker del Führer insieme a Magda Goebbels, che avvelena i sei figli per salvarli dalle brutture di un mondo che ha rinnegato gli alti ideali del nazionalsocialismo, e nel buio ci vengono incontro altre madri assassine. Medea è la capostipite, ma sono giovani donne nostre contemporanee a spiegarci perché hanno ucciso i propri figli e a fornirci la ricetta per nascondere il corpo con il distacco di chi spiega come preparare una torta di mele.
Lo spettacolo Macabra Dolorosa, del giovane Teatr Nowy di Cracovia, nasce sulla scia di un caso di infanticidio che ha fatto discutere a lungo la Polonia e che è stato accompagnato da un grande rimbombo mediatico, ma non fa da cassa di amplificazione del pruriginoso linguaggio cronachistico. Se show mediatico deve essere, allora che sia uno show vero e proprio! Il regista Paweł Szarek e l’autrice e interprete Katarzyna Chlebny trasformano la tragedia in un cabaret dark, in uno spettacolo musicale per voce, batteria e pianola articolato in 14 canzoni e monologhi.
Il clima musicale è quello gotico e salmodiante di Nick Cave, ma anche del metal di Marilyn Manson e dell’industrial degli Einstürzende Neubauten. Brani da concerto, balletti meccanici e agghiaccianti confessioni venate di lirismo si succedono creando un impasto organicamente coeso: il riferimento formale degli artisti è la rivista dada ma sulla frammentazione surrealista prevale il filo conduttore della presenza magnetica dell’attrice. Chlebny porta in scena testimonianze omicide attraversando registri linguistici differenti: da quello più immediatamente mimetico evidenziato dall’accento tedesco della Goebbels o dallo slang di una giovane volgare, la voce via via si impasta fino a diventare una maschera crudele e impenetrabile. Il volto ci appare sempre distante, le pupille quasi acquose dell’attrice non si lasciano sondare, ma con movimenti a metà tra l’artista del burlesque e la baba yaga, Chlebny cerca di attirare a sé il pubblico, ad esempio invitandolo a partecipare alla ricerca della piccola Helga, l’unica dei figli di Goebbels che tenta di sfuggire alle grinfie della madre.
In questo vaudeville angoscioso e orrifico costruito sul bisogno di amore e sull’impulso all’odio – “ti amo tanto da uccidermi/ti uccido perché ti amo” canta rabbiosamente Chlebny – il corpo e la voce dell’attrice portano alla luce un groviglio di solitudine, frutto di una vicinanza eccessiva e intollerabile della creatura a cui si è data la vita e, all’opposto, della lontananza dall’uomo amato, compagno di letto o idolo da venerare. La Goebbels non è quindi solo la matrona nazista ritratta nel primo quadro dello spettacolo, ma anche una bambina che cerca di colmare la distanza dal suo papà-Führer cercando in tutti i modi di compiacerlo. Lo stesso braccio che si era levato per il saluto nazista, nell’appassionato canto finale Seemann (interpretato sulla falsariga di Nina Hagen) si solleva lentamente nell’aria a cercare qualcuno che non c’è più, fino a essere inghiottito dal buio.

Non è un finale che vuole muovere a compassione per l’assassino, non è in gioco una possibile giustificazione, ma la necessità di provare dolore e stare faccia a faccia con un orrore che è tutto umano e che, come tale, si ripete.

Abbiamo intervistato il regista e l’attrice al termine della seconda replica dello spettacolo:

Teatri di Vetro 2014: avere cura della scena contemporanea è come salvare la natura

leviedelfoolfotoLAURA NOVELLI | Cercando un’immagine, una metafora calzante che accompagnasse la scelta di investigare, ancora una volta e oggi in modo più necessario che mai, i linguaggi della scena contemporanea, Roberta Nicolai l’ha rintracciata nella Botanica, per la precisione in una Lista rossa della flora italiana pubblicata dal Ministero dell’Ambiente in cui si elencano piante e fiori in via d’estinzione per i quali, proprio come per lo spettacolo dal vivo, occorre attivare efficaci misure protettive e – tanto più – forme concrete di cura.

Ecco dunque l’ottava edizione del Festival romano Teatri di Vetro, diretto dalla stessa Nicolai e organizzato da Tringolo Scaleno Teatro, strutturarsi intorno a questa idea centrale della specie protetta e proporre, quest’anno, un nucleo di titoli in parte già rodati e di artisti già noti (eventi in scaletta fino al 23 settembre) capaci di raccontare in modo emblematico le ultime generazioni della nostra scena. Tra le realtà teatrali presenti in scaletta figurano, ad esempio, Menoventi (L’uomo della sabbia), Clinica Mammut (Il sordo rumore delle dita), Punta Corsare (Il Convegno), Civilleri/Lo Sicco (Tandem), Opera (XX, XY primo studio sulla tragedia di Amleto), Amendola/Malorni (L’uomo nel diluvio), Le viedelfool (Luna Park, do you want a cracker?), Fibre Parallele (Lo splendore dei supplizi), Carrozzeria Orfeo (Thanks for vasellina).

“Ci è sembrato che quanto scritto nella prefazione alla Lista rossa – spiega la direttrice artistica della vetrina – evocasse una metafora perfetta della situazione della scena contemporanea, cioè di due ma anche di tre generazioni di artisti che sono a rischio di sopravvivenza, proprio come certi fiori e certe piante. Inoltre, mi ha particolarmente stupito il fatto che nel documento ministeriale si parlasse esplicitamente di flora mediterranea. In effetti, confrontando la nostra realtà con quella di  altri Paesi europei, mi rendo conto di quale gap enorme ci separi dai modelli culturali stranieri, soprattutto in termini di strumenti, mezzi, luoghi. In Italia mancano spazi di progettualità; non intendo dire edifici, ma case degli artisti che possano essere punti di riferimento per loro e per il pubblico. Bisogna capire che la precarizzazione del nostro sistema produttivo non solo non rispetta gli artisti, non li rende cittadini, ma ricade anche sugli spettatori”.

Tanto più che questa edizione 2014 della rassegna (www.teatridivetro.it) nasce proprio all’insegna di un trasloco: dai consueti Teatro Palladium e quartiere Garbatella la ricerca di luoghi e di spazi per ospitare la creatività si sposta per lo più a Monteverde, trovando nel teatro Vascello e nel Teatro Scuderie Villino Corsini (con incursioni pure alla Fondazione Volume, alle Corrozzerie n.o.t. e al Moll Living Lab) nuovi approdi tutti da sperimentare. Una novità certamente significativa “che ha comportato un modo diverso di ubicare gli spettacoli e alla quale si connette poi un nuovo modo di concepire e strutturare il festival. Per la prima volta, non ho fatto un avviso pubblico come nelle precedenti edizioni. Di solito visionavo una quantità considerevole di materiali e per anni mi sono dedicata a una visione bulimica di quanto ci veniva proposto, stratificando una profonda conoscenza della scena contemporanea; quest’anno invece, proprio come nei traslochi in cui non si può portare tutto, ho selezionato ciò che mi è parso necessario e ciò che nel tempo ho seguito più da vicino, anche per verificare a che punto di ricerca questi artisti siano arrivati. Mi sono assunta la responsabilità di certe scelte e ho superato la logica del debutto a tutti i costi”.

Ciò non riguarda ovviamente solo il teatro ma anche linguaggi come la musica, la performance, la danza e risulta difficile sintetizzare le differenti estetiche espresse dagli artisti invitati a partecipare. “Non posso sintetizzare  che tipo di ricerca e di estetica venga fuori. E’ vero che la nostra epoca cerca proprio la sintesi, ma io rivendico l’opposto. Piuttosto, mi preme dire che, al di là del linguaggio specifico, in ognuna delle proposte in cartellone trovo uno scarto, qualcosa che non vuole e non può esaurirsi sul  palcoscenico, che lascia un resto in potenza, che apre una possibilità di crescita per il pubblico. Ognuno di questi gruppi impegna il palcoscenico in modo diverso: in molti il teatro è un campo di indagine sul teatro stesso, in altri tale tipo di curiosità non esiste assolutamente. Ma la vera ricchezza di Teatri di Vetro (collegato, tra l’altro, a reti nazionali come Network drammaturgia nuova e Inbox, ndr) sta proprio nella voglia di mettere insieme una lista di ricchezze apparentemente incompatibili che lavorino tutte per lo stesso obiettivo: indagare cosa significhi il contemporaneo. E indagare non significa dare risposte”.

Dare risposte no, ma guardare al passato certamente sì: all’interno del festival prendono vita dei momenti di incontro incorniciati dall’ossimoro Effimero/permanente e curati da Graziano Graziani (per il teatro) e da Anna Lea Antolini (per la danza) che nascono come riflessione sulla scena di ieri al fine di leggerla come punto di partenza per i gruppi più giovani. La scelta è caduta su Danio Manfredini e Virginio Sieni, due grandi artisti il cui lavoro dovrebbe tradursi in eredità permanente per chiunque oggi decida di fare l’artista. “Questo sguardo rivolto indietro nel tempo – conclude Roberta Nicolai (anche presidente di C.Re.S.Co.) – lo considero cruciale. Non è un caso che all’interno dell’appuntamento con Manfredini abbiamo deciso di presentare venti minuti di Al presente, uno spettacolo di sedici anni fa che  tutte le ultime generazioni di teatranti dovrebbero conoscere profondamente. Purtroppo però in Italia la tappe tra generazioni artistiche diverse sono spesso in opposizione;  non c’è trasmissione né rottura di una passato perché non lo si conosce, non lo si eredita. Credo sia un punto dolente della nostra scena contemporanea: in molti casi si cerca di operare un tradimento privo in realtà di qualcosa da tradire”.

“StArt up teatro” intervista a Gaetano Colella: a Taranto una riflessione sul contemporaneo

MARIELLA DEMICHELE | Basta una passeggiata sulla costa occidentale Unknown-1di Taranto, osservare le imponenti strutture metalliche delle raffinerie che si ergono sul mare come scheletri di animali fantastici, corrosi dalla ruggine e dalla salsedine, per capire l’entità delle ferite inferte ad un luogo che per la sua felice posizione geografica, fin dall’antichità è stato sempre considerato speciale. Ancora agli inizi del Novecento – si fa fatica a crederlo – Norman Douglas parlava di Taranto come “di una perla preziosa incastonata su un anello”. Eppure, in questa città oggi tristemente nota per le vicende legate al processo sul disastro ambientale dell’Ilva, pulsano energie vive, fioriscono iniziative che fanno pensare ad una svolta, ad un desiderio profondo di riscatto e cambiamento attraverso l’arte e la cultura. Uno dei centri attorno ai quali si sta coagulando questo nuovo rinascimento tarantino si trova proprio nel quartiere Tamburi, quello più vicino agli stabilimenti dell’acciaieria, lì dove più forte è l’odore di ruggine e bruciato e il “polverino” colora di rosso le auto e le lenzuola stese ad asciugare. Sto parlando del TaTà – acronimo di Taranto auditorium Tamburi – il teatro “abitato” dal 2009 dalla compagnia teatrale Crest. Del lavoro svolto in questi anni sul territorio, dei progetti realizzati nell’ambito della rete di residenze teatrali pugliesi, del programma e delle finalità di “stArt up” – terzo festival teatrale, quest’anno dedicato al tema del contemporaneo e il cui programma definitivo è stato reso noto martedì 9 in conferenza stampa (www.teatrocrest.it/startup-teatro/) – ho parlato con il Direttore artistico del Crest, Gaetano Colella.
“La compagnia è un pezzo di storia di questa città: fondata nel 1977 da Clara Cottino, oggi presidente, e Gianni Sollazzo, è sempre stata fortemente legata al territorio. Al tempo di Mauro Maggioni, in un contesto socialmente e culturalmente difficile, nelle sede storica di via Duomosi esibivano Pippo Del Bono, Marco Baliani, Laura Curino: il Crest era il punto di riferimento imprescindibile per chi si interessava alla possibilità di contaminare i linguaggi della tradizione con quelli della sperimentazione e della ricerca. In quegli stessi anni sono nate le prime collaborazioni esterne con altre compagnie e operatori, coproduzioni, la compagnia ha cominciato a farsi conoscere e apprezzare all’esterno.
Poi è cominciato il lungo tempo dell’erranza: quasi dieci anni senza sede, con spettacoli nati nei posti più disparati. Il tempo in cui, come ricorda ancora Clara Cottino, arrivavano lusinghieri riconoscimenti del teatro nazionale ma la città ci ignorava. L’approdo al quartiere Tamburi, cinque anni fa, è stato per noi l’esito di un percorso fatto di lavoro umile e paziente sul territorio, che ha visto come interlocutori privilegiati i ragazzi, i giovani, gli insegnanti, con l’intento di creare un punto di riferimento professionale e culturale forte. La struttura assegnataci dal bando regionale era l’Auditorium della Facoltà di scienze della Comunicazione: 1000 metri quadrati fino a quel momento mai usati e che andavano ripensati, riorganizzati per affrontare l’esperienza della residenza teatrale.
Facendo un primo bilancio del lavoro svolto da noi e dalle altre Residenze in Puglia, si può senz’altro dire che 12 luoghi abbandonati a sé stessi sono rifioriti diventando spazi di aggregazione in cui l’offerta culturale è stata continua; vere e proprie imprese culturali che operano, tuttavia, senza le necessarie garanzie per svolgere un lavoro così complesso e delicato. Ed è qui il nodo di una contraddizione che si fa fatica a risolvere. Diversificando la tipologia dell’offerta riusciamo a raggiungere fasce di pubblico sempre più ampie, anche quelle tradizionalmente lontane dal teatro.
A livello istituzionale, invece, non sempre ci sentiamo riconosciuti per il lavoro che facciamo. Eppure, anche se lentamente, le cose stanno cambiando, perfino nella città “indolente e barocca” descritta dal maestro Peppino Francobandera. Il Festival “stArtup” è un esempio felice di collaborazione con il Comune di Taranto, la Regione, all’interno del progetto internazionale Italia-Grecia “I.C.E. Innovation, Culture and Creativity for a new economy”
Quest’anno c’interessava condividere con il nostro pubblico una riflessione su cosa significhi essere contemporaneo; una categoria che per noi non esprime una valenza temporale ma la capacità di una manifestazione artistica di entrare in comunicazione con il pubblico. È interessante vedere come spettacoli di vent’anni fa – come ad esempio Cafè Müller della Bausch o Titanic the end di Antonio Neiwiller – siano profondamente contemporanei, più di molti altri attualmente in scena che, invece, rompono il patto comunicativo con lo spettatore, provocando distacco, distanza. Secondo noi, invece, il teatro deve costruire ponti, creare occasioni d’incontro, non presentarsi come luogo elitario di esperienze accessibili a pochi. Il Festival accoglierà attività diverse – spettacoli, laboratori di visione, presentazione di libri, incontri e dibattiti – per raccontare il percorso creativo delle sei compagnie della rete di residenze teatrali pugliesi una.net e favorire lo scambio con autori, registi, attori della scena nazionale, coinvolgendo un pubblico che ha fame di stimoli e di spunti di riflessione”. Mentre ascolto Colella mi tornano in mente alcuni passaggi del recente dialogo tra Antonio Latella e Lluís Pasqual alla Biennale di Venezia dedicati al concetto di contemporaneo e penso che l’augurio migliore da rivolgere a “stArtup” sia quello di riuscire a creare nel pubblico quel corto circuito che nasce dalla consapevolezza della propria inattualità rispetto al tempo presente: come ha scritto Giorgio Agamben, infatti, può dirsi contemporaneo solo chi è disposto a ricevere “in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo”.

Natura morta con coniglio: Paravidino à la polacca

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Foto di Krzysztof Bieliński

GIULIA RANDONE | Le luci si accendono sul corpo nudo e coperto di sangue di una ragazza. Un istante di silenzio, poi la scena si affolla di personaggi e si mette in moto il processo investigativo che deve condurre l’ispettore alla risoluzione del caso. Una dopo l’altra si inanellano le tappe dell’indagine: dal ritrovamento del cadavere in un fosso alla periferia di una cittadina italiana, all’identificazione della vittima, una giovane di cosiddetta buona famiglia, dal rito di riconoscimento del corpo da parte dei genitori all’interrogatorio dei primi sospettati. Infine, l’individuazione del colpevole grazie a un testimone chiave e il trionfo della verità siglato dalla foto dell’assassino in prima pagina.
Il Teatro Drammatico di Varsavia si apre alla drammaturgia contemporanea italiana, accogliendo nel proprio repertorio Martwa natura w rowie, ossia Natura morta in un fosso, la pièce di Fausto Paravidino interpretata da Fausto Russo Alesi nel 2001 (regia di Serena Sinigaglia) e recentemente riproposta in una versione corale dalla compagnia torinese Nessun Vizio Minore (vd. recensione https://paneacquaculture.net/2014/04/01/nessun-vizio-minore-e-la-provincia-violenta/).
Anche l’allestimento di Małgorzata Bogajewska si affida a un ensemble di otto interpreti di buon livello che, giocando con le convenzioni del genere poliziesco, creano personaggi dai tratti marcati: l’ispettore arguto e l’aiutante un po’ tonto, la madre amorevole ma del tutto ignara della vita della figlia, lo spacciatore di professione, il giovane sballato, la prostituta cinica e il fidanzato vigliacco si alternano nel raccontare ciò che sanno e nel confidare allo spettatore ciò che preferiscono tenere nascosto. La vittima, Elisa Orlandi, interviene in questo mosaico di dialoghi frammentari e monologhi, per osservare e interagire silenziosamente con gli altri personaggi: in particolare, guarda divertita la madre e l’ispettore Salti confrontarsi con il senso di colpa e la pietà per la sua fine prematura e con il desiderio di capire che vita, in realtà, conducesse.
L’opera non si esaurisce nell’intrigo, negli sguardi sfuggenti e nei gesti sospettosi di una provincia annoiata e violenta ma, nelle intenzioni della regista, aspira a mostrare una incrinatura nel mondo che crediamo di conoscere, una spaccatura che costringa a fronteggiare paure più profonde.
E qui Bogajewska manca il bersaglio. Padroneggia discretamente la materia giallistica, ma non riesce a farci percepire le crepe che si allargano sotto la superficie dell’ennesimo episodio di cronaca nera. Vorrebbe afferrare qualcosa che sta tra ciò che è vivo e familiare e ciò che è incomprensibile, vorrebbe distillare il perturbante dalla morte, ma il suo sforzo si vanifica in scelte stilistiche incoerenti.
Nei materiali promozionali lo spettacolo è presentato come un giallo ispirato allo stile dei film di Guy Ritchie e Quentin Tarantino, e in effetti alcuni personaggi come lo spacciatore su di giri e ciarliero interpretato da Waldemar Barwiński ammiccano al pubblico come emuli del Vincent Vega di Pulp Fiction.
Tuttavia, fin dalle prime scene è un altro segno a richiamare maggiormente l’attenzione dello spettatore: il fondale è coperto da un lungo dipinto raffigurante un groviglio di figure antropomorfe, nude e con teste da coniglio, mentre sul palco si insinuano personaggi secondari, anch’essi con teste da coniglio, che tacciono o ghignano malignamente. Queste creature ibride sembrano uscite da Rabbits, il serial web di David Lynch, ma nello spettacolo questo innesto grottesco suona poco convincente. L’intreccio tra elementi realistici e soprannaturali fallisce del tutto e il personaggio di Elisa ne è la prova: non inquieta, non spaventa, non crea disagio, sembra posticcio.
Ad aggravare l’impressione di ambiguità stilistica dello spettacolo contribuisce la locandina: la madre, che in scena piange la figlia in composti abiti borghesi, è qui una femme fatale in veletta e giacca di paillettes, una Katarzyna Herman la cui raggelante sensualità è una forte leva all’acquisto del biglietto.

Siamo tutti schizofrenici: la pazzia alla luce dell’arte

71-C-m42oAL._SL1500_NICOLA ARRIGONI | Santarcangelo 1996, arriva carico di libri, è un ragazzo che avrà sì e no vent’anni e parla, parla. Cita Marx, estraendo dalla borsa il Capitale, Brecht, ma anche Cesare del De Bello Gallico, piuttosto che Shakespeare… I lineamenti sono aggraziati, la voce chiara, le mani tremano, gli abiti trasandati, ma in quello stile che passa inosservato nella comunità di teatranti… Parte un dialogo, o almeno credo, una conversazione che non ci vuole molto a capire che immancabilmente è monologo, è conversazione che non converte, ma parte per la tangente.

In quei caldi giorni del luglio 1996 con il Festival di Santarcangelo nelle mani di Leo De Berardinis, impegnato a rilanciarne lo spirito di festival per un teatro popolare e di piazza, l’Accademia della Follia di Claudio Misculin era impegnata a mettere in scena Crucifige!, una libera rilettura della passione morte e resurrezione di Cristo, agita e raccontata dagli ospiti del Crt di Cremona e dall’ospedale di Sospiro. Quel ragazzo incontrato al bancone del bar dove si sarebbe svolto lo spettacolo dell’Accademia della Follia venni a sapere aveva interpretato il bambino nella prima edizione dell’Anima buona di Sezuan di Brecht per la regia di Giorgio Strehler. Qualcosa di ruppe in quel bimbo allora giovane adulto e si ruppe nella necessità di eccellere intellettualmente, delle parole e dei libri fece il suo mondo, un mondo franto, spezzato, scisso.
Questo aneddoto – si crede – possa ben rendere il complesso e interessante saggio di Louis A. Sass, Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni (Rafffaello Cortina Editore, pagine 492, euro 32). «La natura della follia è stata concettualizzata come una riduzione o una sopraffazione della propria esistenza in quanto persone – si legge -, un declino della libertà di azione, della riflessione cosciente e delle qualità intellettuali spirituali che da tempo immemorabile sono state considerate essenziali della nostra natura umana. Parafrasando il filosofo Ludwig Wittgenstein, essa è nel nostro linguaggio, e il linguaggio inesorabilmente la reitera». Follia e modernità si occupa di schizofrenia e lega la caratteristica di iper-riflessività propria di questa malattia al modernismo in cui diventa assolutamente di primo piano il soggetto, meglio gli aspetti di un osservazione multipla e soggettiva che divengono in un certo qual modo oggettivati. Si pensi ai grandi romanzi capolavoro di Musil e di Joyce. Uno sguardo soggettivo sul mondo oggettivizzato come se quello sguardo fosse realtà. «Nessun autore lo ha espresso meglio del poeta e drammaturgo Antonin Artaud – si legge nella prefazione -. In un brano sconcertante Artaud descrive il suo volto che sembra fluttuare verso l’alto per poi allontanarsi, simile a una maschera o a una ‘membrana lubrificante’ come se la parte più intima di sé si stesse trasformando in oggetto esterno». E dopotutto le testimonianze di pazienti schizofrenici raccontano come questi dicano di sentirsi morte eppure ipervigili.
Questa condizione dello schizofrenico può diventare metafora, ma forse può essere lo status dell’uomo contemporaneo, è l’effetto deflagrante dell’ironia dissacrante, del relativismo estremo che possono culminare nella paralisi, in una disumanizzazione dilagante, nella scomparsa della realtà esterna a favore di un Io onnipotente e al tempo stesso la dissoluzione di ogni senso di identità. Follia e modernità è un monito, offre uno sguardo lucido, disincantato sulla follia e la nostra contemporaneità e lo fa indagando ponendo la follia schizofrenica a confronto con le opere di artisti e scrittori tra i quali Giorgio De Chirico, Marcel Duchamp, Franz Kafka, Samuel Beckett e prendendo in esame il pensiero di Friedrich Nietzsche, Maartin Heidegger, Michel Foucault e Jacques Deridda. Ben esprime questa nostra condizioni di morti viventi nella realtà in disfacimento Robert Musil: «E’ sorto un mondo di qualità senza uomo, di esperienze senza colui che le vive. Probabilmente la decomposizione del rapporto antropocentrico che per tanto tempo ha posto l’uomo come centro dell’universo è giunta finalmente all’Io, perché l’idea che l’importante dell’esperienza è viverla, e dell’azione il farla, incomincia a sembrare un’ingenuità alla maggior parte degli uomini». E questa la dice lunga del nostro essere nel mondo soggetti attivi, oggi forse più che mai siamo ridotti a meri riguardanti, a io iper-riflessivo, a sguardo distaccato e estraneo su un nostro essere funzionale in balia a tempi e spazi che non sono dettati da noi ma chi vengono dettati…
Louis A. Sass, Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni, Raffaello Cortina Editore, pagine 492, euro 32.

Nei meandri boscosi del Sogno

GIULIO BELLOTTO | 10580937_318635584963753_5948745514806530445_oL’ultima luna d’estate, così si chiama il festival par excellence del teatro in Brianza, che grazie al lavoro prezioso di Teatro Invito porta nella zona del parco di Montevecchia e della Valcurone artisti provenienti da tutt’Italia e attira una schiera di spettatori da Monza e dalle aree limitrofe. La manifestazione, sviluppata su più comuni, si dichiara promotrice di un teatro “popolare di ricerca” ovvero si propone come luogo d’incontro tra il vasto pubblico e l’essai artistico nazionale.

Agli spettatori finora intervenuti spetta il compito di valutare se questa promessa sia stata mantenuta o meno, ma quindici giorni l’anno (per questa 17° edizione dal 23 agosto al 7 settembre) in cui un’intera provincia si anima di rappresentazioni teatrali di ogni genere, dalla lettura scenica al teatro di narrazione alla commedia al recital al teatro di prosa, ci sembra comunque un successo di cui andare fieri.

Fin dalla nascita, L’ultima luna – in origine chiamata significativamente Teatro e cascine – è stata articolata secondo una struttura particolare, già collaudata all’interno di un certo tipo di teatro d’avanguardia: il festival è itinerante e si avvale di ben 26 architetture in cui i 32 spettacoli del 2014 sono ospitati e alle cui specificità vengono adattati. Questa formula, che presenta non poche difficoltà logistiche e tecniche, si rivela vincente in quanto coinvolge il territorio in un fermento ormai molto sentito dagli abitanti, sopratutto quando gli spettacoli si prospettano inconsueti, accattivanti novità.

E’ questo il caso del Sogno di una notte di mezz’estate, una coproduzione di BIS – Brianza in Scena (che riunisce le compagnie Teatro Invito, Scarlattine Teatro e Piccoli idilli) in scena il 2 e 3 settembre a L’ultima luna. La commedia ingenera grande entusiasmo nel nutrito pubblico grazie alla curiosa combinazione di una rappresentazione itinerante all’interno di un festival esso stesso itinerante. Lo spassoso gioco metateatrale del testo viene magistralmente reso soprattutto dal personaggio di Bottom, interpretato da Stefano Bresciani.

Si applaude innanzitutto la più nota commedia di Shakespeare, un meccanismo perfettamente congegnato dove ben sette trame s’intersecano in un gioco di sovrapposizione tra onirico e reale; si apprezza la resa linguistica curata da Luca Radaelli che nel duplice ruolo di traduttore e regista – nonché direttore artistico del festival – è capace di mantenere in italiano la rima e la metrica del testo originale regalandoci peraltro alcuni raffinati divertissement molto apprezzabili come la resa di Bottom in “signor Fondelli, stalliere”; si gode della bellezza del contesto che ospita lo spettacolo, il vasto parco di Villa Greppi (sede del Consorzio Brianteo) che per l’occasione svela alcune delle aree boscose abitualmente chiuse al pubblico. La più evidente peculiarità della messa in scena è la formula itinerante, un viaggio dentro l’opera shakesperiana che talvolta sembra una vera e propria visita guidata attraverso il dramma, reso giocosa festa popolare in cui alberi, sassi e sentieri acquistano nuova dignità di spazio scenico.

Gli spettatori vengono privati della rigida e rassicurante separazione tra palco e platea, senza poltrone numerate dove sedersi comodamente devono seguire gli attori nel progredire delle scene, una corsa ponderata il cui dinamismo è evidenziato dalla fisicità degli attori liberi di muoversi nello spazio aperto. Per entrare nello spirito della pièce e per capirne il senso profondo e originario che lo spettacolo cerca di far emergere è necessario accettare, condividere e infine vivere questo modus per due ore: attori che toccano, fendono la folla e abbracciano gli astanti, camminate nel bosco durante lo spettacolo, momenti per riflettere sulla scena appena vista mentre i più piccoli tra gli spettatori corrono intorno alla processione. Il pubblico entra a far parte dello spettacolo, lo correda e completa confondendosi col teatro stesso – inteso come luogo, ma anche come tempo, di finzione; esattamente come in un sogno, ponte tra il vero e l’immaginifico.

Questo allestimento del Sogno di BIS prevede fondamentalmente due tipi di scenografia a corredo dello spettacolo: la signorile costruzione della villa a rappresentare Atene e la selva abitata dalle creature fatate. Esse sono le prime ad accogliere gli innamorati ateniesi persi nella foresta, metafora della follia degli umani sentimenti e del groviglio di passioni intersecate da Shakespeare: l’amore felice ma fragile di Lisandro ed Ermia, vagheggiata da Demetrio che non corrisponde l’amore infelice di Elena. Tra le fate spicca Puck il buffone, interpretato efficacemente da Francesca Cecala, attrice in grado di rendere la follia e la giocosa fedeltà del folletto con pose svolazzanti e un azzeccato farfugliamento che assurge a cifra comica ma inquietante del personaggio. Tutta questa corte di personaggi gimcana intorno al pubblico appena congedato dalla reggia di Teseo ed entrato nella foresta proprio attraverso un ponte, un simbolo come abbiamo visto assai significativo.

Tuttavia al di là dell’importanza del luogo scenico, le cui peculiarità sono accuratamente studiate, sfruttate e in definitiva fondamentali per la riuscita della messa in scena, ci sono anche altri aspetti interessanti da sottolineare a livello di regia. In primo luogo la scelta degli interpreti che riprende un’interpretazione dell’opera secondo cui i personaggi di Teseo e Oberon e di Ippolita e Titania, signori di due mondi antitetici e complementari, sono interpretati dai medesimi attori; la novità è qui rappresentata dalla scelta dei costumi, laddove il bianco simboleggia il formalismo ateniese e il nero delinea i selvaggi istinti del mondo onirico delle fate.

A completare questo quadro animalesco, costellato da riferimenti a sensualità e sessualità che la regia e la recitazione non nascondono affatto, è messa in evidenza un’impostazione decisamente classica. Al punto che il riferimento al teatro antico diventa trait d’union tra la magia del sogno e la miope concretezza della forma mentis ateniese, basata sulla sterile logica del pensiero umano. Così il prologo che vede Demetrio accusare Lisandro per l’amore che Ermia gli riserva si sviluppa in modo frontale e ricorda la resis del teatro greco. La scelta di utilizzare un vero e proprio coro di danzatrici/cantanti per interpretare le fate al seguito di Titania rispecchia la volontà degli artisti di collegare enigmaticamente i due aspetti dell’esperienza umana: fantasia e realtà oggettiva. Allo spettatore attento ciò suona come una sorta di rassicurazione: gli slittamenti di senso non sono veri ma fanno parte della finzione teatrale.

Ma l’angoscioso mistero, molla di tutta la pièce, resta intatto, caro pubblico. Se la finzione si confonde così in profondità con la realtà quotidiana, tanto da portarvi a Villa Greppi, siete certi di potervi fidare delle parole dei teatranti che state applaudendo?

Fino al 7 settembre, programma su teatroinvito.it

A Short Theatre 2014 spettacoli e performance per cambiare il mondo

unnamedLAURA NOVELLI | Si intitola La rivoluzione delle parole la nona edizione del festival Short Theatre che, diretto da Fabrizio Arcuri e realizzato grazie al supporto organizzativo di AREA06, si svolge nelle prime due settimane di settembre a La Pelanda di Roma con appuntamenti dislocati pure al teatro India e all’Argentina (www.shorttheatre.org;info@shorttheatre.org). Un titolo forte, emblematico, profondamente connesso alla crisi attuale e però caparbiamente proteso a delineare scenari di possibile (possibile?) cambiamento. Lo spiega lo stesso direttore artistico illustrando il ricco programma di una vetrina che, sempre più internazionale e sempre più trasversale, vuole offrire “l’occasione per indagare i meccanismi che possono rivoltare le condizioni del nostro presente, di una crisi così organica che si fa dimenticare: il linguaggio come territorio di costruzione di un nuovo immaginario, che non solo resista al contemporaneo ma tenti di realizzare un futuro, ora e qui”. Un futuro ipotizzabile partendo dunque dalla parola.
Riposizionando l’energia sovversiva della parola – la sua capacità di “dire” il cambiamento – nel perimetro di quel teatro del mondo che, anche laddove fisico e performativo, da sempre ne è una tribuna indomabile. E l’obiettivo artistico sotteso a queste premesse non potrebbe che essere, in ultima analisi, un’esplorazione dell’umano in tempi in cui l’umano vacilla. Perché “essendo l’umano un essere di linguaggio – come scrive Massimo Recalcati nel suo ultimo libro, “Il complesso di Telemaco” – essendo la sua casa la casa del linguaggio, il suo essere non può che manifestarsi attraverso la parola. E’ l’evento della parola a umanizzare la vita e a rendere possibile la potenza del desiderio […].”. Così come a rendere possibile un’eredità che dal passato, dai Padri, diventi linfa per il futuro, per i Figli. Non a caso il lavoro di apertura di questo Short Theatre 9, La casa di Eld, diretto da Oscar Gómez Mata e ispirato ad una novella di R.L.Stevenson, giunge a noi dalla Svizzera per proporre uno scambio pubblico tra “gli adulti che siamo e gli adolescenti che siamo stati” che prevede il coinvolgimento diretto di alcuni ragazzi del territorio. Sui legami familiari e generazionali si interroga pure lo spettacolo vincitore del Premio Scenario 2013, Mio figlio era come un padre per me, del gruppo Fratelli Dalla Via (Marta, Diego e Roberto, premiati quest’anno anche con il Premio Hystrio Castel dei Mondi), in programma insieme ad altre interessanti proposte di danza e performance tra cui quelle di Zaches Teatro (Dittico della Visione) e degli spagnoli El Conde de Torrefiel.
Arriva invece da Parigi il regista Joris Lacoste con il suo intrigante progetto L’Encyclopédie de la parole, avviato nel 2007, che si pone l’obiettivo di collezionare un poliedrico archivio di registrazioni sonore, di cui viene proposto al teatro Argentina lo spettacolo/concerto Suite n°1 ABC, con 22 artisti in scena di cui 11 invitati locali, atte a rappresentare e decodificare i meccanismi della comunicazione orale contemporanea (www.encyclopediedelaparole.org). E se i nomi internazionali reclutati nell’ambito di una solida progettualità di scambio che spazia dalla Spagna al Belgio, dalla Svizzera alla Francia (prevista anche una tavola rotonda sulla drammaturgia europea odierna) sono davvero molti, non di meno la scena italiana mostra un’eclettica vivacità: Kinkaleri è in scaletta con una performance incentrata sulla trasmissione dell’alfabeto gestuale (Everyone gets lighter / All!) e un lavoro sulla cultura beat che si intitola Pasto pubblico/ Poesia al telefono; l’Accademia degli Artefatti torna ad una produzione del 2006, Insulti al pubblico di Peter Handke, un testo dove l’impossibilità di recitare, lo sbranamento del dire, la tortura stessa delle parole impedisce l’azione, preparando il nulla, il vuoto; viaggia poi nel mondo pubblico e privato di nove cantanti degli anni ’60 e ’70 Angela Baraldi nel suo The wedding singers realizzato in sinergia con il Teatro della Tosse, mentre Roberto Latini e Federica Fracassi affrontano un’inedita versione de I giganti della montagna (atto I) di Pirandello su regia dello stesso Latini. E ancora: Antonio Latella dirige la compagnia Stabilemobile nella partitura A.H., elaborata insieme con Federico Bellini, che si interroga sul senso e le radici del male partendo dalla figura di Hitler (tema già affrontato dal regista campano in precedenti lavori quale, ad esempio, Faust Diesis); Babilonia Teatri indaga la figura di Jesus come punto di domanda “che non ha risposta. Non una. Non data” in una prima apparizione a firma di Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Vincenzo Todesco; Teatri di Vita porta a Roma il suo fortunato Delirio di una trans populista dedicato a Elfriede Jelinek (ne ho parlato con il regista, Andrea Adriatico, in un’intervista pubblicata il 6 agosto, https://paneacquaculture.net/?s=andrea+adriatico+); infine (ma c’è dell’altro ovviamente) Mariangela Gualtieri regala al pubblico un rito sonoro edificato sulle sue splendide poesie, a partire da quell’ineguagliabile Sermone ai cuccioli della mia specie che ci conduce proprio da dove siamo partiti: la parola come educazione, civiltà, ribellione, eredità umana. Futuro. “Perché – e torno volentieri anche a Recalcati – l’ereditare non è la ricerca di una rassicurazione identitaria. Implica piuttosto un salto in avanti, uno strappo, una riconquista pericolosa”.

Sole, 12 anni dopo: dove sei, mio eroe? La saga dell’abbandono per Valentina Capone

Sole-Valentina-CaponeRENZO FRANCABANDERA | Una piccola tournée nel 2014 quella di Sole, spettacolo ideato, diretto e interpretato per la prima volta 12 anni fa da Valentina Capone: una ispirazione originaria euripidea e un completamento nel 2008, alla morte di De Berardinis, cui l’attrice è stata vicina negli ultimi anni di attività, fra il 95 e il 2001, prima del tragico incidente ospedaliero cui il genio teatrale sopravvisse, ma senza più riprendere coscienza, restando in coma fino al 2008.

E’ proprio il tema della solitudine, dell’abbandono, quello che la Capone mette al centro della ricerca, un abbandono che ha a che fare, o almeno dovette averlo in origine senz’altro, con il distacco umano, artistico, emotivo dalla figura di riferimento.

E lo spettacolo effettivamente riprende molti codici che fecero del teatro di Leo un caposaldo per una generazione di giovani interpreti, come ad esempio la capacità di rileggere lo spazio del tragico entro i confini di una satira irridente e contemporanea. Come non ricordare le battute iniziali di quel “Totò, principe di Danimarca” che Leo interpretò con attori che ancora calcano i palcoscenici italiani, fra cui, nella seconda edizione, proprio la Capone, in cui il regista interprete irridente diceva:”Che ridete, che ridete? Amleto è una tragedia!”.

La Capone con quello stesso sguardo, immaginando figure dalla sessualità ambigua e dall’umanità zoomorfa, portò in scena un remake contemporaneo de Le Troiane, che poi si completerà a sei anni dalla sua ideazione, in occasione della morte di De Berardinis, ripreso quest’anno, a sei anni dalle ultime date, che valsero nel 2009 il premio ETI – Olimpici del teatro.

E’ Teatro Libero di Milano che riprende Sole, rimettendolo in produzione e facendolo circuitare, con un’ultima data per la stagione estiva 2014 proprio ad inizio agosto nel teatro milanese.

Che sapore ha il tutto a 12 anni dalla sua creazione?

Sicuramente, pure in una teatralità che appare per certi versi, come ovvio, datata, continuano a vivere, e con forza, alcuni momenti di particolare intensità, che paradossalmente sono quelli del distacco dalla lezione del maestro, quelli del percorso solitario, che culmina proprio nella visione più forte, con l’attrice che nella sua nudità e i capelli sciolti, approcci a, con le braccia chiuse al seno, il proscenio, per una dichiarazione d’amore all’eroe lontano, una dichiarazione contemporanea, metropolitana, fatta di nottate e sigarette, di luci della ribalta spente e di interni privati.

In un melange di tragico, indagine sul corpo e sulla maschera, di ricerca sulla doppiezza fra ciò che appare e ciò che è sostanza, muovendosi fra i pochissimi elementi in scena, se si fa eccezione per qualche richiamo alla figura del guerriero andato e alle maschere di Stefano Perocco Di Meduna (un rimando a certa iconografia del maestro), il tutto si svolge in un buio squarciato dalle belle e precise luci di Stefano Stacchini con le musiche di Alessandro Rinaldi.

Ci resta la sensazione di una compattezza estetica maggiore rispetto a ciò che arriva sul piano drammaturgico. Le epifanie grottesche che emergono dal buio, infatti, ad alcuni giorni di distanza, restano in memoria, confermano l’impatto visivo forte della ricerca, e che prevale, sotto certi aspetti, sulla parola e su quello che del recitato resta.

Ecco che forse, un destino utile e possibile di questa ricerca, nel suo rileggersi nel tempo e negli anni, potrebbe essere quello di ricavarne anche un più breve, ma più icastico, momento performativo sul tema dell’abbandono, di cui restino alcune parti essenziali del recitato e dell’agito, per una rilettura della memoria capace di farsi sintesi, lacerazione, ode di commiato, lo spazio di un taglio, di una cesura, forse senza più un sole ad illuminare.

“Teatro di Terra”, le Ariette a convito a Torre Guaceto

arieVINCENZO SARDELLI | Ci sono format artistici che sembrano creati apposta per certi contesti. È il caso dello spettacolo Teatro di Terra, che abbiamo visto a Torre Guaceto sulla costa brindisina: natura, teatro, musica e cibo nei cortili dei contadini della Riserva. È il progetto Nelle case del Parco, giunto in questo agosto 2014 alla XIV edizione, curato dalla Compagnia Thalassia di Mesagne.

Ospitalità e conversazione. Polenta, bruschetta e formaggio. Peperonata, anguria e vino. Il cortile della casa bianca di Pinuccio Bellanova è lo scenario ideale per Paola Berselli e Stefano Pasquini, contadini-attori emiliani della Compagnia delle Ariette, in scena con Maurizio Ferraresi.

Lo spettacolo è ritrovo conviviale. Dopo gli applausi, si mangia.

Il cibo è rito, relazione. Servito al pubblico dagli stessi attori, il cibo non solo conclude, ma dà anche il via alla messinscena. Spicchi di formaggio, come quello che Odisseo si aspettava da Polifemo in nome dell’ospitalità cara agli dei. E mandorle, sinonimo di rinascita e saggezza, segreto e fecondità.

Piatti brindisini. E cibi della terra delle Ariette, associazione che dal 1989 produce e promuove anche cultura teatrale. “Ariette” è un podere in collina, 2,8 ettari di terra in pendenza lungo la Valle del Marcatore, sopra Bazzano, dalle parti di Bologna. Qui i campi hanno un nome, come le persone: Ariette, Due querce, Inferno, Purgatorio, Paradiso. Anche questa è convivialità. Come le storie che gli spettatori ascoltano, disposti a semicerchio, intorno a una scena che è terra e pollaio, paiolo e fornelletto a gas. E polenta, preparata durante lo spettacolo a segnare il tempo. A dare il ritmo. Lento. Solenne. Come il movimento della “cannella”, l’enorme mestolo di nocciolo che serve a mescolare. Come il vomere per rivoltare la terra.

Teatro di terra è agape, intreccio di esistenze e parole. «Non si può essere contemporaneamente ciò che si è e ciò che si è stati». Inizia il tempo di una trasformazione. Proprio come il mais, che si tramuta in polenta.

Il cerchio di terra al centro della scena è vita. Vita da cui si nasce e polvere cui si ritorna. Ma un ciclo può anche chiudersi in modo innaturale. Come lo sparo del G8 di Genova che spense la vita di Carlo Giuliani, ed è una delle prime istantanee dello spettacolo.

Sono racconti di morte, amore e abbandono. Emozioni di un teatro civile. Sono storie di semi e di carote. Cadenze di vanga e rastrello. E una terra che è dono e sudore. Citazioni colte, da Pessoa a Wim Wenders, da Tom Wait a Patti Pravo. Chiusura pirotecnica di popcorn cotti in padella, saltellanti come lapilli, e stelle filanti luminose nelle mani degli attori.

Uno spettacolo sulla terra non poteva che essere umile, artigianale. Forse un po’ slegato drammaturgicamente. Forse perfettibile nella regia di Stefano Pasquini. Ad esempio, come fa lo spettatore a capire che la genesi dello spettacolo coincide con i fatti di Genova del 2001, e che il riferimento a Giuliani fu considerato dalle Ariette un atto dovuto?

Ma qui, proprio, conta il cuore. E la verità di tre figure che si presentano in canottiera intima, con naturalezza quotidiana. Con i segni della pelle arrossata dal sole. E l’inflessione emiliana così reale, più pulita della dizione impostata dei teatranti.

Quando la riflessione sulla scena si fa struggente, ecco la capacità di smorzare: un naso da clown, una barzelletta, palloncini multicolori. Perché «non c’è impero o ideale che valga un solo pupazzo di neve».

Le lacrime di un annaffiatoio sulla parrucca di Paola Berselli, le miserie umane, non turbano la natura, l’alternarsi di lavoro e riposo. Scopriamo che persino strappare a pezzettini una banconota può essere un buon affare.

Mai smettere di sognare, ci dicono le Ariette. Male che vada, ci mangiamo su. Una spianata di polenta, profumi d’olio, parmigiano e rosmarino. E un buon rosso. A scacciare la malinconia. A brindare insieme, con allegria.