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venerdì, Maggio 9, 2025
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Venti donne, settemila bambini e Antigone: Parole e Sassi

parole e sassi locandina

LAURA NOVELLI | Puglia. Due anni fa. Mentre sono in vacanza, Letizia Quintavalla e Rosanna Sfragara maturano l’idea di dare vita ad un progetto femminile che traduca l’Antigone in uno spettacolo adatto a bambine e bambini di età compresa tra gli otto e i dieci anni. Nasce così “Parole e Sassi (la storia di Antigone in un racconto-laboratorio per le nuove generazioni)” e nasce così il Collettivo Progetto Antigone che, coagulando intorno a sé diciannove attrici di Regioni diverse, inaugura una nuova modalità di pensare e di agire il teatro-ragazzi e, nel contempo, disegna i lineamenti di una piattaforma artistica di sole donne chiamate a lavorare insieme su e per uno spettacolo che è molto più di un semplice spettacolo. Tra le promotrici e artefici dell’iniziativa vi è anche Patrizia Romeo, attrice della compagnia romana Psicopompo Teatro, calabrese di nascita e studi al Piccolo di Milano, che in questo progetto figura nel team deputato all’ideazione e alla drammaturgia (insieme con le stesse Sfragara e Quintavalla, anche direttrice artistica, Agnese Scotti e Renata Palminiello) ed è interprete “incaricata” per il Lazio. “La nostra iniziativa – racconta – cuce insieme diversi obiettivi: innanzitutto si tratta di mettere in sinergia tra loro attrici per lo più precarie e di accogliere l’invito rivolto dal Movimento l’Italia non è un Paese per donne facendo un atto culturale che risponda a questa provocazione con una tragedia. Una tragedia, appunto, che si interroghi sul femminile, sul rapporto tra donna e potere, sulla relazione tra fratelli e sorelle, e che sia proposta nelle scuole primarie come arricchimento dell’offerta formativa ed educativa dei giovani alunni”.

Nel primo anno di vita (maggio 2012/giugno 2013), lo spettacolo è stato infatti presentato a ben 360 gruppi classe di tutta Italia (restano ancora escluse l’Umbria e il Molise) ed è stato visto da oltre 7000 bambini, anche da quelli che vivono in paesi molto piccoli o che frequentano le pluriclasse delle località di montagna. Sono poi arrivati gli inviti a partecipare a diversi festival, a replicarlo nella Casa Circondariale di Montorio, nella aule di Filosofia dell’università di Verona, fino all’importante riconoscimento dell’Eolo Awards 2013 come migliore Progetto Creativo. Ma certamente il vero successo di un progetto di questo tipo si misura proprio nel lavoro a scuola: in ciò che suscita nei piccoli, nelle opportunità che esso offre di ragionare insieme su temi “enormi” quali la fiducia, la sfiducia, l’obbedienza, la disobbedienza, la vita, la morte, il femminile, le relazioni familiari. “Il lavoro – riprende l’attrice – si presta ad un gruppo classe composto al massimo da 25 bambini e prevede 45 minuti di teatro e poi altrettanti minuti di laboratorio. I piccoli spettatori riflettono, fanno domande, ci aiutano ad aprire nuove prospettive sulla tragedia stessa. Per me è stata ed è un’esperienza eccezionale. Non avevo mai recitato per un pubblico di bambini e devo riconoscere che essi sono degli ascoltatori formidabili. All’inizio ero molto preoccupata di come potessero reagire di fronte a tematiche forti e invece mi hanno stupita. Sono più maturi emotivamente di quanto pensassi e fanno emergere aspetti che non sono poi così scontati”. E sono così tanti e belli e significativi i pensieri dei piccoli spettatori raccolti a margine delle numerose repliche di questo lavoro. Così tanti e belli e significativi che sono stati anche inseriti in un diario di bordo a firma di Marina Olivari. Leggendone alcuni, si nota chiaramente come i bambini abbiamo apprezzato in primo luogo la semplicità dell’allestimento, la forza di un racconto che, come indica il titolo stesso, fa leva essenzialmente sulle parole e su dei sassi, usati come personaggi ed elementi scenici. Le parole che li colpiscono e li affascinano arrivano da Sofocle ma non solo. “Lo spunto per lavorare su questa tragedia ci è venuto dalla pubblicazione del libro per ragazzi La storia di Antigone raccontata da Ali Smith, ma poi siamo tornate a Sofocle, tanto che buona parte del testo rimane fedele all’originale, con inserti di Anouilh per il prologo. Ma ci tengo a dire che è un lavoro in continua evoluzione e che a questa evoluzione concorre l’apporto di tutte le partecipanti al Collettivo. Crediamo molto nel progetto e in questa modalità di lavoro, e non potremmo aderirvi senza una condivisione totale degli obiettivi. Quando ci ritroviamo insieme per delle residenze laboratoriali mettiamo a fuoco cose sempre nuove e c’è tanta voglia di crescere”. Così tanta che nei prossimi mesi il Collettivo potrebbe aprirsi anche all’estero: “Parigi è già entrata nella rete, e forse presto potrebbero entrarci realtà portoghesi, rumene, belghe. Abbiamo dei contatti ma è ancora prematuro parlarne”. Ovviamente, in estate l’attività si ferma, mentre non si ferma il “pensiero” intorno al progetto (e, anzi, ben vengano vacanze feconde come quelle pugliesi di due anni fa) e non si ferma l’attività personale delle singole attrici. Romeo, ad esempio, sta lavorando con Psicopompo Teatro (regista Manuela Cherubini) all’allestimento di “Breve racconto domenicale” dell’argentino Matias Feldman, mai rappresentato da noi e forse degno successore, nel cuore della compagnia romana, di Rafael Spregelburd. “Psicopompo – conclude l’attrice – ha un legame molto forte con la drammaturgia argentina. Questo è un testo sorprendente che racconta una domenica in cui sembrerebbe non succede nulla: quattro persone, due coppie, parlano semplicemente dei loro pensieri, dell’amore che finisce, e lo fanno in modo disincantato, ironico, nuovo, preparando un finale a sorpresa che non svelo. L’idea distributiva sarebbe quella di fare delle tournée cittadine portando lo spettacolo una volta a settimana in spazi diversi della medesima città. Ma, anche qui, aspettiamo l’autunno”. Tutto può cambiare. Tanto più a teatro.

In volo su MArte dalla Sardegna

1623710_10204025711068353_4945431254649640025_nRENZO FRANCABANDERA | Si e’ chiusa da poco la kermesse di arti performative MArteLive Sardegna, che si e’ svolta a Cagliari. Dopo la votazione da parte della giuria popolare e della giuria di qualità, formata da Ilaria Nina Zedda, Karim Galici, Marco Peri, Michele Sarti, Anna Brotzu, Enrico Lixia, Alessandra Menesini, Francesca Mulas e Pietro Olla, le diverse sezioni hanno i loro vincitori. Per la sezione Musica, vince Hola la Poyana!, progetto solista di Raffaele Badas. Nel Teatro Alberto Lorrai, con la performance “L’impulso dell’Amigdala” accompagnato dalla figlia Aurora, al debutto come attrice.

Nella fotografia, la vittoria a ben due fotografi, Laura Francesconi e Virgilio Zuddas, con i rispettivi progetti “Vita da cassintegrati” e “Simmetrie urbane”. Veronica Secci, peraltro la più giovane delle artiste in gara, ha vinto per la sezione letteratura con il racconto breve “Come nelle giostre”, mentre l’artista circense Adoliere (Ado Sanna) ha vinto per la sezione Circo, con lo spettacolo “Bersagli”. Premiata anche la compagnia DanzaLabor, che ha partecipato con il progetto fuori concorso “Colorscrostato”, per l’alta e indiscussa qualità del lavoro, offrendo anche a loro l’occasione di partecipare alle finali di Roma. I sette vincitori rappresenteranno la Sardegna a settembre alle finali nazionali MArteLive. Molti giovani artisti in lizza per presentare il loro lavoro e accedere a passi successivi di un evento performativo aperto all’autopromozione dal basso. Forse questa una delle chiavi del successo dell’iniziativa. A coordinarla Karim Galici con il quale abbiamo scambiato alcuni punti di vista ad evento concluso.

MArteLive in Sardegna, a giochi fatti cosa è stata? Una kermesse, un’opportunità, un festival, tutte queste cose o nessuna di queste?

MArteLive Sardegna è stato un festival perché ha richiamato tutte le caratteristiche che coinvolgono i partecipanti in una dimensione eccezionale, di grande coinvolgimento emotivo e percettivo. Gli artisti e il pubblico si sono ritrovati in quel modello wagneriano in cui festa e spettacolo coincidono.

Cosa hai potuto mettere in campo delle tue esperienza manageriali pregresse e cosa invece ti ha totalmente spiazzato e messo di fronte a cose nuove?

Ho messo in campo tutte le mie esperienze manageriali – a partire dai grandi eventi come La Notte Bianca di Roma – ma soprattutto le mie esperienze da regista. Mettere insieme 50 artisti e fare in modo che ognuno faccia emergere il proprio talento richiede un coordinamento creativo.

Dove sta il confine fra una buona e una cattiva organizzazione? Cosa si può migliorare?

Il confine è rappresentato dalle criticità. Una buona organizzazione le anticipa e le trasforma in opportunità, una cattiva le prova a risolvere al momento. Si dovrebbe investire più tempo nell’ideazione e nella pianificazione, per spenderne meno nell’attuazione.

Quanta gente ha condiviso questa esperienza e che pubblico hai avuto?

100 giovani artisti (compresi i tecnici al seguito) hanno coinvolto circa 400 persone di tutte le età. Un bel pubblico eterogeneo che ha unito famiglie e bambini, operatori culturali e autorità, appassionati e semplici curiosi, in un unico clima festoso.

La più grande soddisfazione?

Realizzare un grande evento in poco tempo e con scarsissime risorse. In pochi abbiamo creduto a questo progetto sin dall’inizio e in tanti sono poi voluti salire sul carro dei vincitori: sono soddisfazioni anche queste!

Collezionisti per caso: Reverberi e la sua raccolta informale ad Aosta

Shiraga collezione ReverberiFRANCESCA PEDDONI | Gian Piero Reverberi è un musicista, un compositore e un direttore d’orchestra, il suo mondo è la musica, si potrebbe pensare, ma… 
Gli schizzi di colore sulle tele, il gesto che è diventato ormai un simbolo di protesta e la materia, libera ed espressiva; sono questi gli elementi che raccontano la storia di una stagione informale, di un periodo difficile per tutti quegli artisti, europei, americani e giapponesi, provati da una guerra (la seconda mondiale) che ha lasciato più vinti che vincitori, in una collezione che mai prima d’ora era stata esposta al pubblico: la collezione Reverberi, in mostra ad Aosta al Museo archeologico regionale fino al 26 ottobre 2014.

Si, perché Gian Piero Reverberi è un musicista, un compositore e un direttore d’orchestra, il suo mondo è la musica, ma non solo; a metà degli anni 80’ compra la sua prima opera d’arte, per un motivo molto semplice, arredare. Da questa prima opera in poi scaturisce una collezione per motivi, se vogliamo ancora più banali dell’arredare, come dice lui stesso: “Ho realizzato che era l’unico movimento che capivo. Un’arte istintiva che interpretavo e sentivo senza bisogno dei consigli degli altri. Scegliendo l’arte informale, ho scongiurato in un solo colpo questi due pericoli: non rappresenta nessun soggetto riconoscibile e la tecnica viene spesso etichettata con un classico “potrei farlo anch’io”.

Partendo da questo presupposto le 90 opere scelte dai curatori (Beatrice Buscaroli e Bruno Bandini) si snodano nelle chiare sale del museo con il fine di mostrare nella diversità di stili un’unicità d’intenti degli artisti sia europei che internazionali.

Opere che non stupisce abbiano stregato Reverberi perché, come nella musica, c’è il rispetto delle regole e il loro superamento: opere pittoriche, quasi tutte incorniciate su supporti “classici” ma che parlano un linguaggio che con la pittura tradizionale ha poco a che fare. La protesta, quella di Hartung per gli inevitabili esiti della seconda guerra mondiale, quella di Vedova che sfocerà in violenza dei neri e dei grigi sulla tela. Il culmine pittorico però è raggiunto nella terza sala, in cui spicca un capolavoro di Kazuo Shiraga (tra i fondatori del gruppo Gutai) e la meraviglia è immensa. La forza del colore è travolgente, il rosso forte e violento vibra sulla tela procurando una ferita che è frutto di un gesto indomabile e inevitabile. Il fondo bianco ne converge e ne esalta la luminosità. Con la forza, la potenza della materia e del colore il visitatore diventa uno spettatore inizialmente inconsapevole di un gesto che si mostra già compiuto ma per chi ammira incantato pare avvenuto in quello stesso istante. E non è un caso se lo stesso Reverberi ammetta: “l’olio di Shiraga è il mio quadro preferito, andai a Parigi apposta. E’ il quadro che ho scelto in maniera più determinata e volontaria” .

Dopo la mostra del 2013 su Renato Guttuso e il realismo della seconda parte del 900’ ecco un’altra analisi molto ben riuscita dello stesso periodo dell’informale del museo valdostano, molto bella la collezione e tanti i protagonisti che con le loro opere hanno arricchito uno spaccato importante storia del contemporaneo.

Alle Colline Torinesi una trilogia sull’omosessualità firmata Dante, Malosti e Ricci/Forte

operetta-burlesca-2GIULIA MURONI | Le vite di tutti. Sottotitolo suggestivo per l’ultima recente edizione del festival delle Colline Torinesi, ha mantenuto le promesse. Lo sguardo sulle esistenze non si ferma su un soggetto privilegiato ma accoglie una gamma eterogenea e variegata di anime e soggettività.
L’omosessualità irrompe come tema scottante e straziante, in questa prospettiva che intende dare voce allo stesso tempo alle individualità e alle rispettive peculiarità per restituire uno sguardo lungo sulla collettività nel reale. La trilogia proposta dall’edizione 2014 delle Colline Torinesi comprende “Operetta burlesca” di Sud Costa Occidentale, “Thérèse et Isabelle” del Teatro di Dioniso e “Still Life” di Ricci/Forte, visti rispettivamente al teatro Astra, al Gobetti e al Carignano, in Torino.

Emma Dante, che capeggia Sud Costa Occidentale, fa dell’omosessualità di Pietro, benzinaio, e della sua problematica accettazione nella provincia campana, il nodo cruciale di “Operetta burlesca”. Il protagonista vive il peso di una doppia vita, quella lavorativa e familiare in provincia e il finesettimana fatto di paillettes a Napoli, dove può finalmente dare sfogo alle sue più profonde inclinazioni e sentirsi libero di vivere delle relazioni amorose. Tematiche e motivi cari a Emma Dante, la dimensione del dramma domestico, il labile confine tra la vita e la morte, la meridionalità ingombrante, il tocco poetico della quotidianità sono presenti, sebbene in forma embrionale in una realizzazione scenica che sembra ancora arrancare nella sua completezza, manchevole di quella pienezza espressiva, anch’essa cifra della regista palermitana. Emma Dante, grande regista e acuta osservatrice, non assurge qui alle vette poetiche cui ha abituato, mantenendosi in un mélange colorato, in cui si intravede tra le righe il suo tocco, senza però riuscire a far decollare il pezzo sulla scia di una ispirazione decisa.

Valter Malosti, regista del Teatro di Dioniso, mette in scena “Isabel et Thérèse”, duo femminile, a partire dal testo di Violette Leduc, che racconta in prima persona la liason amoroso-sessuale di due adolescenti, costrette a viversi con il fiato sospeso durante le silenziose ore notturne in collegio, con l’orecchio sempre teso ad avvertire i movimenti della custode. Interpretato da Isabella Ragonese e Roberta Lanave, la narrazione sembra godere del compiacimento del pruriginoso, avvinghiarsi con intenzione in un quadro erotico stuzzicante che scende nel dettaglio dei loro incontri saffici, spinti da un amore ancora acerbo. L’abbandono della tematica in termini civili e politici lascia spazio a una lettura intimista e lasciva, suadente e libidinosa, che nella voce di Ragonese e nel corpo (in particolare la folta chioma) di Lanave trova la sua messa in atto. Una scena essenziale, immersa nel buio, concede cerchi di luce alle due protagoniste, una Ragonese immobile con il libro-diario in mano, e Lanave, perlopiù silenziosa, che affida a qualche movimento e alla sua bella presenza, il compito di sostituire le parole. Nelle file dietro la sottoscritta fioccano commenti triviali piuttosto espliciti, di coloro ai quali non sfugge il portato pruriginoso del lavoro su cui Malosti sembra in effetti calcare un po’ troppo la mano. La scena è affidata, diversamente dal riuscitissimo Quartett, a due interpreti ancora non nel pieno della maturità recitativa, che non risultano del tutto in grado di padroneggiare in toto un testo delicato, dalle mutevoli tinte poetiche, creando una composizione fragile, non efficace, benché contenga elementi di pregio su cui si potrebbe fare leva per dare più ampio respiro e una consistenza più rilevante.

ph: Antonelli

La trilogia sull’omosessualità si chiude con “Still Life” di Ricci/Forte, al Teatro Carignano. Il duo ritorna sul tema dell’omofobia, non per niente lo spettacolo è nato in occasione del festival Garofano Verde, e prende le mosse dall’episodio dell’adolescente romano vittima dl bullismo omofobo, impiccatosi con un foulard rosa,. La vis polemica anima tutto lo spettacolo, in un alternarsi di sentimenti sempre caratterizzati da un’energia dirompente, urlata. Ad esempio la bella scena di Anna Gualdo e Liliana Laera, a cavalcioni sul proscenio, le quali intervallano un dialogo di voci solitarie tra il serio e il faceto riguardo l’essere madri in modo non conformista, tale da far crescere figli non discriminati né discriminanti. Curioso che a proposito di omofobia si dia così con forza l’accento sulla responsabilità materna che pure esiste e ha un ruolo importante, ma che non può certo esaurire le cause dell’omofobia, in famiglia come nella società. Ad ogni modo la scena risulta davvero efficace, di alto livello recitativo. D’impatto la nudità di Giuseppe Sartori, preso a calci dal resto del gruppo e segnato dalle impronte delle loro sferzate. I cinque performers denunciano esplicitamente l’omofobia con l’uso della parola, dei segni del corpo e di un scenografia ricca. Non ci sono mediazioni, né eufemismi: è una guerra e siamo tutti chiamati a smuoverci dall’agio della comodità. I performers stuzzicano il pubblico con la rottura di cuscini enormi e la conseguente invasione di piume, sputando e schizzando acqua sulla platea, in una dinamica di gioco infantile che sfocia nel cameratismo. Scendono a baciare sulla bocca la platea, tra cui anche la sottoscritta. Il vertice emotivo risiede nelle immagini che il duo Ricci/Forte ha accortamente costruito e che costellano lo spettacolo. Scenari di violenza, dolore, amore e sofferenza in quell’inscindibile connubio di amore e morte che in tanti hanno raccontato. È un estetica molto facile, immediata, che non cala in profondità e saccheggia l’immaginario mainstream della moda e della televisione. Questa certa visione spettacolare e un po’ di superficie ha la sua forza nel tradursi in un’ immediatezza e efficacia comunicativa capace di arrivare al pubblico, forse perché sui binari di un ordine estetico già noto.

Francamente me ne infischio e il tema del tempo

imagesRENZO FRANCABANDERA | E’ il terzo tempo il capolavoro. Quella sorta di barbarico yawp, quello della storia d’America fra Otto e Novecento, storia di schiavi e colonizzazioni, di libertà e tribù. Nessun colosseo, nessuna storia millenaria, un’eco lontana d’Europa, ma sullo sfondo, in una brutalità giovane, adolescente, testosteronica e ignorante. Dove comanda una sorta di legge del taglione.
Eppure è la stessa terra che combatte poi con se stessa, che afferma altri valori, che sbandiera un’identità fatta di indiani ed emigrati d’Africa. Insomma di sconfitti. Che piccola grande storia quindi quella di questa casa colonica nella prateria, fra amori, rapporti di forza, nostalgie, case di bambola e Alici nel paese delle meraviglie, mentre lontano i cannoni nemmeno si sentono. E la guerra è da un’altra parte.
Il Via col vento di Antonio Latella, che ha chiuso la trionfale tournee’ 2013-14 coronata di premi e grandi successi con la data al Festival delle Colline Torinesi, e’ forse uno dei grandi, forse pochi veramente imperdibili, spettacoli degli ultimi anni.
Un polittico nelle tinte dell’affresco ottocentesco ma con la capacita’ analitica del nostro tempo, l’epopea coloniale con l’occhio della societa’ postindustriale. Ma senza tecnologia, solo, drammaticamente, con il corpo degli attori, anzi delle straordinarie attrici Caterina Carpio, Candida Nieri, Valentina Vacca, visto che questo e’ un lavoro al femminile, che anche dove racconta il punto di vista maschile, lo fa con una sensibilita’ particolarissima e davvero bifronte, capace, come l’ultimo e più performativo atto, in cui la casa, i corpi, la Storia, si svelano e si ri-velano, prendono vita e si ri-mummificano nel tableaux vivent di una casa di bambole fuori dal tempo, fuori dalla Storia, che invece in altri atti della pentalogia, entra, irrompe, violenta i personaggi.
Raccontare nel dettaglio i cinque atti, la maratona e’ in realtà un compito che forse non ha nemmeno un significato, una portata adeguata a descrivere l’insieme di segni che Francamente me ne infischio regala allo spettatore. E fondamentalmente, anche nel confronto con le altre e più recenti creazioni di Antonio Latella, conferma la sua assoluta inclinazione e forse fondamentale predilezione per un tempo analitico lungo e possibilmente in più elementi. E’ qui infatti che Latella riesce a dipanare meglio la sua poetica, ed e’ una cosa che mancava dal 2008 con il progetto Hamlet, al quale il Festival delle Colline diede all’epoca un importante supporto produttivo.
E qui viene fuori il tema relativamente al conflitto poetica vs produzione che il nostro tempo sta vivendo. E’ vero, anche l’eta’ contemporanea ha avuto i suoi Tolstoj e Dostoevskij che hanno avuto lo spazio letterario delle 800 pagine per raccontare le nostre Borodino, ma sono sempre meno le possibilità e alcuni linguaggi hanno abdicato quasi del tutto a queste opzioni, a queste ampiezze. Il nostro teatro sempre meno offre tali possibilità produttive, pur conoscendo interpreti della poetica lunghezza di primo rilievo.
Il tema che Francamente me ne infischio, come anche L’origine del mondo e altri grandi cicli di affreschi teatrali del nostro tempo fanno emergere, e’ quella di una capacita’ del teatro e anche di una attrattivita’ per il pubblico, per l’approccio di durate analitiche e poetiche ampie. Ma il teatro e’ pronto? Puo’ reggere queste durate dal punto di vista produttivo? Proprio nel tempo i cui i fondi diventano scarsi, la probabilità di andare a teatro e non assistere ad un più o meno triste monologo si va riducendo via via. Ecco quindi che assaggiamo queste occasioni come quando una volta ogni tanto si va al ristorante buono, con quell’incoscienza che hai di fregartene una volta tanto del conto che pagherai alla fine. Ma e’ una possibilità rara. Elitaria. Che gia’ solo per concretizzarsi per i pochi abbisogna oramai anche di rivoluzioni di pensiero e di sistema, di nuove cooperazioni e di ripensamenti di modalità di circuitazione importanti. Siamo pronti a bombardare i campanili per permettere alla qualità di esprimersi? O i ricatti incrociati, la logica degli scambi e dei personalismi che hanno inquinato il nostro sistema negli ultimi anni bloccheranno i nuovi Tolstoj teatrali? Vedremo. Intanto per una volta francamente ce ne siamo infischiati. E abbiamo goduto. Evviva.

VolterraTeatro, la città-palcoscenico dell’invisibile

progetto Logos-la ferita festival VolterrraTeatro 2014MATTEO BRIGHENTI | La ferita divide, VolterraTeatro ricuce. I punti di sutura della XXVIII edizione del festival, dal 21 al 27 luglio a Volterra e nei comuni di Pomarance, Castelnuovo Val di Cecina e Montecatini Val di Cecina, sono i luoghi, le pratiche, le persone.

A fine gennaio scorso, per via del violento nubifragio abbattutosi sulla Penisola, a Volterra sono crollate la strada e trenta metri di mura medievali in corrispondenza della Piazzetta dei Fornelli: undici le famiglie evacuate. Uno sperone di roccia pericolante da giorni è venuto giù un mese dopo nei pressi di Piazza Martiri della Libertà.

Da queste ferite del visibile, sociali, collettive, il Festival a cura di Carte Blanche, con la direzione artistica di Armando Punzo, muove per avvicinarsi alle profondità dell’invisibile, alla Ferita personale, privata, ma estremamente feconda per l’artista che riesca a viverla come occasione di scoperta e ricostruzione. VolterraTeatro rimargina il distacco e la perdita di ciò che non è più stringendo forte le relazioni umane, a cominciare dal dentro-fuori tra il Carcere e la Città.

Nell’Istituto di Pena sempre più Istituto di Cultura la Compagnia della Fortezza continua l’attraversamento dell’opera di Genet: Santo Genet è l’anteprima nazionale della compagnia di attori-detenuti guidata da Punzo, che dopo le repliche in carcere (dal 21 al 25) andrà in scena, sabato 26, al Teatro Persio Flacco di Volterra. Numerose, poi, le creazioni originali e i lavori pensati nella logica del site specific di artisti, poeti, musicisti, chiamati a nutrire e impreziosire la riflessione sul tema della Ferita. Tra gli altri, il Teatro delle Ariette con Teatro naturale? Io il couscous e Albert Camus, un lavoro in cui il passato si intreccia al presente dell’atto teatrale in sé che vive sempre e comunque nella dimensione del qui e ora (lunedì 21); I Sacchi di Sabbia presentano i loro Piccoli suicidi in Ottava Rima – Vol. I e Vol. II, il bestseller dei festival estivi (martedì 22); Michela Lucenti e la compagnia Balletto Civile coinvolgeranno un gruppo di giovanissimi in un lavoro dal titolo In-colume/Volterra, che attraverso l’alfabeto della danza si sofferma sulla mancanza, sulla debolezza, sulla ferita appunto, con la partecipazione della violoncellista Julia Kent (mercoledì 23); Mario Perrotta del Teatro dell’Argine presenta Pitùr, secondo movimento del progetto Ligabue che già lo scorso anno ha fatto tappa al Festival con Un bès, per il quale Perrotta ha vinto il Premio UBU come “migliore attore” (giovedì 24).

Dal Carcere VolterraTeatro scorre nella Città, unita per l’occasione in unico palcoscenico. Venerdì 25 luglio un evento di teatro collettivo metterà in scena il gesto concreto del legare oggetti, luoghi e persone: è La Ferita/Logos-Rapsodia per Volterra di Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni di Archivio Zeta. La compagnia che ha riportato il soffio della vita nel Cimitero Germanico della Futa si è ispirata a Legarsi alla montagna, opera d’arte del 1981 di Maria Lai che coinvolse Ulassai in Sardegna: all’ora del tramonto moltissimi cittadini, con i quali è già stato avviato da tempo un laboratorio teatrale, riannoderanno tanto i fili della memoria, attraverso momenti performativi, partiture musicali e frammenti testuali, quanto i fili del dolore, con un nastro rosso lungo più di 20 chilometri per i luoghi-simbolo di Volterra. Nel frattempo Carlo Infante, esperto di performing media, condurrà un Walk Show (Urban Experience), una conversazione itinerante, un racconto-passeggiata caratterizzato dall’utilizzo di cuffie e smartphone.

Stringerà, invece, la terra con il cielo il Teatro dei Venti che presenta Simurgh, a Pomarance (il 21), Castelnuovo V.C (il 22), Montecatini V.C (il 23) e domenica 27 luglio, con il gran finale del Festival, in Piazza dei Priori a Volterra. Li abbiamo visti recentemente a Pontedera per Era delle cadute: ingabbiati come l’albatro di Baudelaire catturato dai marinai. Qui, però, saranno nel loro ‘habitat’ naturale: il teatro fuori dal teatro, il grande spettacolo di strada.

L’artista, dunque, riflette sul rapporto tra città e cittadini, sul sé degli altri, ma anche sul proprio, sul ricordo del “dopo”, di quello che rimarrà di lui. Così, martedì 22 luglio il cortile del Carcere ospiterà la presentazione, coordinata dal giornalista Massimo Marino, de L’aria è ottima (quando riesce a passare). Io, attore, fine-pena-mai, l’autobiografia di Aniello Arena, attore simbolo della Compagnia della Fortezza; giovedì 24 verrà annunciato l’inedito Progetto di Archivio della Compagnia (1500 ore di materiali video) all’interno del convegno Artista, comunità e memoria – Dialoghi sulla ferita, a cura di Bianca Tosatti.

La critica, dal canto suo, non si limiterà a osservare e testimoniare il Festival, ma si metterà anch’essa in discussione, rivolterà le terre dentro di sé per seminare nuovo futuro. Perciò, mercoledì 23 luglio, sempre nel cortile del Carcere, ci sarà la cerimonia di consegna del Premio della Critica Teatrale ANCT (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro), mentre nella mattinata di venerdì 25 Rete Critica, il network che da tre anni raccoglie diverse decine di siti e blog che si occupano di teatro e che assegna annualmente il Premio Rete Critica, si riunirà per una sessione di lavoro (anche PAC sarà presente all’incontro).

VolterraTeatro è quindi un Festival espanso, una voglia di fare, esserci, di camminare tutte le strade possibili per rifondare la bellezza. Reali e virtuali. Per tutto il Festival, infatti, Simone Pacini/fattiditeatro, tra i 100 esperti di social media più influenti di Twitter, coordinerà un laboratorio interattivo e itinerante per un racconto teatrale innovativo, un’azione di Social Media Storytelling che connetterà l’esperienza artistica alle eccellenze architettoniche, artistiche ed enogastronomiche della città.

Sketches of a Dying Time: l’umanità alla deriva di Raphael Bianco

allo_spazio_tertulliano_la_compagnia_egri_bianco_danza_tom_waitsVINCENZO SARDELLI | Sketches of a Dying Time. Si chiude nel segno della danza la lunga stagione dello Spazio Tertulliano di Milano. Una nota di leggerezza come codice espressivo. Ponderati, improntati anzi a una riflessione amara, sono invece gli scenari raffigurati dalla compagnia EgriBiancoDanza di Torino. Due coreografie di Raphael Bianco, il cui titolo inglese risuona diversamente sinistro:  “frammenti di un tempo che muore”; oppure “frammenti di un tempo di morte”.

Due balletti di circa mezz’ora l’uno. Una danza che unisce classico e contemporaneo, lontano dagli accademismi. Scena spoglia. Arte totale, che combina fisicità e spazialità, corpo, luce, costumi, colori. Una musica che dà il la alle performance, puntigliosamente scelta per dare consistenza alle idee.

Scenari umani in decadenza caratterizzano la prima coreografia, dal titolo The earth died screaming. Incentrata sulla musica di Tom Waits, la danza evoca uno scenario postumano in cui la lotta per un territorio vivibile si fa feroce. Tutti sono animati da una fregola egoistica di sopravvivere. L’uomo è un animale sociale, diceva Aristotele. Ma diventa spietato fino alla ferocia, quando anela a un posto al sole.

Le musiche stranianti di Tom Waits, segnate da clangori, sono suoni distorti, a metà fra il surreale e il rurale. Animano movimenti gracchianti e deliranti, ritmi caracollanti e vuoti adrenalinici.

La cifra perturbante di questa coreografia disegna scenari in cui l’uomo, dimissionario da se stesso, implode nel proprio disagio, naufraga nella precarietà di un pianeta avviato alla distruzione. Vediamo in scena esseri sghembi e disarticolati, schegge di un’umanità alla deriva. Un po’ scimmie un po’ robot, insetti o avatar, i danzatori sono automi spersonalizzati, ingranaggi senz’anima spinti da pulsioni primarie. La scena è nuda, due clivi, pedane semicurve a tratteggiare una mezzaluna che però non si chiude. In mezzo si crea un vuoto, voragine non solo metaforica in cui i protagonisti riparano o precipitano. I performer, i costumi rossi ridotti a brandelli, occhiali da sole che schermano anche l’anima, si divorano e calpestano. Stramazzano, agonizzano. Curvi, bocconi, striscianti, sono creature sbilenche. Sono gobbi automi alienati, di cui sopravvive solo l’atletismo del corpo.

La seconda coreografia, Nowhere?, è una riflessone sulla migrazione umana. Migrazione reale e spirituale. Nowhere? affronta il cambiamento, le lotte per l’affermazione di nuove idee. L’azione danzata, declinata sulla musica di George Deuter, prefigura stavolta la possibilità di una terra promessa. Questa nuova umanità prevede la rinascita dell’anima, la ricerca di nuovi orizzonti in cui ritornano valori come l’amore e l’amicizia, la solidarietà e il gioco di squadra.

La natura rifiorisce sulla scia dello stile meditativo di Deuter: orizzonti da scrutare, luci più intime, musiche più calde. Ballate meno plumbee, di impianto lievemente più dolce, meno schizofrenico, con un uso più rotondo del corpo e un’impostazione del movimento meno estremizzata.

Questa umanità New Age, pan-etnica, differenziata, marca la personalità di ciascun individuo. Guarda al misticismo. Tende a un’ispirazione spirituale e creativa. Il dolore rimane, ma nasce dalla consapevolezza dei propri limiti, non da insoddisfatte brame egoistiche.

La danza più armonica si accompagna a suoni della natura, versi d’uccello, gorgoglii d’acqua, onde, lussureggianti percussioni arcane.

Atmosfere suggestive, misteriose, inquietanti. E un fortissimo bisogno d’amore, prima ancora che d’autenticità. Con questo messaggio ci lasciano i sette danzatori (Elisa Bertoli, Maela Boltri, Francesca Ossola, Alberto Cissello, Vincenzo Galano, Vincenzo Criniti, Cristian Magurano) guidati da Raphael Bianco, assistito alla regia da Elena Rolla. E rimane la sensazione che, quanto vediamo in scena nella seconda coreografia, sia un po’ la cifra umana della compagnia fondata da Susanna Egri: braccia che si tendono al sostegno reciproco; voglia di rinascere insieme dopo ogni caduta. E un’arte davvero globale, dove suono e movimenti sono perfettamente calibrati.

Carullo Minasi? Ragazzi, non è nulla, bisogna solo imparare a pararsi…

BalakaRENZO FRANCABANDERA | Mettiamo che sei un ruspante contadino dalla bella voce della penisola salentina, e che di colpo una grandiosa popstar fa una canzone che assomiglia maledettamente alla tua. Lavorate per la stessa casa discografica. Ti girano. Correva l’anno 1992, e pare fu il figlio ad avvisare il padre. “Papà, papà, ma senti questa, è ugualissima a I Cigni di Balaka!” Fu così che Al Bano Carrisi decise di accusare di plagio Michael Jackson.

Certo in effetti, devono girare. Mettiamo che sei al lavoro, hai lavorato ad un progetto fantastico sulle angurie quadrate per giorni, hai avuto un’idea geniale, l’hai sviluppata, l’hai portata sul tavolo del tuo collega e amico per discuterne assieme, lui si offre di correggerti il lay out del power point, poi lo vedi entrare nella stanza del boss e uscirne con il capo che gli dà una pacca sulla spalla e a voce alta nel corridoio dice: “Eheh che grande idea ha avuto il nostro: le Angurie Quadrate!! Chi ci avrebbe pensato! Beh ora non dite tutti che ce l’avevate nel cassetto, cari miei. La creatività è intuizione”.

Sarà la sindrome dei cigni di Balaka, quella strana sensazione di quando ti sei fatto un mazzo così e poi di colpo ti sembra che arrivi il contraente forte e si faccia la sua mano. Anzi, si fa il punto con le tue carte, che ti ha preso di mano.

Mettiamo che ad esempio sei stato chiamato a gestire un progetto artistico in condominio. Poi il condomino forte capisce che non si cava un ragno dal buco, sa di avere le spalle coperte, manca una settimana alla presentazione pubblica, si rischia il flop, allora chiama un dirigente dello Stato di Bahnanas, dice: ”Senti, già l’altro giorno te l’avevo detto, guarda che se continuiamo così facciamo un fiasco che ci ridono dietro!”. Il giorno dopo esce il programma tanto atteso della rassegna e il tuo nome è scomparso. Zac!

Chiamiamola sindrome dei Cigni di Balaka, chiamiamola come si vuole, ma diciamo che è solo l’ordinaria bassezza del genere umano che affiora, l’homo homini lupus che il mondo dell’arte fintamente evoca come lontano da sé. Perché in questo mondo ipocrita si è tutti amici, colleghi, fratelli.

Ma de che? E’ uguale preciso all’ufficio della multinazionale sul vialone fra Milano e Monza, o alla Apple dove, come racconta il Corriere, per evitare fughe di idee, i dipendenti verrebbero tenuti separati in uffici lager senza finestre, e i colleghi non possono parlare fra loro di quello che fanno, e manco dirlo alla moglie. E per giunta con stipendi da fame e solo per fare curriculum.

Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi sono due persone che hanno avuto il volo radente dei cigni di Balaka, che nel loro percorso, per quanto hanno raccontato di recente, hanno assaporato il triste dolore della fregatura.

All’istante un’emotività pelosissima si scatena in rete, articoli e solidarietà da compagnie che magari poi vai a vedere non pagano i contributi ai loro dipendenti, lettere sdegnate da amministratori di enti in arretrato di due anni con i borderò, che con i loro mancati pagamenti stanno facendo chiudere altre compagnie ormai con l’acqua alla gola, o magari commenti ai post di gente nota per trattare da schifo i collaboratori, ma che davanti alla colossale ingiustizia dei due ragazzi… Eh, che non gli vuoi mettere un like? Un pollice azzurro sulla foto del massacrato di turno? Non parliamo neanche più del caso specifico a questo punto, sia chiaro, ma del caso-tipo, diciamo così.

Tornando invece al caso specifico, onestamente, vorrei dire agli amici Carullo Minasi che capisco il loro dolore personale, che professionalmente penso di aver subito uguali ingiustizie (nel mio vissuto e con il rispettivo calibro), di ugual portata, confermo loro di aver preso la colite dopo un mese dal mio primo contratto di lavoro, quel mal di pancia intorno ai trenta anni che significa che la pacchia è finita, che non puoi mangiare più l’insalata senza scappare al cesso perché ti hanno fatto saltare i nervi. E solo per colpa di quel tale, o di quell’altro tale. Per quel lavoro, quel progetto, per la troppa vicinanza dei cigni di Balaka.

E che no, non penso che la strada giusta siano analisi apocalittiche sulla sconfitta del mondo del teatro intero, sordo dinnanzi alla crudeltà di queste ingiustizie. Penso solo che a chi lavora capiti. E capiti ancora. E ancora. E che sia illusorio il mondo delle solidarietà social. Penso che le sconfitte, i naufragi, i dolori e i fallimenti, le incazzature siano in fondo un ingrediente del vissuto di ciascuno. Che deve al più temprare, ma mai dissuadere dall’istinto animale di fondo. Questo si, questa è l’unica cosa che mi sento di dire. Carullominasi o non Carullominasi. Napoli o non Napoli.
E occhio ai cigni di Balaka! Si, ma anche agli Aristogatti, a Kodafratelloorso e a tutte le fiabette sul mondo buono che non può tollerare queste ingiustizie, fiabe che servono a mala pena a fare addormentare mia figlia di un anno e mezzo. Che a volte ho il sospetto che manco lei ci crede.
Anche Shakespeare lo sapeva, ed infatti c’è differenza fra il finale de La Bella Addormentata nel Bosco o Cappuccetto Rosso e quello di Otello, Amleto o Romeo e Giulietta. “Where are le buone pratiche”, mi pare infatti dica Amleto prima di morire.

“Che si impara da questa storia?”, chiedeva l’altro giorno il poeta. Nulla, solo che nella vita bisogna imparare a pararsi.

Magari la prossima volta starete più attenti, chiederete di farvi un contratto migliore, avrete imparato a prendere le misure di quel gancio che l’ avversario sa sferrare così bene. Tutto qui. Tranquilli, ci siamo passati tutti. Non è successo niente. Funziona così dappertutto.

State solo attenti ad una cosa: al mondo dell’arte e agli artisti, alla finta community delle solidarietà low cost, che ha il deprecabile difetto di voler far la finta morale, di rappresentare la bassezza come lontana da sé, stigmatizzare ma poi girarsi e pisciare sul muro; ora lo sapete: funziona anche lì allo stesso modo. Anzi.

Quindi occhio ai Mi piace! Schiena dritta, e doveri e diritti scritti per bene la prossima volta. E niente insalata per un po’.

Che alla fine non so neanche se Balaka era il nome di un posto o di un tipo che allevava i cigni. Ma fossi stato Jackson mai avrei copiato da una canzone con un titolo così. E infatti, mi sa che alla fine il tribunale gli diede pure ragione. A Jackson.

Dal cunto al canto immaginando la Sicilia

unnamed-1LAURA NOVELLI | C’è come una richiesta implicita di lasciarsi andare a un tempo sospeso fatto di ritmo e parole. Un bisogno di trasmigrare altrove, tra suoni di un’altra terra, di un’altra epoca, in una miscela proteiforme di note e canti e cunti che muovono dalla Sicilia per riconnetterci a un’età semplice e forse perduta. C’è un invito a godere di un dialetto (a volte oscuro eppure avvolgente) che si fa musica, di una ritualità popolare che è di tuti e per tutti, di un passato storico che è nostro, ed è patrio. E’ facile smarrirsi ogni tanto mentre si assiste a I quattro canti di Palermo di e con Mimmo Cuticchio e Ambrogio Sparagna ma è altrettanto facile ritrovarsi, intercettare una propria traiettoria, riannodare le fila di un impasto originalissimo di forme espressive diverse che, partendo da uno dei volumi della poderosa Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane di Giuseppe Pitrè, costruisce una tessitura di musica, canti, narrazione davvero unica. Un esperimento, dunque. Una prova del fuoco. Coraggiosa. Direi eroica. Soprattutto nella misura in cui risulta eroico, in un’epoca come la nostra, parlare per immagini usando appunto solo la forza del dire, una spada di legno, un pupo dalle fattezze antiche e ritmi musicali dal sapore folkloristico.

La scelta poi di far debuttare uno spettacolo così inconsueto in un palcoscenico storico d’eccezione come Villa Adriana a Tivoli (il lavoro è stato programmato infatti nell’ambito dell’edizione 2014 del Festival Internazionale che Musica per Roma, in sinergia con la Regione Lazio, organizza in questa suggestiva area archeologica ormai da sei anni) non fa che alimentare la voglia di immaginazione e di passato.

Cuticchio entra in scena da solo, senza nulla in mano: è solo voce. Il viaggio inizia così, quasi in sordina, con un cunto sul mercato di Palermo, su un addio, sulla luna, e poi poco a poco lo spazio della rappresentazione si riempie di musicisti (Sparagna e gli strumentisti dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica, davvero magistrali nelle loro esibizioni d’insieme e solistiche) e della bella voce della cantante siciliana Eleonora Bordonaro. A metà spettacolo poi un’irruzione sorprendente: oltre settanta persone si alzano dalla platea e vanno a formare il Coro Popolare diretto da Anna Rita Colaianni. Sembrano un rivolo composto di energia e vigore. Canto e cunto si intrecciano, si rincorrono, si rassomigliano. Ma è senz’altro Cuticchio l’anima teatrale di una drammaturgia che (sebbene nel complesso un po’ troppo lunga) indugia volentieri sul racconto, sulla spiegazione, sulla rievocazione architettonica o storica. Ovviamente al centro del dire c’è Palermo. O meglio, Piazza Vigliena: un tempo cuore pulsante della vita cittadina e punto di raccordo dei “quattro canti” (sarebbe a dire, i quattro mandamenti) della città che, rievocata anche come “Teatro del Sole”, sembra funzionare qui come una sorta di “quinta” urbana della narrazione.

Ecco dunque la storia dell’avvelenatrice di mariti che morì impiccata, quella di Giufà magistrato, quella di Garibaldi che libera Palermo, quella – compassata e generosa di immagini – del miracolo di Santa Rosalia durante la peste del 1624. Normanni, arabi, greci, Borboni, garibaldini, soldati, santi, popolani, picciotti, marinai, mercanti riempiono le battute del cuntista facendo evaporare dalle pagine di Pitrè – scrittore, antropologo e medico che, vissuto tra il 1841 e il 1916, raccolse e pubblicò un importante corpus di storie, aneddoti, proverbi, tradizioni, leggende, feste, fiabe, indovinelli, scongiuri siciliani cui si ispirarono anche Capuana e Verga, i padri del nostro Verismo – il ritmo salmodiante e incalzante della vita siciliana vera. Quella che non consiste senza fantasia e misticismo. Al resto ci pensano le note, le voci e la canzoni. E uscendo dall’estesa tenuta dell’imperatore Adriano, ormai buia e assai poco visibile, risulta difficile non pensare a come gli innesti culturali – ambito in cui proprio Adriano, grande amante dell’arte e della filosofia greche, ci ha lasciato una sublime testimonianza – siano spesso atti di un coraggio artistico necessario. Tanto più quando consentono di dare spessore contemporaneo al passato.

Il dubbio amletico? Parliamone davanti ad un mazzo di tarocchi

HamletPrivate-2-640x360RENZO FRANCABANDERA | La cifra di Amleto? Quella per antonomasia? Beh diremmo senz’altro il dubbio. Tanto incatenato il personaggio al suo dubitare, da aver regalato al dubbio il più comune degli aggettivi di giustapposizione: amletico.
E cosa fa un uomo quando non riesce a pensare al futuro senza angoscia, senza quel pensiero di incertezza destabilizzante? Cerca la certezza, la predizione, il vaticinio.
Ecco dunque che un’indagine su Amleto non può prescindere dal dubbio, ma anche dal rimedio all’angoscia, legittimando anche, però, quello spazio di fantasia, di immaginazione, di incertezza positiva che questo porta con sé.
Martina Marti, creativa di origine svizzera e finlandese di adozione, è arrivata così a raccontare e ricordare l’Amleto in una dimensione privata, con una performance, recentemente ospitata dal Festival Il Giardino delle Esperidi in una coproduzione fra ScarlattineTeatro – Campsirago Residenza, Gnab Collective in cui Amleto è un dialogo con un/una cartomante.
Giulietta Debernardi e Marco Mazza, in una sessione di lavoro invernale, hanno lavorato con la Marti a dare immagine, figura, forma fotografica (belli molti degli scatti di Erno Raitanen) al dubbio e alla tragedia shakespeariana. Ne è venuto fuori un mazzo di carte, dove invece che l’impiccato, la torre e la papessa, ci sono il dubbio, la nave, l’amico. Insomma un Amleto da tavolo, con lo spettatore, uno per volta, che si siede con il performer che fa partire una clessidra. In realtà due mazzi diversi per ciascun performer, ciascun mazzo che capta la sensibilità dell’attore che ne è protagonista.

E in realtà a quel punto Amleto sparisce, per farsi dialogo fra lo spettatore e il performer, che inizia a leggere le carte. Ma il cuore della lettura in realtà sono i dubbi. Chi non ha avuto dubbi. Chi non ne ha. Chi non ne avrà. E quindi lo spettatore viene ribaltato, che sia partecipe ed espansivo o magari chiuso e schivo, in una dimensione di incertezza in cui la determinante, come per Amleto, non è quello che decidono gli altri ma quello che sei in grado o no di decidere tu di te stesso e della tua vita.Vivrò a lungo, sarò felice, sarò amato, sarò ricco? Chissà. E certo non è un performer a poterlo dire. Ma in realtà se poi ci si pensa, sono le domande che si fanno magari in molti, e a cui non è dato avere risposta. D’altronde, come ne il Truman Show, sapere la risposta vuol dire far perder fascino al gioco della vita. La vita è bella perché è dubbio. Amleto è immortale per questo. Amleto è la vita. E ogni volta che appare, anche solo in una girata di carte attorno al tavolo, dove le parole di Shakespeare affiorano per 2 minuti scarsi, riesce sempre in qualche modo ad esercitare una forma animalesca di fascinazione. E’ questo che la Marti ha avuto l’intuizione di capire, trasformando lo spettatore in un Amleto alle prese con la scrittura della propria drammaturgia, e con un Orazio personale a fargli da guida spirituale fra segni e simboli che in realtà sono familiari prima di tutto al proprio intuito.

E lo spettatore con un gioco intelligente, è costretto a concentrarsi su quelle immagini, su quei simboli, sulla donna in bilico o sull’impronta della scarpa nella neve, sull’ombrello svolazzante o sull’uomo mimetizzato nella boscaglia. E la provvidenza del passero, quelle parole di Shakespeare che raccontano la caducità struggente dell’universo vivente, di colpo si fanno in qualche modo chiari. Finisca come finisca.