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venerdì, Maggio 9, 2025
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Mondocane#25 – Why don’t you all f-f-fade away

exhib_slideshow_exhibition_serious-fun_wilsonMARAT | Oggi sembro Stanley Kowalski. Con ai piedi ciabatte che mai avrei pensato di indossare. Mentre sorseggio un cappuccino. In bilico fra l’opportunità di offrire l’ennesimo contributo alla riflessione sul teatro contemporaneo. O arrancare fino al libanese per un estathè. Ma il problema è che conosco il tizio al tavolino qui a fianco. E lo so che adesso mi parla. “Ho rimesso in piedi il gruppo Marat. Perché la risposta è: hardcore. Cassa dritta e punk, nient’altro. E noi eravamo avanguardia, come gli Atari. Che ora partiamo per la Germania e ho già un mezzo aggancio per incrociare Alec Empire. Lui è uno a posto. Sai che quel primo maggio quando è successo tutto il casino contro il sistema io ero…”. Tu eri. Io ero. Noi eravamo. Qualcuno è ancora. Contro il sistema. Meravigliosa scusa che ci si racconta ad ogni fallimento. Dall’universale all’individuale. Faccio sì sì con la testa. Sposto i ray-ban. E torno a pensare a questa cosa del teatro contemporaneo, che proprio non mi fa dormire la notte. Inseguendo quelli che hanno già offerto il proprio contributo. Quelli del compitino ben fatto. Quelli che la maestra alle elementari non gli ha detto che i punti esclamativi vanno usati con parsimonia. Quelli che inneggiano alla cultura, ora che la nazionale manco è riuscita a vincere un mondiale. E quelli che copiano, confondendo forma e sostanza. Why don’t you all f-f-fade away… Sbadiglio alla Gambardella. Mentre quel che rimane di Alberto, mi sta osservando dall’altra parte del marciapiede. Tua madre ti veste sempre uno schifo, penso. Nodo alla gola. Che Alberto s’è perso e non sa più tornare. Eppure… Eppure eri tu che mi raccontavi di donne e rivoluzioni. Degli artisti e dei cialtroni. Che il tempo è signore, ogni tanto almeno. E che ridere quella volta che mi hai raccontato della finale di basket. È tutto lì.

“Allora Marat: contropiede, mancano tipo tre secondi, sotto di un punto. O victoria o muerte! C’è ‘sto tizio alto 20 cm più di te proprio sotto il canestro avversario. La palla gli arriva che manca un secondo. Lui alza le manone e appoggia. Canestro e vittoria”.
“Alberto, ma questo succede tipo sempre”
“Sì, ma la questione è che non era valido, la sirena aveva già suonato! Ma gli spettatori sono scesi lo stesso a festeggiare e a menare quelli dell’altra squadra. Insomma, il popolo si è preso quello che la vita gli stava negando”.
“Uhm, ma quegl’altri?”
“Hanno fatto ricorso”.
“E?”
“E hanno vinto”
“Alberto, che cazzo mi insegna questa storia?”
“Che si può far tutto. Ma bisogna resistere al tempo. Altrimenti non hai scuse, è solo fuffa. Hai fatto solo un po’ di casino”.

Era delle cadute, questa nuova scena italiana è campata in aria

Lo Sicco/Civilleri  @Nico Lopez Bruchi
Lo Sicco/Civilleri @Nico Lopez Bruchi

MATTEO BRIGHENTI | Un tricolore rammendato scivola da un pennone. Si affloscia e si sgonfia piegandosi su se stesso. Il gruppo di Lo Sicco/Civilleri lo guarda pietrificato. A ogni tentativo di issare quella bandiera si rinnova il fallimento. Non riescono a conquistarle una stabilità all’altezza che inseguono. Ci provano e riprovano, con le unghie e con i denti l’acrobata sale e stringe la stoffa bianco rosso e verde, ma è inutile. Fatica sprecata.

Il penultimo quadro, l’VIII, descrive, involontariamente, il “vorrei ma non posso” Era delle cadute, spettacolo ideato e sostenuto dalla Fondazione Pontedera Teatro e presentato nella grande sala “Thierry Salmon” del Teatro Era, all’interno del Festival Fabbrica Europa 2014. Voleva essere un’opera unica composta dei 7-10 minuti (salvo chi ha lavorato sui collegamenti) preparati, oltre che da Lo Sicco/Civilleri, da giovani realtà come Biancofango, Carrozzeria Orfeo, LeVieDelFool, Macelleria Ettore, Ossadiseppia, Scenica Frammenti, Teatro delle Bambole e Teatro dei Venti. Nella visione del direttore artistico, Roberto Bacci, Era delle cadute rappresentava un progetto addirittura necessario per “imprimere un’impronta artistica da parte di una generazione che è costretta dal mercato e dalla politica culturale a chiudersi soltanto nelle proprie identità per poter sopravvivere.” Alla prova della scena si è rivelato uguale identico a ciò da cui intendeva distaccarsi: una sommatoria di individualità che sono diventate collettivo solo perché hanno condiviso lo stesso palco. Una vetrina, insomma, una rassegna spot promossa da chi come Pontedera Teatro in 40 anni di attività, compiuti proprio quest’anno, non può non essere considerato corresponsabile del “mercato” e della “politica cultura” che Bacci, infatti, contrasta a parole e poi produce nei fatti.

Per restare dentro la metafora, la difficoltà di quell’alzabandiera finale è quindi dipesa dall’inclinazione del pennone. Era delle cadute è stato provato, visto, montato e sperimentato al Teatro Era dal 9 al 13 giugno e aperto al pubblico in due sole recite, il 13 e il 14 giugno. Roma non è stata costruita in un giorno, ne bastano cinque per costruire un lavoro collettivo che mirava, sono ancora parole di Bacci, “a lasciarsi cadere nelle idee e nelle sensazioni dell’altro senza perdere se stessi”? In così poco tempo si tende a pensare a se stessi e basta, come quando ci presentiamo a qualcuno che non conosciamo: siamo così concentrati sul nostro nome da prestare poca, pochissima attenzione a quello dell’altro. Nonostante quasi tutti si fossero già presentati: dal 7 al 10 febbraio 2013 al Teatro Era Scendere da cavallo li ha visti discutere fianco a fianco sul senso del fare teatro. Dopo la pausa di riflessione di un anno, Roberto Bacci li ha invitati a “risalire a cavallo” e a lavorare insieme su un tema unico, la caduta, scelto durante due incontri preparatori.

Ripiegatesi sul proprio ombelico concettuale, le nove realtà coinvolte in Era delle cadute hanno lasciato impresso soprattutto il vuoto che l’argomento comune aspirava invece a colmare. Attrezzisti gli uni degli altri, pesi e contrappesi, alzano, abbassano, spostano le quinte di uno spazio altrimenti nudo per costruire i IX quadri più prologo e raccordi, episodi che rispettano la stessa dinamica: azione / caduta, ponte per l’innesco di un nuovo ciclo di azione / caduta.

Cosa dicono? A chi? Emblematico dell’intera operazione è il IV quadro di Biancofango: Andrea Trapani e Simone Perinelli su una piccola panchina commentano una partita di calcio che non c’è, accompagnati al violoncello da Luca Tilli, seduto dietro di loro. “Si cade perché qualcuno ci rialzi.” “Se il portiere muore la partita può continuare?” La situazione non c’è, le parole nemmeno e dunque Trapani e Perinelli parlano solo perché devono, perché sono “appesi ai fili” della rappresentazione. Per loro non è importante cosa fare o dire, è importante fare o dire qualcosa per far passare il tempo. Qualsiasi cosa.

L’acrobata di Lo Sicco/Civilleri, allora, non riesce a metter su la bandiera della collettività non solo per difficoltà o condizionamenti strutturali e ambientali, ma anche per carenze sue, personali, per poca propensione alla coesione, per il fiato corto della creatività. A conclusioni simili sono arrivati pure Simone Nebbia su TeatroeCritica e Graziano Graziani sul suo blog in articoli di grande misura che fanno dialogare il site specific ideato appositamente per gli spazi del Teatro Era con la geografia di posizioni del “nuovo teatro” tracciata di recente da Renato Palazzi su Delteatro.it (Graziani tocca anche l’esperienza di Perdutamente, factory al Teatro India nell’ottobre-dicembre 2012).

Un esito inconcludente, scrive anche Andrea Porcheddu su Linkiesta con lo stile piano e franco che lo contraddistingue, ma comunque un esito, per lui che ha vissuto da vicino l’esperienza Scendere da cavallo, avendone curato il diario di bordo, una certificazione di esistenza in vita della nuova scena italiana.

Nonostante ciò, tra le inclinazioni del pennone e gli equilibrismi dell’acrobata, chi resta a terra è la bandiera, cioè il pubblico. Sgonfio, afflosciato, senza peso, ha un’unica possibilità di contare: i minuti che mancano alla fine.

Happy hour + spettacolo a casa vostra | Una piattaforma 2.0 vi spiega come

teatroxcasafoto1LAURA NOVELLI | Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. E così, in tempi di crisi, anche il teatro si adegua e raggiunge il pubblico là dove sicuramente esso c’è: a casa sua. Sarebbe a dire negli appartamenti e nelle abitazioni private di persone che, ospitandone altre, si ritrovano ad essere spettatori senza muoversi di un passo. Iniziative di questo tipo – che per certi versi ricalcano format in voga una quarantina di anni fa e, addirittura, echeggiano quelle forme di spettacolo di corte fiorite nell’Italia rinascimentale prima che il professionismo dei comici dell’arte inventasse i teatri a pagamento – ne sono nate parecchie negli ultimi tempi. Basti citare “Stanze”, che a Milano è operativa già da tempo, o “Il teatro cerca casa”, attiva a Napoli e dintorni. Ma “Teatroxcasa” (www.teatroxcasa.com) di Raimondo Brandi, autore regista e attore con appassionata esperienza anche come reporter di viaggi, fa leva su due punti di forza innegabili: possiede un raggio di azione esteso su tutto territorio nazionale e nasce nell’alveo di quella filosofia dello sharing che, volenti o nolenti, sembra ormai essersi impossessata di numerosi aspetti della nostra vita. “L’idea di fondare Teatroxcasa – ci racconta Brandi – risale al dicembre scorso e diciamo pure che è stata dettata dalla disperazione. Lavoro in teatro da molti anni, sia da solo sia con Psicopompo Teatro di Manuela Cherubini, una compagnia che ha avuto prestigiosi riconoscimenti come il premio Ubu. A livello economico, però, siamo in una situazione disastrosa. Inoltre, mi rattrista molto dover registrare come nell’ambiente del teatro indipendente si sia sempre gli stessi; anche in sale istituzionali, il pubblico che ci segue è per lo più formato da addetti ai lavori per cui, ragionando e guardando ad esperienze degli anni ‘70, ho pensato di portare gli spettacoli nelle case, tra spettatori che siano tali per scelta e non per motivi professionali”.

Dando uno sguardo all’accuratissimo sito di questa pioneristica “piattaforma teatrale tra le case d’Italia”, si capisce bene cosa voglia dire Brandi quando parla di progetto 2.0 e di sharing: “Credo che cinque o sei anni fa un’iniziativa del genere non fosse pensabile, ma oggi che condividiamo tutto, dalla macchina alla casa per le vacanze, condividere la propria abitazione con altra gente e trasformarla per una sera in un teatro sembra normale”. Qui, inoltre, c’è piena libertà su entrambi i fronti perché non esiste una gerarchia tra i titoli “esportabili” e non c’è un direttore artistico che decide chi mandare dove. “La maggior parte delle iniziative simili a teatroxcasa funzionano come dei festival che hanno una direzione e dunque qualcuno che decide qual spettacoli siano migliori per questa o quella abitazione. Io ho rotto questo schema e ho creato un sistema economico a livello nazionale nel quale il sito funge da vetrina e luogo virtuale di scambio”. In pratica le compagnie che pensano di avere in repertorio una produzione adatta – ovviamente deve essere un lavoro molto agile, con uno o pochi interpreti e, se fuori diritti Siae, tanto meglio – si candidano mandando i materiali al sito. Poi lo stesso Brandi e Serenella Farsitano, sua socia e preziosa collaboratrice, fanno una selezione in base alla qualità e alla caratteristiche del lavoro (fino ad oggi sono arrivate oltre una quarantina di proposte e ne sono state scelte dieci, tra cui “Ragazza sola conoscerebbe uomo solo max 70 enne” di e con Carla Carucci, “Don Chisciotte in Sicilia” di e con Gaspare Balsamo, “La vita non basta” di e con lo stesso Brandi, “BIM BUM BANG” di e con Elena Vanni) e la postano con i relativi materiali informativi. A quel punto i padroni di casa interessati alla serata, scelgono il titolo che vogliono e propongono una data. Da lì parte l’organizzazione dell’evento e prende il via la macchina degli inviti, che possono essere circoscritti ad amici dei “committenti” o, come capita quasi sempre, ad altre persone incuriosite dalla proposta. “Oltre che sul sito, diamo risonanza alla serata sui vari social network e per ora la cosa funziona molto bene. Di solito uno spettacolo a domicilio, compatibilmente con le caratteristiche del luogo (l’ideale sarebbe avere un terrazzo spazioso o un giardino), prevede la partecipazione di quaranta/quarantacinque spettatori, partendo da un minimo di venticinque. Mediamente, su una quarantina di presenze, quindici provengono da prenotazioni on-line e c’è anche chi segue il progetto peregrinando di casa in casa”. Ma quanto può fruttare economicamente una serata-tipo? “Chiediamo una sorta di sottoscrizione volontaria di dieci euro a persona e l’incasso va alla compagnia, fatte salve la spese Siae (se ci sono), una piccola quota che spetta all’associazione e un’altra quota che va al padrone di casa per comprare vino e aperitivi”. Siamo, dunque, di fronte a un nuovo modo di pensare e fruire il teatro? Non ci sarebbe da stupirsene troppo visto che esso, tanto più nel Novecento, ha mostrato chiari (e fecondi) segnali di inquietudine rispetto alla sacralità dello spazio: spettacoli di strada, happening, incursioni nei grandi magazzini, nei vagoni della metropolitana, nelle università, persino in luoghi nevralgici della politica hanno riempito le pagine della migliore avanguardia. “Paradossalmente, però, il pubblico sembra più pronto dei teatranti a questo cambiamento. Ho notato maggiore resistenza da parte dei miei colleghi che da parte dei padroni di casa. E non capisco questo scetticismo visto che ormai ci muoviamo su un terreno già bello frantumato: gli impresari non esistono più, nessuno investe negli spettacoli, si fa fatica a girare, più di un monologo o di una pièce a due personaggi non ce lo possiamo permettere”.

Un ultimo sguardo al sito: venerdì 27 giugno, in una casa di Aprilia Nord (Latina), andrà in scena “Pepe” di e con Laura Riccioli. Brandi ci tiene però a raccontarmi che sono state già prenotate alcune serate di settembre, che per i prossimi mesi si prevede un incremento dell’attività e delle aree coinvolte. “Fino ad oggi il progetto è andato molto bene, soprattutto a Roma. Ci siamo mossi anche a Milano e dintorni, a Napoli, in Piemonte. La differenza la fa sicuramente il padrone di casa. E’ una figura fondamentale perché molto dipende da come lui organizza e vive l’evento”. E, ça va sans dire, in questo gioca anche l’appartenenza geografica e “gastronomica” del committente : “A Napoli gli aperitivi si trasformano sempre in vere e proprie cene a base di mozzarella di bufala e quant’altro. A Roma c’è molto spirito di accoglienza. A Milano tanto alcool e tartine”.

Ranuncoli#12 Quattro amori, un funerale e Nessuno im Garten

Monastero_di_Moldovita_parete_ovest_assedio_di_Costantinopoli_500x333COSIMA PAGANINI | Milano: Winter is Gone e sono finite anche la quarta stagione di Games of Thrones e la seconda stagione di Orphan Black, così decido di uscire. Ma di sera piove e mi rifugio in una sala…

Ha visto tanto bel cinema: Sokurov, Tarkovskij, Malik, Straub e Huillet, Visconti; ha sentito tanta musica, bella (Arvo Pärt, Anton Bruckner); conosce attori, qualcuno bravo; conosce musicisti, qualcuno bravo, e decide di fare un film anche lei. E fa un film brutto. Noioso. Con attori che si rivelano inadatti, con della musica che commenta e sottolinea il nulla. Peccato, perché questa ex ragazza ha delle ottime frequentazioni. Forse troppo. E mi torna in mente il verso di Rilke:perché la bellezza non è che il tremendo al suo inizio e comincio a pensare che troppa bellezza faccia male. Non tutti la possono reggere. Non Elisabetta Sgarbi con i suoi Racconti d’amore.

Invece Giada Colagrande regge benissimo la bellezza che Bob Wilson, chiamato da Marina Abramović, ci ha mostrato in The Life and Death of Marina Abramović. Anche questo è un film sulla vita e la morte. Tutto costruito e tutto autentico. Marina Abramović, per le sue musiche, non ha voluto un musicista (pop) in odore di misticismo, ma un musicista (pop) transgender, così si definisce Antony Hegarty. Bob Wilson ha creato un mondo su misura per Marina Abramović. Un mondo che scorre parallelo a quello in cui siamo immersi. Non ha finto una natura ma ne ha inventata una inedita e viva. Ha chiamato attori e musicisti e non gli ha messo la maschera del quotidiano nell’illusione preraffaellita di una realtà più reale: non c’è niente di più falso di una maschera di verità. Promuovo Willem Dafoe con la faccia da Joker in The Life and Death of Marina Abramović; boccio Sabrina Colle, Laura Morante e Michela Cescon (di solito brava) con le facce senza trucco in Racconti d’amore.

Ho anche visto uno ‘studio’ di uno spettacolo il cui programma di sala dice che è ispirato a La strada di Cormac McCarthy, all’Angelus Novus di Walter Benjamin e all’uragano Katrina. E tutto in 35 minuti. Vi racconto lo spettacolo: dietro una quarta parete fatta da una tenda del tipo ‘veneziana’, come quella di 9 settimane e mezzo, vediamo un uomo in uno scafandro/tuta spaziale e, in una scena successiva, un bambino, anche lui con la tuta spaziale. Nonostante le macerie, il vento cosmico, le luci intermittenti, i suoni apocalittici e la piantina sopravvissuta, quello che mi è venuto in mente è stata la scena di Ritorno al futuro nella quale Marty McFly (Michael J. Fox) si traveste da extraterrestre e minaccia il suo futuro padre. Non ho visto nessun angelo sterminatore (nemmeno quello di Legion). Il primo studio di questo lavoro è del 2011 e lo spettacolo sarà presentato, in forma definitiva, a Novembre 2014; potrò ancora dare un consiglio agli autori? rimettetevi a studiare e dimenticate le cose che sapete. So però che non mi ascolteranno e faranno benissimo perché gli spettacoli passano mentre i programmi di sala restano e gli spettatori, più educati di me, leggeranno e conserveranno un bellissimo programma di sala di IamhereIhaveagun (I am Here I have a Gun).

Per sfuggire alla pioggia mi sono rifugiata in un altro teatro: in scena un attore bravo, ma anche regista e adattatore di grandi romanzi, alle prese con uno (nessuno) e centomila. Questo però lo so dal titolo perché dopo 30 minuti dormivo e mi sono persa qualche migliaio di personaggi. È tempo di andare in vacanza.

Le OFFicine di Dominio Pubblico – Ultima puntata (…e siamo tutti don Chisciotte)

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Fotografia di Manuela Giusto

SILVIA TORANI | Ci tenevo ad assistere agli studi della serata conclusiva della rassegna OFFicine di Dominio Pubblico perché leggendone il programma avevo l’impressione che emergesse qualcosa dalla selezione proposta, una tendenza, un divisore comune. Non mi sbagliavo: BERLINISNTU (Berlin isn’t U) di Fattoria Vittadini, Gioco di specchi di Uthopia/Tra Cielo e Terra, PASSI_una confessione del duo Bartolini/Baronio e Don Chisciotte amore mio di Angelo Tronca sono tutti in un modo o nell’altro declinazioni della stessa figura. Non solo i due studi in cui se ne fa esplicito riferimento, ma tutti collocano al proprio centro l’archetipo dell’uomo moderno, l’ideatore dei propri mondi, un don Chisciotte che non rischia mai nulla perché il pericolo, se c’è, è solo mentale.

In BERLINISNTU tre giovani erranti, esponenti della numerosa compagnia milanese di danzatori Fattoria Vittadini, sono alla ricerca di un qualcosa che deve ancora manifestarsi, che soddisfi la mancanza come condizione esistenziale. Allora fuggono e si cercano a Berlino: un viaggio che prova, come don Chisciotte, a sostituire il Sé all’Altro. Ma l’Altro non si lascia ridurre, perché dopotutto Berlin isn’t you.

Purtroppo anche lo studio sembra ancora lontano dal trovare se stesso. Un interessante lavoro sul freeze, che va dal prologo scenografico di diapositive proiettate, alla coreografia che si addensa da una posa all’altra, fino alle luci stroboscopiche che fissano lo scorrere del tempo, si perde in un delirio orgiastico che sembra non prevedere sbocchi. Così più che il nucleo di uno spettacolo potenziale il lavoro assume l’aspetto di un training schizofrenico.

Gioco di specchi, scritto dal brillante Stefano Massini, è senza dubbio lo studio dalla drammaturgia più costruita: un dialogo bilanciato tra momenti di massima tensione e allentamento che racconta la piccolezza dell’umano impegnato a fronteggiare la certezza della morte. Gli attori Ciro Masella e Marco Brinzi vestono bene i panni di un don Chisciotte che non si rassegna e un Sancho Panza che è la sua controparte concreta e razionale. Destati in piena notte da un doppio sogno che vorrebbe uno dei due morto all’alba, potrebbero verificare in ogni momento la fondatezza del presagio ma gliene manca sempre il coraggio. La realtà non è ciò che vedono gli occhi, ma ciò che pensa la mente. Allora restano al buio cercando di beffare la morte con i loro ragionamenti. Ma appena un pericolo sembra scampato, ecco che se ne presenta un altro imprevisto e ancora più temibile.

Un suono come di grilli elettronici riempie le pause di sgomento e avvolge gli occhi degli spettatori trasformando il buio teatrale in tenebre notturne. Il pubblico resta agganciato e nonostante lo studio sia in sé conchiuso e autosufficiente rimane la curiosità del “come andrà a finire”. E, da quello che ci dice Ciro Masella tra un lavoro e l’altro, sembra dovremmo aspettarci grandi cose. Il progetto, in una fase produttiva molto più avanzata rispetto agli altri, è già definito e pronto per il lancio: forse anche per questo non è risultato vincitore, ma comunque speriamo di vederlo, magari proprio all’interno della prossima stagione di Dominio Pubblico.

La giuria ha invece premiato il terzo studio della serata, PASSI_una confessione di Bartolini/Baronio, del resto già dichiarato vincitore dall’entusiastica reazione del pubblico in sala. Si tratta del più intenso dei quattro lavori: la costrizione fisica di una corda fissata al soffitto, cui l’attrice/autrice Tamara Bartolini si fa trovare appesa al rientro dall’intervallo, ha contribuito a un’interpretazione di grande potenza espressiva. Alternativamente sostegno, guinzaglio e altalena, questa invenzione scenografica semplice ma efficace caratterizza un panorama mentale ossessivo e visionario.

Alle prese con un trauma irrisolto, in una sorta di seduta psicanalitica post mortem, l’artista indaga l’ontologia dell’insicurezza postmoderna alla continua ricerca di approvazione. Il piede greco, rinascimentale attributo di bellezza divina, diventa un piede di scimmia, una vergogna da nascondere allo sguardo inquisitorio della società dei media. Perciò continua a chiederci: “Ti piace? Va bene così? E così?”. Ancora una volta è la mente a costruirsi i propri mulini a vento e a combatterli senza possibilità di vittoria. Una performance ispirata che grazie a questa vittoria potrà svilupparsi in uno spettacolo sulla morte come “curva della strada”.

L’ultimo studio, il Don Chisciotte amore mio di Angelo Tronca, è forse quello che più si avvicina all’essenza stupidamente indomita dello spirito donchisciottesco, ma resta anche il più sconclusionato. Un one man show tra il demenziale e il geek con trovate comiche da villaggio turistico ed espedienti ingegnosi come un ombrello che fa piovere. Manca un progetto organico, una struttura portante; tutto appare estemporaneo.

Eppure c’è qualcosa di poetico ed eroico nell’attore che suona il suo ukulele e canta quasi a bassa voce la sigla di Goldrake. “Il tentativo è già una vittoria” recita il programma di sala. “Perché ad essere Superman sono tutti bravi: andare avanti senz’altro scudo se non la propria volontà; questo è il vero atto eroico”. E questa sembra essere l’ultima forma di eroismo concessa al nostro tempo.

Mario Perrotta: la crescita di un teatrante solitario (e) in compagnia

PitùrRENZO FRANCABANDERA | Il percorso artistico di Mario Perrotta è senz’altro un percorso di fatica ma anche di successo. Parliamo di un professionista dal tratto istrionico e creativo, con un talento da solista non comune, maturato in anni di gioventù di mestiere rubato alla compagnia di famiglia e sviluppatosi poi, con onesto impegno artigiano, in una Bologna dove pian piano l’artista ha coagulato attorno a sé una compagnia con cui ha conseguito risultati nel complesso assai lusinghieri e non comuni, se pensiamo alle tante compagnie di emanazione familiare che da Nord a Sud popolano i teatri, ma per lo più con inclinazione provinciale.

Perrotta invece è un provinciale lanciato sul treno verso il Nord dei sogni, come racconta nello spettacolo “Emigranti Esprèss” di e con sé medesimo, di recente a Milano nella sempre ottima rassegna Stanze, curata da Alberica Archinto e Rossella Tansini, questa volta ospite nello splendido giardino della casa museo di Alik Cavaliere. La pièce è ricavata da una serie di puntate per la radio che narravano proprio l’emigrazione attraverso l’esperienza del viaggio in treno vissuta con gli occhi del giovane meridionale. Il primo pezzo, l’assalto al treno delle 21,05 verso la Germania dei terroni pugliesi, alla cui genia appartiene anche chi scrive, è un piccolo gioiello di metrica della narrazione: venti minuti da incorniciare e far sentire a chiunque voglia cimentarsi con questa forma di teatro. Uno slancio che non rimbalza con ugual forza nei due frammenti successivi, pur interessanti, ma a cui manca il propulsore autobiografico, come se nel passaggio dall’affresco soggettivo allo zoom del macrocosmo la lente si appannasse, lasciando il ritmo scenico un po’ fuori fuoco, restituendo meno vigore. Parliamo di un testo non nato per il teatro, e in un paio di circostanze si capisce, ma che l’istrionico attore domina. Perché Perrotta è una belva da palcoscenico, sente il pubblico in modo animale, lo capisci quando gode con gli occhi spiritati dell’attacco preciso di questa o quella base musicale, si asciuga le labbra con la mano, sorride compiaciuto e con il registro vocale e lo sguardo in giro per la platea inchioda tutti al suo racconto.

Questo stesso animale, nella dimensione plurale del secondo movimento del polittico teatrale dedicato al pittore Antonio Ligabue, dopo il grande successo del primo che recitava da solo, ritorna a proporsi come attore-regista con la sua compagnia in Pitùr, dove un Mario Perrotta un po’ Ligabue un po’ Kantor, fa da controcanto alla sua classe morta, al suo universo di disperati e soli, composto da Micaela Casalboni, Paola Roscioli, Lorenzo Ansaloni, Alessandro Mor, Fanny Duret, Anaïs Nicolas e Marco Michel. L’abbiamo visto l’altra sera in scena al Teatro La Cucina al Paolo Pini di Milano per Da vicino nessuno è normale, la rassegna estiva diretta da Rosita Volani, che ha ospitato il regista in residenza.

Tutti vestiti in pigiama bianco-manicomio, tutti soli gli interpreti, in alternanza fra momenti di fisicità teatrale, movimenti in sincrono con video proiezioni e giochi di luce, per raccontare gli esclusi. L’esperimento è un indubbia crescita rispetto a tutti gli ultimi lavori collettivi diretti da Perrotta, finalmente asciugato nella durata, coerente nel codice, sfidante e in alcuni momenti poetico. Ancora manca quel pizzico di costruzione drammaturgica collettiva capace di esaltare davvero i conflitti, di dare l’emozione costante, di non lasciare, come succedeva anche (e con più frequenza) nelle precedenti regie, in cui lo spettatore non di rado si trovava in una terra di mezzo dove la direzione appariva meno lampante di quanto non lo fosse nelle intenzioni artistiche. Tuttavia l’inizio e la fine dello spettacolo in particolare sono momenti assai intensi, con il finale che davvero lo porta ad una vetta poetica limpida. Nel mezzo ancora qualcosa da sistemare, forse in questo caso da aggiungere, per evitare di allungare troppo certe sequenze un po’ insistite.
Siamo, in ogni caso, ad un momento importante di maturazione di questo artista, sempre esaltante nell’uno contro tutti, che va perfezionando la sua capacità di direzione e lettura con la giusta cattiveria, e che sicuramente lavora a testa bassa, testardo, ma in realtà consapevole come pochi dei pregi e difetti dei suoi lavori, e capace di correggere il tiro, per indirizzarsi verso quell’essenzialità su cui forse anche l’esperienza genitoriale lo ha portato ora a riflettere con maggior consapevolezza.

The Apprentice: Dio perdona, Flavio no

sei fuori

ALESSANDRO MASTANDREA | Capita a volte che anche la TV dimostri di possedere uno spirito manifestamente progressista. In quelle particolari occasioni, anche una categoria generalmente vituperata come quella dei loser sembra passarsela piuttosto bene, sempre che possa dimostrare doti artistiche fuori dal comune, magari nel canto. Ne sanno qualcosa Suor Cristina, il coach e talent scout J-Ax, e il format The Voice alla sua seconda edizione su Rai Due.
Nel resto della programmazione, purtroppo, le istanze più comuni non paiono discostarsi da modelli marcatamente conservatori. Con buona pace dei loser, tornati a vestire i panni di minoranza mal vista, rassegnati nel vedere le proprie legittime aspirazioni al riscatto eternamente frustrate.
Ma quella del perdente è anche una figura romantica, eroica fino al martirio se occorre. Indubbiamente dotata di una genuina propensione al masochismo e, soprattutto, diffusissima tra i telespettatori. Nel novero, di buon diritto, troviamo spazio anche noi, gli spettatori della seconda visione. Quel più o meno nutrito gruppo di persone, che non potendo permettersi la pay-tv è costretta ad attendere mesi per guardare il format del cuore, evitando come la peste tutte le possibili tentazioni da spoiler che il mondo dei media convergenti offre. Dolore, ma soprattutto rinunzia, queste le parole d’ordine dei “perdenti”della tv generalista, che per quell’insana attrazione per la propria immagine distorta, il proprio doppelgänger televisivo, è magari “The Apprentice” che attendono con ansia.
Poiché, celata dietro regole piuttosto semplici ( partecipanti divisi in due squadre, prove di management sempre più selettive, fatidico giorno della finale, premio), questo peculiare talent dispiega una carica rivoluzionaria irresistibile. Flavio “il Boss” Briatore, per esempio, da icona e prototipo della persona vincente, del self-made man, assume su di sé la valenza di vero e proprio premio di cotanta trasmissione.
Per non parlare delle innate doti di paziente mentore, utili per tenere a bada gli scalpitanti allievi, per consigliarli e istruirli sulla difficile arte del management. E’ noto, infatti, che “la testa è molto più importante delle mani” e che “un mazzo così se lo fanno anche gli operai”.
Non è più solo questione di riscatto o rivincita, i giovani aspiranti “apprendisti” sono lì perché animati da una salutare sete di ambizione personale, per dimostrare di essere i migliori: “il secondo classificato è il primo degli sconfitti”, chiosa a fine di ogni puntata “il Boss”. Non inganni il tono alla Gordon Gekko, qui non siamo in un revival di cliché di serie televisive anni ’80, qui non si vedono nostalgici degli Yuppies, e non è solo questione di amore per l’edonismo. Il fatto è che nell’Italia contemporanea, che Flavio conosce bene in quanto assiduo frequentatore dei salotti televisivi à la page, difficilmente vincono il merito e le capacità del singolo. I giovani faticano ad affermarsi, attorno a loro trionfano raccomandati e figli di papà. E’ tutto un “magna, magna” insomma, e mentre quella di Flavio si configura come una lotta di civiltà, quella dei suoi apprendisti è invece una cesura esistenziale rispetto all’Italia dei propri padri.
Poco importa se anche loro (i padri) abbiano lottato per affermare le proprie personali rivendicazioni a un miglioramento della propria condizione. Questa delle nuove generazioni televisive è una lotta post-idelogica. Alle pastoie della politica, con tutto il loro pesante carico di eminenti e ingombranti figure di intellettuali del passato, si è andata sostituendo una mitologia molto più smart, agile e schietta. Donne e uomini di classe, imprenditori (giornalisti a volte) che in TV la sanno lunga su ogni cosa, ma che non si sentono necessariamente obbligati ad argomentarla.
Largo dunque alla meritocrazia in TV e nel resto della Penisola. Ma largo anche a una buona dose di autostima, caratteristica che al Nostro piace molto. Oltre la bravura, infatti, è “quella scintilla” che Flavio cerca negli occhi dei suoi pupilli. Tanto peggio per loro se non ce l’hanno, poiché, in tal caso, per l’insondabile mentore esistono solo due parole: “SEI FUORI!”.

Il solito Crozza alle prese col “Boss” Briatore:

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«I Luoghi dell’Adda» alla decima edizione, tra teatro, musica e natura

olesenVINCENZO SARDELLI | Affascinante il connubio fra poesia, natura e storia offerto dalla rassegna I luoghi dell’Adda, giunta alla decima edizione, che anima attraverso il teatro luoghi già per se stessi attraenti. L’arte è esperienza conoscitiva capace di trasfigurare l’ambiente in cui si manifesta.

L’Adda è il principe degli affluenti italiani. Scorre interamente in Lombardia. Il corso dell’Adda segna approssimativamente il confine linguistico tra i dialetti lombardi occidentali e orientali. Ma i ricordi storico-letterari hanno un che di evocativo in più. Sono legati ai Promessi Sposi, a Manzoni che descrive il tentativo di Renzo di raggiungere Bergamo per fuggire dal Ducato di Milano (dove era ricercato) fino alla Repubblica di Venezia.

L’Adda come salvezza, insomma. La salvezza che qui è proposta è meno impegnativa, ma non meno impegnata: è quella dalla routine cittadina, dagli stress di fine anno, in vista delle vacanze. Ed ecco, allora, una serie di appuntamenti organizzati dai lecchesi di Teatro Invito.

Miglior aperitivo non poteva esserci, tre settimane fa, della fisicità surreale di Jacob Olesen, di scena a Calco con Il mio nome è Bohumil, dal testo di Hrabal. Olesen, svedese con esperienze dalla Danimarca a Parigi, da oltre vent’anni di stanza in Italia, ha preceduto altri interessanti appuntamenti: dalle conquiste temerarie di Walter Bonatti di Teatro Invito, con In capo al mondo, all’ironia del Cappotto di Gogol. Fino alla poetica fantastica di Saramago con Riconoscersi isola di DelleAli teatro.

Il mio nome è Bohumil, tenue e poetico testo di Hrabal, narra le vicissitudini di un minuscolo e sagace cameriere ceco assunto all’Hotel Parìz di una Praga che, al crepuscolo del 1936, si accinge, con quel senso d’angoscia e precarietà, ad essere invasa dalle truppe naziste. Bohumil, umile e poetico, intelligente e ironico, attraversa anni e personaggi, incontri e tragedie. Notiamo nell’interpretazione di Olesen tutta l’abilità clownesca appresa nel suo tirocinio artistico a zonzo per l’Europa: la capacità di raggiungere il pubblico al di là del linguaggio verbale.

Bohumil è uno spettacolo minimalista. Un modo artigianale, eppure nuovo, di fare teatro. Emozioni che nascono da smorfie, suoni, gesti. Occhi e sorrisi leggeri, dolci, sofisticati. Microstorie, narrate con genialità, attraverso il controllo totale dei tempi comici e la capacità di riempire lo spazio scenico. Sorridiamo quando assistiamo alla vendita di wurstel ai passeggeri di un treno in partenza, che non riescono a ottenere il loro resto che rimane impigliato nelle tasche del cameriere. O quando, all’Hotel Parìz, viene data una sontuosa cena a base di cammelli ripieni di antilopi, a loro volta ripiene di tacchini, a loro volta ripieni di pesce, quest’ultimo ripieno di uova.

Ritmo incalzante e pause oniriche, malinconiche, tragiche. Come sono le pagine della storia, della guerra. Guerra che, come una fiumana, fagocita le vite degli individui, inghiottendo indistintamente il talento come la colpa

La “collezione” primavera/estate 2014 dei Luoghi dell’Adda si conferma ricca di appuntamenti. Compagnie giovani come Barabao Teatro con il suo thriller VII non rubare, o comicità musical/demenziale degli JashGavronski Brothers che in Trash! realizzano un vero e proprio concerto con oggetti di riciclo.

Poi gli appuntamenti dedicati alle famiglie: dall’Acciarino magico di Teatro dell’Orsa, a Cappuccetto Blues di Teatro Invit, fino alle avventure di Tom Sawyer con Anfiteatro.

La musica dal vivo ha avuto come protagonisti gli chansonnier francesi e belgi Brel e Brassens con la compagnia Santibriganti. Invece il duo jazz Colombo/Pedeferri ha allietato il pubblico navigante su Addarella, con la formazione dei Dadaiko Project ad accompagnare il racconto Il tacchino farcito.

Imbersago ha ospitato la coloratissima Parada di Faber Teater, tra le vie del centro storico, con gli spettatori parte della performance.

Una nota particolare va allo spettacolo itinerante che si terrà lungo l’alzaia dell’Adda a Brivio: Sogno di una notte di mezz’estate di Shakespeare, coproduzione di Teatro Invito con ScarlattineProgetti e Piccoli Idilli: 14 attori guideranno il pubblico in un viaggio tra elfi e fate, nel mistero del bosco fluviale.

Qui il calendario complete della rassegna, con tutti gli appuntamenti ancora da vivere

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“Anton”, il debutto di Vanessa Korn con un Cechov intimo

antonVINCENZO SARDELLI | In un teatro giovane che in Italia sembra a volte percorrere schemi registici triti e drammaturgie insipide, gorgheggi con qualche parolaccia-tormentone, si affacciano sulla scena, ogni tanto, perle di bellezza. Come Anton – Scherzo in un atto. Dalle lettere, le opere e i taccuini del dottor Cechov, monologo con Stefano Cordella che abbiamo visto allo Spazio Tertulliano di Milano, drammaturgia e regia di Vanessa Korn. Pregevole racchiudere ogni tanto in una parentesi le cinque S (sport, spettacolo, sesso, sangue, soldi) che imperversano dalla cronaca allo schermo, per dirottare verso la poesia.

Anton, liberamente ispirato alla vita di Cechov, è la storia di un amore che è respiro. Senza il gusto della provocazione. Senza retroscena morbosi, o la ricerca ammiccante della risata. È un’oretta di monologo. Non la classica biografia. Neppure un sunto della poetica di Cechov. È un percorso nell’anima di un uomo logorato dalla tisi, al crepuscolo dell’esistenza. È un atto di fedeltà alla vita e alle sue piccole cose. Alle illusioni, che danno consistenza ai sogni: l’amore e la bellezza; l’eternità, le donne; la speranza in una guarigione.

La scena sfumata, da vecchia foto ingiallita, rinuncia ai colori sgargianti. Punta all’intimità. Sembra un quadro di Guido Reni, con luci delicate da pittura d’interno. Musiche senza tempo dialogano con i sentimenti: il repertorio malinconico dei Penguin Cafe Orchestra, le sfumature ipnotiche di René Aubry, il pianoforte raffinato di Giovanni Bomoll con Wild Flower. Per finire con le atmosfere oniriche di Vinicio Capossela. Anche l’attore, in canottiera e mutande, si presenta essenziale, in una quotidianità che ne svela l’umanità. Piccole miserie e slanci autentici. E quel senso di precarietà sospeso nell’aria, illuminato dall’interiorità. Luci blu. Poetica dell’alienazione. Decadenza, che non è rinuncia.

E un’arte che non tollera la menzogna. Anton è un uomo solo, alle prese con la salute che se ne va all’alba dei 44 anni. I panni sospesi ad asciugare, nel ristretto ambiente domestico. La bacinella per lavarsi. La scrivania. L’accappatoio. Mucchi di libri, carte sparse. È il disordine degli artisti, brainstorming spaziale e mentale, che precede l’atto creativo. Anche l’amore non esibito, che ristagna nella sfera muta, è atto poietico. «Abbiamo un solo difetto in comune – scrive Anton alla moglie – ci siamo sposati tardi». Arte, intelligenza, incertezza: «Il cervello batte le ali, anche se non sa ancora dove andrà a volare». Affiora l’anima di Cechov, tra bisogno d’ozio, per assaporare ciò che resta della vita, e urgenza di scrivere, per lasciare tracce di sé. Mistero e domande: meglio appassire lentamente nel buio, o rinascere un tempo effimero, nel tripudio dei colori? Aleggia un’aria di leggerezza, con il riferimento a quell’umorismo capace di conferire toni buffi all’esistenza.

In questo testo Vanessa Korn, alla sua opera prima, condensa un anno di studio e letture: l’Epistolario raccolto in Vita attraverso le lettere, con il profilo biografico di Natalia Ginsburg; la biografia scritta da Irène Némirovsky; il teatro, i drammi, i racconti, gli atti unici e i taccuini. Pagine di appunti, catalogati per argomenti: amore, viaggi, medicina, natura, famiglia, letteratura, corpo, malattia. E poi la fatica di scegliere, di calibrare: la voce del poeta; la propria e altrui rielaborazione. La regia, misurata, mai invasiva, entra con delicatezza nella vita di un uomo.

Anton ci rappresenta tutti, grazie alla recitazione pacata, leggera di Stefano Cordella. Attraversiamo l’umanità di Cechov. Come da un treno, osserviamo tutti lo stesso paesaggio. E ognuno porta a casa un dettaglio diverso.

Le OFFicine di Dominio Pubblico – 3^ puntata (Da Napoli lo studio migliore)

officinegaetanobrunofotoLAURA NOVELLI | Mercoledì 11 giugno. La terza serata di OFFicine Festival si svolge all’Argot. La piccola sala trasteverina è gremita di gente; c’è chi spera di entrare confidando nella lista di attesa; c’è chi suggerisce di aggiungere qualche sedia; c’è chi resta in piedi. Molti ovviamente gli addetti ai lavori, ma è pur vero che in occasioni del genere non c’è da stupirsene. Stavolta, a fare da padrone di casa, ci pensa Tiziano Panici: qualche parola introduttiva, qualche spiegazione sullo svolgimento dei quattro studi previsti in scaletta (molto diversi l’uno dall’altro e nel complesso più interessanti rispetto a quelli del 9), un doveroso saluto alla giuria popolare attinta a “La Casa dello Spettatore” coordinata da Giorgio Testa. C’è aria di festa. Di vivace curiosità.

Si inizia con “La Moda e la Morte” della compagnia milanese Animanera, primo abbozzo di un lavoro ispirato al “Dialogo tra la Moda e la Morte” di Leopardi su testo di Magdalena Barile (studi alla Paolo Grassi e importanti collaborazioni con diverse realtà) e regia di Aldo Cassano. Due donne vestite di nero (una delle interpreti è Benedetta Cesqui che ricordiamo in “Tumore” di Lucia Calamaro) siedono ai lati di un tavolo come fossero Moire intente a prendersi gioco degli Umani. Ma siamo solo all’inizio di un viaggio nella Storia e nella (in)civiltà occidentale contemporanea che innesca un doppio binario linguistico: da un lato, una scrittura molto alta, simbolica, colta, per certi versi affine ad un Morality play di stampo medievale; dall’altro, la presenza viva di una donna “diversa” e fragile (Barbara Apuzzo) che, chiamata a personificare proprio la Storia dandole la vis ribelle di una bambina impavida e capricciosa, riconduce il lavoro a quell’impegno nel sociale che Animanera porta avanti da sempre. E dunque si avverte, in questo breve studio, la trama di un disegno progettuale che ha chiari i confini e gli obiettivi entro cui intende muoversi, sebbene certe atmosfere dark, certi simbolismi portati all’estremo non giovino all’insieme e, anzi, ne affievoliscano l’energia.

L’energia invece non manca al secondo studio della serata, il migliore secondo me: “Io, mia moglie e il miracolo” di Gianni Vastarella, anche regista e interprete insieme con Christian Giroso, Valeria Pollice e Sefora Russo. Premessa necessaria: questo lavoro nasce all’interno di Punta Corsara, e cioè di una compagnia di giovani che, diretta da Emanuele Valenti e Marina Dammacco (a loro volta “eredi” di Marco Martinelli e Debora Pietrobono), ha preso vita grazie al laboratorio di formazione permanente attivato a Scampia con la felice (ed encomiabile) esperienza di Arrevuoto (oggi trasformata in Arrevuoto Teatro e Pedagogia). In seno al gruppo, vincitore del Premio speciale Ubu 2010 (e vale la pena riportare uno stralcio della motivazione: la scena dei ragazzi di Scampia alla riprova di un teatro di apprendimento vissuto assieme alle persone di un territorio difficile, che hanno potuto trovare nelle forme dell’esperienza artistica occasioni di vita ulteriore e strumenti di restauro morale […]), Vastarella vanta già la scrittura di precedenti testi e senza dubbio possiede, pur con delle ingenuità presumibilmente “generazionali”, un piglio drammaturgico originale e senso del ritmo. Qui fotografa in modo grottesco e surreale un matrimonio in crisi e, ancor meglio, un uomo e una donna (silenziosa, cauta nei gesti e negli scarti espressivi, volutamente robotizzata dalla brava Valeria Pollice) che non nascondono certi lineamenti un po’ televisivi e cartoonistici (penso soprattutto ai Simpson) ma che, nel contempo, si impongono come personaggi molto teatrali. E il meccanismo farsesco, a tratti “cirilliano”, funziona perché lontano dal naturalismo e perché – come preannuncia il titolo – sorretto dall’ambiguità di una figura soprannaturale che scompagina il quotidiano.

“Vieni più vicino” di e con Gaetano Bruno (noto attore siciliano di collaudata esperienza teatrale e cinematografica) mi ha invece lasciata perplessa. C’è un Lui che vive in un vaso. E’ una pianta (?) in giacca e cravatta e non vediamo il volto dell’attore perché coperto da una maschera a foggia di chioma cespugliosa. E poi c’è una Lei, una danzatrice molto leggiadra, che da bruco chiuso dentro un telo bianco diventa poeticamente farfalla. Un incontro quasi impossibile. Un gioco di avvicinamenti e allontanamenti. Un’alternanza di silenzi e parole. Fino all’abbraccio finale. Francamente mi sfugge il senso di un lavoro che, più lungo di così, non capisco dove potrebbe o dovrebbe arrivare.

Stesso discorso per lo studio “Actarus”, ispirato al romanzo omonimo di Claudio Morici, proposto dalla compagnia toscana Bàrbaros su regia di Giacomo Bisordi: tra birra, tv e divano si consuma la crisi di mezza età del celebre pilota di Goldrake (Fausto Cabra), mentre una sua appassionata fan (Camilla Semino Favro) ne segue il meschino declino fiduciosa in una necessaria riscossa ai danni di Vega. A dire il vero, mi è parso un lavoro molto acerbo, ingenuo, ripetitivo. Ho fatto insomma difficoltà ad intravedere una forma di ŏpus in fondo a questa fase di opificīna.

Che altro dire? Mentre scrivo queste righe, non conosco l’esito della kermesse e dunque non so quale compagnia abbia vinto. Ma credo che una riflessione generale si possa fare a prescindere. Certamente ben vengano operazioni di questo tipo, soprattutto in quanto danno visibilità a gruppi che altrimenti troverebbero difficile farsi conoscere. Ma c’è un “ma”. Perché, se da una parte, il vuoto istituzionale rispetto alle realtà indipendenti del nostro teatro è spaventoso, dall’altro, bisogna pur chiedersi se questa scena OFF giovanile non sia troppo affollata di artisti con le idee poco chiare. E’ vero: sono tempi duri, non ci sono soldi, si fatica da matti. “Ma”, a mio modestissimo avviso, anche la creatività, la formazione, la profondità di analisi, la capacità di (re)invenzione drammaturgi, la sintonia con pubblici reali e diversi non se la passano poi granché bene.