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venerdì, Maggio 9, 2025
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Le OFFicine di Dominio Pubblico – 2^ puntata (il turbine aumenta)

Collettivo Jenny Pirate
Collettivo Jenny Pirate
Collettivo Jenny Pirate

ANNA POZZALI | Prosegue la riflessione a sei mani sulla Rassegna OFFicine all’interno della stagione Dominio Pubblico che unisce intenti e progetti dei due teatri romani, Teatro dell’Orologio e Teatro Argot. Sono stata spettatrice della seconda serata che vedeva succedersi le quattro compagnie: Collettivo Pirate Jenny, Teatrodilina, Proprietà Commutativa e Madame Rebinè con, rispettivamente, Pollicino 2.0, Banane, 3Q liberi esperimenti politici e Uno spettacolo comico.

La prima compagnia, come il celebre Pollicino dei Fratelli Grimm, continua la sua corsa disorientata nel cerchio vorticoso della scena che si ripete e dissemina movimenti e stralci coreografici che sono le speranze, le aspettative di un’intera generazione sulla soglia dell’età adulta: necessaria ma poco promettente. I protagonisti sembrerebbero i tre interpreti, peraltro molto bravi, e invece la grande privazione prende il sopravvento perché come tutti i giorni, fuori dal teatro (e anche un po’ al suo interno), i trentenni sono i fanalini di coda della nostra società e, senza lavoro né floridi orizzonti cui protendere, sono eretti a simbolo del “fuori tempo massimo”.

Per questo, non gli resta che girare e non fermarsi in quel bosco senza riferimenti che è la vita, incappando uno per volta in un reality show che li testa per l’ambita fama mediatica come ultima spiaggia possibile degli esodati sociali e, comunque, magra consolazione.

La voce fuori campo, occhio e voce del Big Brother, come un narratore onnisciente riveste la parte di questa politica attuale che sul terreno delle giovani generazioni si gioca promesse importanti che restano tali fino a quando  giovani crescono, oltrepassano la soglia dell’età adulta diventando troppo grandi per attendere i fatti.

E, come dice il programma di sala, “in bilico tra il mangiare e l’essere mangiati” la storia di molti si conclude sempre con l’ultima delle due opzioni: l’essere fagocitati dal sistema.

Il passaggio continuo tra i linguaggi della danza, del testo e delle immagini è così misurato ed equilibrato da far emergere chiari i significati e la direzione di questo esperimento drammaturgico, complice forse l’empatia di spettatori per la quasi totalità coetanei, ugualmente disorientati, troppo grandi per fare i giovani e troppo piccoli per essere adulti.

Al Collettivo Pirate Jenny segue Teatrodilina, compagnia che trova nel teatro un luogo di approdo per linguaggi e pratiche differenti. Lo rende evidente la drammaturgia di Banane che ha elementi di vivo richiamo cinematografico, si costruisce per sketch ed è proprio la concatenazione di queste scenette comiche a rappresentare il nucleo dello spettacolo: in questo caso, non è tanto la storia raccontata a lasciare il segno, quanto la capacità registica di narrarla per frammenti. Le storie dei quattro ragazzi fanno da sfondo al succedersi degli episodi narrativi che spingono al massimo punto di evoluzione la storia, per poi interromperla e ricominciarla in un altro luogo e in un altro tempo. Inizialmente spiazzante, questo meccanismo diviene, una volta compreso, atteso e ricercato dagli spettatori.

La terza compagnia, composta da Alessandro Federico e Valentina Virando, esordisce nella propria presentazione dichiarando che il nome Proprietà Commutativa si riferisce proprio alla formula secondo cui modificando l’ordine degli elementi, il risultato non cambia: così questa compagnia si è costituita garantendo massima flessibilità dei propri elementi e protagonisti. E se, spiegata così, questa teoria non convince pienamente, anche lo spettacolo “3Q liberi esperimenti politici” non decolla: una storia di cibo e politica, tre cuochi e una coppia di candidati al potere che attende per cena il Signor X, fantomatico ed essenziale finanziatore della candidatura; l’intendo dovrebbe essere quello di azzardare un’analisi delle relazioni umane, di ricette giuste in cucina come nella politica, uno sguardo alla realtà che si compone di “quelli che cucinano bene e quelli che hanno sempre fame”. Buono l’intento, bravissimi gli attori ma il testo è debole, non è ben costruito, troppo macchinoso e privo di composizione. In altre parole, nonostante la buona ricetta il piatto sfornato non è ben riuscito.

Ma è, infine, Uno spettacolo comico di Madame Rebinè a non chiudere in bellezza la serata: il titolo pretenzioso e la trama composita che mette insieme gli elementi senza darvi una contestualizzazione sono i carenti punti di partenza. A restare di quest’ultimo esperimento drammaturgico, è la performance circense perfettamente eseguita con un cerchio che rappresenta il limite che l’eroe in pensione Super Mutanda deve  superare per andare oltre le sue angosce e il suo divano. Ma Super Mutanda non ce la fa e con lui, nemmeno lo spettacolo, che ha ancora molto da lavorare sulla composizione drammaturgica.

E con questo si chiude la seconda serata di OFFicine Dominio Pubblico. E ne restano due!

 

Le OFFicine di Dominio Pubblico – 1^ puntata (Serata di apertura: per fortuna che c’era Clinica Mammut)

officine9giugnofotoLAURA NOVELLI | “OFFicine”: dinnanzi al titolo di una variegata rassegna come quella che si è svolta le sere scorse al teatro dell’Orologio e all’Argot di Roma (e, ricordiamolo, frutto di un bando indirizzato alla creatività teatrale delle nuove generazioni cui hanno aderito numerose realtà) sembra inevitabile un’analisi che tenga conto del termine scelto come titolo (senza dimenticare quell’OFF marcato con le maiuscole) e, tanto più, della sua radice etimologica. Dunque: officina viene dall’antico termine latino opificīna (laboratorio)che a sua volta deriva ovviamente da ŏpus (opera). Sembra scontato e un po’ scolastico ma è un necessario punto di partenza per osare una riflessione a riguardo. Ragionando sull’etimologia, ancor meglio mi radico, infatti, nella convinzione che in un’officina si debbano prevedere una fase “laboratoriale”, e cioè di messa a punto di prodotti in fieri, ma anche un approdo – in questo caso artistico – in grado di costruirsi come “cosa” a sé, finita e, parlando di teatro, comunicativa alla testa (lasciamo perdere le emozioni, per carità) del pubblico. Ciò presuppone che nel lavoro in costruzione si possano già intravedere, allo stato embrionale o in forme più evolute, gli eventuali esiti scenici cui si aspira. O per lo meno delle idee, delle estetiche, delle provocazioni, dei puntelli intellettuali o stilistici che in qualche modo preannuncino l’ŏpus. Non è perciò facile giudicare venti minuti di spettacolo (questa la durata approssimativa dei singoli studi) e tanti anni di frequentazione teatrale e di esperienza come osservatore critico del Premio Dante Cappelletti (al cui format questa rassegna in parte rassomiglia) mi hanno allenato ad una certa cautela.

Ritorno rigorosamente ai fatti: ho partecipato alla vetrina romana la prima e la terza sera (il 9 e l’11 giugno) e debbo riconoscere che, soprattutto dopo la prima tornata di pièce, sono uscita da teatro alquanto perplessa. Fatte salve le buone intenzioni degli artisti e nutrendo il doveroso rispetto per chi lavora e crea, ho trovato estremamente noiosa e criptica la proposta di Mirko Feliziani, attore/autore con solide esperienze formative e professionali alle spalle che nel suo “Milk. Le Sembianze di Marion Llievski” costruisce un “musica tascabile” sul tema della diversità, con tanto di intarsi video funzionali alla drammaturgia e di canzoni eseguite dal vivo, dove intende indagare “le tante sfumature della diversità che è in ognuno di noi” (parole sue) mettendo insieme crisi identitarie adolescenziali, scenari bellici, rigurgiti rocchettari; ciò che ne deriva è un lavoro ibrido e molto poco empatico che, per ora e secondo me, non lascia intravedere un approdo significativo. Stesso discorso vale anche per “Legame” di Lara Russo, coreografa e performer milanese che l’anno scorso ha vinto il premio GD’A giovane danza autori con lo spettacolo “Allumin-io” e che in questo studio costruisce una partitura per cinque giovanissimi danzatori (tre ragazze e due ragazzi, non tutti propriamente agili e in forma, anche – presumo – per restituire l’idea di una normalità del corpo performativo che molto sembra mutuata dal lavoro di Virginio Sieni, con cui tra l’altro la Russo ha collaborato l’anno scorso per la Biennale di Venezia) dove essi si rincorrono, si sfiorano si intrecciano, si bendano gli occhi nel tentativo “di esplorare il complesso universo delle relazioni umane, di far emergere, attraverso il corpo, dinamiche di comportamento essenziali del rapporto con l’altro”. In realtà, a tratti, arriva una certa inconsapevolezza espressiva che non è tanto mancanza di perfezione o armonia (non è questo il punto) quanto difficoltà comunicativa, incapacità di trasformare i singoli pezzetti del lavoro in un “sovratono” di più ampio respiro. E questo stesso perimetro angusto, questa mancanza di spazio mentale altro l’ho riscontrato pure in “Elena di Sparta o della guerra” di e con Elena Arvigo, attrice tra le più apprezzate e apprezzabili della sua generazione, intenta a mostrarci qui una figura di donna moderna – ma per certi versi fuori dal tempo – che va girovagando con il suo baule dei ricordi come un guitto ottocentesco e racconta la vicenda mitologica della celebre moglie di Menelao da angolature e punti di vista diversi, avvalendosi anche di spunti letterari eterogenei. Se, da un lato, la presenza scenica della Arvigo garantisce un’indubbia qualità recitativa, dall’altro la drammaturgia sembra assai povera e ripetitiva e in questa fase del montaggio potrebbe portare ovunque o, viceversa, non riuscire ad andare oltre quanto (un po’ poco) già messo in campo. Dei quattro studi in scaletta, l’unico che mi abbia suscitato un autentico interesse è stato, insomma, “Dicembre” di Clinica Mammut (www.clinicamammut.it), la compagnia romana di Alessandra Di Lernia (drammaturga e attrice) e Salvo Lombardo (regista e attore) che ci ha abituato ormai da anni a lavori molto strutturati a livello ideologico ed estetico (“Col tempo”, “Il retro dei giorni”) e che qui accenna con estrema raffinatezza intellettuale al terzo movimento della trilogia “Memento mori – icone della fine”. Lavorando a più livelli sul tema del crollo della nostra società, sullo scollamento tra vecchio e nuovo, sulle responsabilità della politica (e in particolare della sinistra italiana), su uno stato di crisi e immobilismo, ci mostra in scena la figura di una donna con il volto coperto e i capelli biondi lunghissimi che parla seduta ad un tavolino e intanto toglie credibilità sostanziale al linguaggio. Dapprima monologante sospesa in un rituale di ironica (auto)decostruzione), essa poi interagirà con una seconda figura – anch’essa molto misteriosa – in uno scenario maggiormente apocalittico. Tante le suggestioni di partenza. Ad esempio? “Il Parmenide di Platone e cioè l’unico dialogo – mi racconta l’autrice – dove lo schema dialettico non è sempre presente; poi le poesie di Verlaine, il concetto di bizantinismo, il film “La leggenda della fortezza di Suram” dove i giovani, proprio come oggi, sono ostaggi di una società vecchia che non li rappresenta assolutamente”. Tanti i materiali cui dare ancora forma. Ma almeno in questo studio si intercettano pensieri e visioni generosamente protesi verso un coerente approdo finale.

In-Box 2014, dopo Amendola-Malorni il diluvio

MalorniMATTEO BRIGHENTI | I vuoti d’autorevolezza generano vite storte. Non ci sono padri né madri riconosciuti, non ci sono leggi condivise, non c’è neppure Dio nei quattro spettacoli finalisti a In-Box 2014. Ci sono i figli: a loro il compito di costruirsi una “famiglia” di valori in cui credere e vivere.
Per la prima volta dal vivo, al termine della due giorni al Teatro Cantiere Florida e al Teatro Popolare d’Arte/Teatro delle Arti, è così risultato vincente l’ “homo faber” al tempo della crisi, L’uomo nel diluvio “fortunae suae” di Simone Amendola, regista, sceneggiatore e autore teatrale, e di Valerio Malorni, attore, autore e regista. A loro i 37 giurati hanno assegnato 14 delle 39 repliche (finali escluse) messe in palio dai partner di In-Box, la rete di sostegno per la circuitazione del nuovo teatro ideata da Straligut Teatro. Dietro, i fratelli coltelli di Genesiquattrouno di Gaetano Bruno e Francesco Villano (10 repliche); poi le sorelle serpenti di Cantare all’Amore de La Ballata dei Lenna (8 repliche), compagnia formata nel 2011 da Nicola Di Chio, Paola Dimitri e Miriam Fieno; per ultimi, i coniugi trasformisti di Orfeo ed Euridice di Eco di fondo (7 repliche), gruppo formato nel 2007 da Giacomo Ferraù e Giulia Viana, guidati però dal non certo emergente César Brie, che ha scritto e diretto lo spettacolo.
Se tale è il risultato della selezione di 319 candidature, possiamo dire che In-Box ha quasi completamente mancato la sua stessa ragion d’essere: dare spazio alla “qualità artistica”. “Quasi” perché nella Rete è rimasto impigliato, a questo punto più per caso che per progetto, un piccolo capolavoro, che non poteva, onestamente, non vincere.

L’uomo nel diluvio

Tra il restare e l’emigrare c’è di mezzo il mare dell’umanità in tempesta. Se rimani puoi dire di non aver voluto combattere, se parti, invece, tutti capiscono che sei in guerra. E partire è già un po’ morire.
Forse per questo Valerio Malorni inizia stringendo a sé un orologio fermo: è l’istante in cui ha deciso di lasciare l’Italia per andare a sopravvivere a Berlino. Ha un completo scuro stazzonato, la pioggia è registrata e Bob Dylan canta “I want you”. Noè ha costruito l’arca per volere di Dio, Valerio, perché Malorni recita se stesso, si è fabbricato la sua salvezza da solo, in una vasca che in scena è una sagoma di cartone, come le valigie degli emigranti inizio ‘900. Però, per non sentirsi straniero in terra straniera, sia come personaggio che come attore, ha bisogno di te, di noi, del pubblico.
Un “one emigrant show” duro, ironico, schietto che ci restituisce ciò che di più importante la crisi ci ha portato via: l’umanità.

Genesiquattrouno

Un uomo è accasciato dentro un cerchio di pietre. Sopra la sua testa pende un albero spoglio a chioma in giù. Con un balzo entra nel cerchio un altro uomo. Si toccano, si annusano come animali, a gattoni. I rami dell’albero sembrano indicare tutte le possibili direzioni creative di un’indagine sul linguaggio fisico, della ricerca di una cifra poetica del movimento.
Questa costruzione d’intenti crolla quando i due escono dal cerchio e, in piedi, cominciano a parlare. Sono fratelli e quanto appena visto è ciò che si sono fatti l’un l’altro. Girano così in tondo al rapporto conflittuale tra loro, con il padre, con la società e lo stesso fa lo spettacolo, ma il cerchio non è una direzione, è un avvitamento.
Il faticoso “giallo” circolare per scoprire la macchia che li unisce porta a una fine che ha il suo inizio, come dice il titolo, nella Genesi, capitolo 4, versetto 1: Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: “Ho acquistato un uomo dal Signore”. Fisico e parole, dunque, per l’eterno ritorno della fratellanza del male.

Cantare all’Amore

Due sorelle, stavolta, divise da un vestito da sposa usato. Il matrimonio s’ha da fare per uscire dalla misera, ma quando il sarto varca la soglia di casa, un rettangolo di lucine da varietà, passa più tempo a pensare all’amore per la “brutta” che al matrimonio della “bella”. Ha rinunciato alla vita e adesso trova una ragazza che non sa di averne una. Sono legati da nervosismo, imbarazzo, inadeguatezza. A tal punto, però, da diventare insopportabili l’uno all’altra. Non va meglio alla sposa, nonostante conquisti l’agio sufficiente a nascondere la propria infelicità.
Gli attori sembrano dissociati da ciò che dicono, come se i pensieri fossero doppiati da una lingua che non è la loro. Fanno allora faccette e smorfie per suscitare il riso che arriva con il contagocce, situazioni che vorrebbero essere forti o poetiche risultano, invece, solo piccole e frammentarie. In tutto questo, tanto, troppo, manca il colore più importante per uno spettacolo sull’amore: la magia del non detto.

Orfeo ed Euridice

Non è un attore, è qui per caso. Si presenta come Caronte, ha gli occhiali da sole e un forte accento meridionale. Ha portato Orfeo all’altromondo per salvare la sua Euridice: lui ha cantato una canzone di Battiato, ma poi, sulla strada del ritorno alla vita, ha fatto ciò che non doveva: voltarsi a guardarla. Lei, così, è morta per sempre.
Questo siparietto introduce al racconto di un Ade molto terreno: lo stato vegetativo di una moglie a seguito di un incidente stradale. Il mito, oggi, è come accompagnare i propri cari a una “dolce morte”, quando la vita non è più degna di essere vissuta. L’incontro, l’amore, e poi lo schianto in macchina, l’ospedale e il vivere continuando a non morire sono raccontati con ricorrenti cambi di personaggi che rendono una storia verosimile irreale, meccanica, finta. Come la scenetta iniziale.
Un “caso Englaro”, dunque, sulla partitura di miseri trasformismi, condita con la saccenza di chi sa cos’è il dolore o la malattia. E non lascia a nessuno la libertà di farsi la propria opinione.

Cosmogonia di un’umanità in bilico secondo Lucia Calamaro

GIULIA MURONI| In fondo si tratta di cavalcare le asperità della vita per non farsi sopraffare da quel fondo oscuro e oceanico, latente in ogni inconscio, in grado di trascinare nel baratro. È in questo surf a occhi chiusi, in un equilibrio virtuoso tra il conscio e l’inconscio che il soggetto viene sbattuto e bistrattato nella conflittuale e vorticosa esperienza di sé e del mondo.

 Origine del mondo. Ritratto di un interno di Lucia Calamaro ha raccontato la depressione di una donna sui quarant’anni, Daria, interpretata dall’omonima Deflorian, che si confronta nel corso dei 3 atti con la figlia, Federica Santoro, la psicanalista, sempre Santoro, e Daniela Piperno nelle vesti della madre. Visto alle Fonderie Limone, nel cartellone della corrente edizione del Festival delle Colline Torinesi, costituisce il terzo atto del Focus sulla creazione contemporanea, iniziativa a cura di Sergio Ariotti e Mario Martone, che ha portato in scena la maratona di Antonio Latella Francamente me ne infischio, l’ultima creazione di Emma Dante Operetta burlesca e infine, il pluripremiato e validissimo lavoro scritto e diretto da Lucia Calamaro nel 2011.

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Sono tre le direttive su cui si articolano i tre atti di Origine del mondo: in primo luogo la crisi individuale e esistenziale, motore, o meglio freno, delle vicende biografiche di Daria, i rapporti primari di parentela, quelle relazioni di dipendenza e oppressione, amore e egoismo tra madre e figlia, che vedono Daria prima nel ruolo di madre abulica,  incapace di rispondere alle infinite esigenze di una figlia, poi in quello di figlia, rimbrottata apertamente e di continuo da un genitore soverchiante. Infine c’è il rapporto con la cura che prende vita nella relazione fallimentare o comunque altalenante con una psicanalista, di fronte alla quale per lunghi periodi Daria, sebbene immersa in un flusso incessante di pensieri,  non riesce a proferire parola. Anche la figlia, che cresce nel corso dei tre atti, è una parte di questa ambigua relazione. Anch’essa dedica alla madre attenzione e affetto, senza però scalfire, arrivare ai nocciolo duro e insondato del dolore puro.

A un frammento di dialogo tra le due donne è affidato il finale. Amaro, restituisce il senso della profonda solitudine che permea i vissuti e ne è l’irriducibile essenza.

Nell’interno di uno spazio domestico o al limite nei confini dell’ufficio dell’analista, si svolge una narrazione ricchissima, fluente, in grado di dare respiro a verità gravi con l’alternarsi di registri, in un vociare costante che spazia tra idiosincrasie generiche e specifiche richieste d’aiuto. Lo spazio varia di colore ad ogni atto: il primo è immerso nell’oscurità, penetrato soltanto dalla flebile luce di un frigorifero, unico varco di conforto; nel secondo è l’arancione lo sfondo cromatico dell’acceso incontro tra Daria, sua madre e la figlia adolescente e in conclusione, nella scena abitata dalla poltrona da degente in psicanalisi e il tavolo della dottoressa, è l’azzurro ad occupare lo sguardo. Gli elettrodomestici, il frigorifero dell’inizio, l’armadio, la lavatrice e infine il lavello, assurgono a totem di uno scenario familiare disfunzionale. La regista ha ragione nel rifiutare l’etichetta di teatro al femminile, questo è un teatro che si assume la responsabilità di pungolare le viscere dell’esistente, di smuovere nel profondo laddove non per caso, ma per una fitta storia di potere e di sopraffazione, sono spesso le donne ad addentrarsi, a sporcarsi le mani, in un lavoro intrepido che non dà potere né gioia ma è il motivo per cui siamo umani. Menzionati nei dialoghi, gli uomini non compaiono mai, ma è un’assenza assai eloquente. La potente scelta registica sembra voler rinviare a un certo analfabetismo emotivo maschile colpevole di riprodurre ad libitum una irrimediabile e ineffabile distanza tra le due metà del cielo, sopratutto laddove si inverte il rapporto di maternage. L’espressione logorroica del pensiero affidata alle voci, ai lineamenti e ai corpi di queste donne non sfugge, con vitalità e sofferenza, al confronto con l’abisso e da esso trae ricchezza, nel perenne e inesausto tentativo di restare a galla.

MARTELIVE Sardegna: performing live and life per un mondo che cambia

Martelive Sardegna REDAZIONE | Quasi 50 artisti sardi, alcuni dei quali tornati sull’Isola apposta per l’occasione, competeranno per aggiudicarsi l’accesso alla BiennaleMArteLive (a fine settembre a Roma) e provare a vincere uno dei 150 premi che il più grande raduno artistico italiano mette in palio. Sono questi gli ingredienti, Martedì 10 giugno 2014 dalle ore 19 alle ore 24, al Centro Comunale d’Arte e Cultura EXMA’ della I edizione del FESTIVAL MARTELIVE SARDEGNA la cui cifra è la multidisciplinarietà: gli artisti si esibiranno contemporaneamente nella cornice dell’ExMà, così da regalare allo spettatore un’esperienza unica, uno “spettacolo totale”. La serata si aprirà con l’aperitivo letterario, poesie e racconti brevi di tre scrittori emergenti, seguiti dalle performance musicali di cinque band e due dj, intervallate dalle esibizioni degli artisti circensi e da brevi spettacoli teatrali, mentre si potrà assistere alla mostra fotografica di sette artisti, a installazioni e body painting e creazioni di artigianato artistico, tutto eseguito live, e tanto altro. La commistione delle arti, la possibilità di scambio e contaminazione fra tanti artisti, è ciò che determina l’importanza dell’evento, che rappresenta un modo concreto per superare la frammentarietà e, talvolta, l’autoreferenzialità dell’arte, per fare network, per creare un linguaggio ibrido di espressione e confronto.
Martedì 10 giugno a partire dalle ore 19 avrà luogo l’attesissimo evento che ha mobilitato artisti provenienti da tutta la Sardegna: le finali regionali del MArteLive all’ExMà di Cagliari. Il Festival, attivo a livello nazionale dal 2001, è stato organizzato per la prima volta in Sardegna dalla compagnia teatrale L’AQUILONE DI VIVIANA, con il sostegno del Comune di Cagliari.

MArteLive Sardegna è sostenuto dal Comune di Cagliari ed è realizzato e promosso in collaborazione con Radio X, CagliariApp, SardiniaPost, Scirarindi, Rumor(s)cena, PaneAcquaeCulture, Digital Performance, Linguaggio Macchina e l’Exmà Caffé.

Il teatro italiano vola a Parigi e New York

OrigineDelMondofotoLAURA NOVELLI | Volentieri segnalo due iniziative che danno respiro internazionale al nostro teatro esportandolo in due importanti capitali della cultura come Parigi e New York e regalandogli quella meritata visibilità che in patria, di questi tempi, non gli è facile ottenere. Alludo alla rassegna “Face à Face. Paroles d’Italie pour les scènes de France” che si apre il 18 giugno al Théâtre National Le Colline (con eventi anche all’Istituto Italiano di Cultura della capitale francese e allo Studio 105 de la Maison de la Radio di France Culture) e alla vetrina “In Scena! NY” che è stata inaugurata il 9 giugno con un omaggio al grande Eduardo De Filippo (quest’anno ricorre il 30° anniversario della sua scomparsa) svoltosi presso l’Arthur Avenue Market, in pieno Bronx.

Giunta alla quinta edizione, la felice iniziativa franco-italiana (che, come è noto, prevede una manifestazione gemella in Italia) presenterà al pubblico parigino sette autori italiani particolarmente significativi della nostra drammaturgia contemporanea. In effetti, sfogliando il programma, vi si intercettano nomi che, pur con stili e linguaggi molto diversi tra loro, negli ultimi anni hanno rappresentato degli snodi vitali in fatto di scrittura, creatività, invenzione scenica. Ad aprire i lavori sarà la lettura di “Primo amore” di Letizia Russo (regia di Isabelle Mouchard, interprete Mathieu Montanier), autrice molto apprezzata oltreconfine (tra l’altro non è la prima volta che questa pièce viene inserita nel programma di Face à Face) che si rivelò giovanissima con il corposo affondo nell’atrocità della guerra descritto in “Tomba di cani” (Premio Tondelli nel 2001). E’ invece alla sua prima tournée parigina la coppia Deflorian/Tagliarini, impegnata a presentare le sue ultime tre creazioni: lo spettacolo “Reality”, la performance-installazione “rzeczy/cose” e il recente “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”. Così come è al suo debutto in Francia il pluripremiato “L’Origine del mondo. Ritratto di un interno” di Lucia Calamaro, arguta indagine sulle storture della famiglia splendidamente interpretata da Daria Deflorian e Federica Santoro (tra l’altro, sia detto per inciso, proprio al duo Deflorian/Tagliarini e alla Calamaro sono state dedicate due puntate del programma “La nuova drammaturgia”, a cura di Graziano Graziani, andate in onda su Rai5 le scorse settimane). Altra presenze emblematiche saranno poi quella di Fausto Paravidino, atteso a Parigi con l’anteprima assoluta del suo nuovo testo “Il macello di Giobbe” che vedrà in scena tre attori italiani e quattro francesi, e di Mimmo Borrelli, regista e interprete (lo affiancherà Antonio Della Ragione) di una storia di camorra e rifiuti tossici intitolata “Malacrescita”. Esperimento molto curioso si preannuncia infine la lettura radiofonica in francese dello straordinario monologo “Dissonorata. Un delitto d’onore in Calabria” di Saverio La Ruina, in scaletta domenica 22 giugno in chiusura di rassegna. A latere, si svolgerà l’incontro “Ecritures souls les planches. La dramaturgie italienne des années zéro” nel corso del quale gli autori coinvolti, coordinati da Attilio Scarpellini, dialogheranno con il pubblico.

iaiafortefotoPiù eterogeneo appare invece il carnet delle proposte sceniche esportate nella Grande Mela. Segno ovviamente di un esplicito bisogno di accontentare pubblici e gusti diversi e di offrire eventi di generi non affini. Anche qui però è forte la presenza della nostra drammaturgia contemporanea e, soprattutto, si prediligono lavori italiani a sfondo sociale che affondano le radici nelle crepe più profonde della nostra storia e del nostro Paese. Molti, inoltre, i luoghi coinvolti in questa ricca festa del teatro italiano e tante anche le location inconsuete, divise tra i quartieri di Manhattan, Queens, Brooklyn e Bronx. Madrina d’onore della serata inaugurale è stata Iaia Forte, cui è spettato anche l’onore di aprire la rassegna (il 10 giugno) con un monologo tratto dal romanzo “Hanno tutti ragione” di Paolo Sorrentino. Sempre in area partenopea si muovono poi Mario Gelardi e Giuseppe Miale di Mauro, invitati a New York con l’adattamento di un racconto di Roberto Saviano, “Santos”, tradotto per l’occasione da Dave Johnson e Laura Caparrotti e inserito in un progetto di sensibilizzazione alla poesia indirizzato ai condannati in libertà vigilata. Lavoro che, inoltre, introduce il filone del teatro dedicato al calcio; filone che il festival newyorchese abbraccia con entusiasmo ospitando altri due testi di autori contemporanei: “L’Italia s’è desta” di Rosario Mastrota con Dalila Desirée Cozzolino, e “Storia d’amore e calcio” di Michele Santeramo. Alla figura di Don Pino Puglisi è invece ispirato il lavoro “Mutu” di Aldo Rapè, anche in scena con Marco Carlino (Miglior Spettacolo ad Avignone Off 2012). E c’è ancora spazio per una pièce sul lavoro e sulle morti bianche a firma di Mauro Santopietro e Tiziano Panici, per un’incursione letteraria nelle parole dell’Amore a cura di Carlo Loiudice e Vito De Girolamo e, cambiando decisamente genere, per il “Rugantino” di Enrico Brignano. All’interno della vetrina – da quest’anno anche “sorella” del Fringe Festival di Roma con cui condivide una serie di interessanti progetti comuni – si svolgerà, infine, la consegna del Premio Mario Fratti a Carlotta Corradi, giovane drammaturga romana con all’attivo testi come “Lipstick” e “Peli”, e al suo atto unico “Via dei Capocci”, storia di prostituzione nella Roma delle case chiuse. L’opera verrà letta presso l’Istituto di Cultura Italiana di New York il 24 giugno, durante la serata conclusiva del festival.

Nel cous cous ci vuole il peperoncino. E qualche riga di Camus

COus COus con CamusRENZO FRANCABANDERA | Forse perché giocavo pure io in porta, vabbè, a calcetto, che così almeno se alzavo le braccia la traversa riuscivo a toccarla. Forse perché Camus ha detto delle verità profondissime sull’animo umano che non possono non lasciar innamorare, di quell’amore struggente e doloroso per le sue parole.

Forse perché è un tempo così passato ma così presente, di incertezze e memorie di orrori ed errori, quello che si respira nella sala dai drappi rossi, così innaturalmente teatrale.

O forse semplicemente perché nel brodo del cous cous ci vuole il peperoncino. Secondo me. E anche secondo loro.

Insomma sarà per tutte queste cose o per le semplici scelte che le Ariette pongono in essere per raccontare una storia di vita, di anni Settanta, di baschi in testa e discussioni fra anarchici e comunisti nella campagna francese, storie di primi amori, mescolate alle parole di Camus, sarà per tutto questo, ma TEATRO NATURALE? Io, il couscous e Albert Camus di Paola Berselli e Stefano Pasquini, (per la regia di quest’ultimo e recitato, oltre che dai due sodali della tenuta delle Ariette, che festeggiano in questi giorni i 25 anni insieme (auguri grandissimi!), anche da Maurizio Ferraresi) è un’operazione, secondo me, riuscita.

In primis perché forse più e meglio che in altri loro lavori, sempre centrati sull’autobiografismo e sull’atmosfera conviviale, si rinuncia per gran parte a questi due elementi per cercare un corpo a corpo con il letterario che, pur con qualche “gancio emotivo” rimane sempre in un territorio di grande onestà rispetto allo spettatore, che kantorianamente vede chi alza il volume della musica, vede l’attrice immergersi davvero nella tinozza d’acqua, e vede i protagonisti, nella loro maturità e nei segni degli anni, ritornare con i propri corpi ad un tempo e ad un mondo di idee che non sono più.
Ma proprio perché non sono più, quelle parole diventano letterarie e sono di nuovo, nuovamente politiche, la tinozza sembra un mare sconfinato, e la Berselli che ci nuota dentro per poi andarsi a sdraiare su un asciugamano di frasi sottolineate dello scrittore franco algerino, con il suo corpo magro stretto in un vestitino rosso bagnato, diventa icona imperfetta, immagine di poesia fragile ed essenziale, come il pensiero di Camus e quel conflitto tra uomo naturale e uomo sociale che la società borghese ha vissuto e quella digitale sta misconoscendo, in nome di un uomo antisociale e neodigitale, chiuso nel suo doppio, nel suo avatar personaggio da cui sempre più fatica ad uscire.

Il cibo dopo lo spettacolo è un pretesto per restare da Olinda al Paolo Pini di Milano, dove abbiamo visto lo spettacolo e dove sta per ripartire “Da vicino nessuno è normale”, a chiacchierare con gli artisti, e in quest’ottica è un gesto di lotta al paradigma antisociale e dunque anche questo, politico.
L’interogativo che questo spettacolo del 2012 pone è se anche il teatro, come Mersault, il protagonista de “Lo straniero”, che rifiuta di mentire e obbedisce soltanto alle leggi della natura, possa vivere in francescana semplicità, sfuggendo agli obblighi delle convenzioni sociali, sincero fino alle estreme conseguenze. Ecco quindi il contrasto di quel drappo rosso, innaturale e così rituale, con un recitato che prova, in alcuni casi con successo, ad andare oltre la narrazione per approcciare fondamentalmente il postdrammatico.
La natura, per chi la vive davvero, non è idillio. E’ spesso anche crudeltà, verità, sofferenza del debole. E in questo spettacolo questa verità forse viene per paradosso maggiormente fuori rispetto ad altri lavori delle Ariette, pur non essendo mai qui la natura protagonista, ma solo sfondo, ambiente, sciabordare di onde in lontananza. Viene maggiormente fuori perché  gli artisti abbandonano il lato più romantico del loro codice di scrittura, per concentrarsi su alcuni quesiti scenici che, pur con qualche altalena di intensità durante la recita, ingaggiano lo spettatore e lo portano pienamente in un tempo e in un luogo letterario, immaginario ma profondamente reale. In cui a comandare è il libro, le sue pagine stampate in formato gigante. Fardello sulle spalle dell’uomo contemporaneo, piegato sotto il peso dei suoi inconfessabili perché.

Il malizioso immaginifico Orlando del Buratto

orlandoVINCENZO SARDELLI | Quante suggestioni in“…E scrisse O come Orlando”, regia di Jolanda Cappi, ritorno in gran spolvero della compagnia milanese Teatro del Buratto, impegnata da quarant’anni nel teatro di figura e animazione su nero.

Si chiude in bellezza l’IF, Festival internazionale di teatro di Immagine e Figura, vetrina che da sette anni porta al Verdi di Milano le migliori produzioni di teatro visuale e di figura: da Familie Flöz ad Ananda Puijk.

Un teatro artigianale, che raramente fa ricorso alla tecnologia. Eppure capace, poiché supera la parola, di aprirsi a un pubblico ampio. Codici espressivi tradizionali, per niente lisi, anzi, proiettati nel futuro: il senso della contemporaneità, nelle arti e nella comunicazione, sembra affidarsi alle immagini, più che alle parole.

Quest’Orlando, tratto dal libriccino che Virginia Woolf scrisse nel 1928, esprime il valore metatemporale dei classici. È un mito moderno. È una metafora brillante e nostalgica del desiderio di fama e d’amore, delle illusioni, dell’immortalità e della caducità insite nella vita umana. Ambientato tra età elisabettiana e Novecento, il libro attraversa con ironia oltre tre secoli di storia.

Giocato sull’intercambiabilità e l’interazione dei sessi del protagonista, incarnazione dell’androginia cara alla Woolf, Orlando è simbolo della libertà interiore e della completezza creativa della scrittrice londinese. Qui è un ragazzo che ama la poesia. Grazie alla propria versatilità conquista la regina. Da giovane incontra la principessa russa Sasha (evocata da una sinuosa pelliccia bianca) e se ne innamora. Rifiutato, si rifugia a Costantinopoli. Dopo un lungo sonno ,si risveglia come donna, amante della vita e della letteratura.

Lo spettacolo, tra scherzo e fantasia, metamorfosi e magia, attraversa i molteplici tratti di un personaggio ambiguo. Vediamo materializzarsi nel buio, animato da un raggio trasversale, un cancello trasparente. Di là da quello compare, maestosa, irraggiungibile, una bambola-regina, cui un ragazzo saltellante offre una coppa d’acqua di rose. Dal nulla si materializzano specchi, in movimento rotondo come un valzer. Assecondano una musica da epopea rinascimentale, di liuti e clavicembali, che lasceranno via via il campo a fortepiano, pianoforte, arpa, fino all’oboe suonato da Mario Arcari.

La colonna sonora di Roberto Andreoni è anch’essa proteiforme. Seguendo il viaggio ineffabile di Orlando, si piega ad antichi stilemi inglesi o turchi, russi o francesi. Partitura drammaturgica essenziale del teatro di figura, questa musica-carillon varca i limiti spazio-temporali. Duetta con la drammaturgia ipnotica di Rocco D’Onghia, affidata a voci fuori campo, accompagnamento leggero, mai pedante.

La parola è centellinata: pochi momenti di riflessione e di narrazione, fantastici, a volte scherzosi. Come quando quattro bastoni misogini bacchettano, con insolenza, Orlando-donna.

Il protagonista sperimenta, si perde e si ritrova, in un percorso ciclico di morte e di rinascita. Orlando è animato dalle illusioni della bellezza e della poesia. Ingurgita ogni effluvio vitale. S’innalza, come i libri aperti che svolazzano intorno a lui, o le valigie che galleggiano nel buio come forme di Chagall. La scenografia di Marco Muzzolon è un castello delle meraviglie. Tagli di luce mutevoli, lampeggianti, evocano, ad esempio, il rigido inverno di Londra.

Tutto si tiene. Questo spettacolo è un calibrato gioco a incastri. Ci consegna evocazioni pulite del genio di Virginia Woolf. È armonia di luci (Marco Zennaro), musica, voci (Silvia Orlandi) e animazione (Giusi Colucci).

Le maschere di Andrea Cavarra svelano le varie identità di Orlando, sviscerando il tema del molteplice insito nell’unico. Complesso e intrigante il lavoro dei quattro animatori (Elisa Canfora, Marialuisa Casatta, Nadia Milani, Francesca Zoccarato) capaci al buio di decriptare materiali eterogenei, e trasformarli in forme e relazioni.

“Che cosa ci resta?”. Pictures from Gihan

foto gianluca camporesi
foto gianluca camporesi

FRANCESCA GIULIANI | Come entrare nella vita di una persona per raccontarla? Come guardare e narrare una realtà della quale non si fa parte? Quali tracce seguire per raccontare e raccontarsi, trasformando il quotidiano, la cronaca, il particolare in universale? Come narrare il presente? Sono queste le domande che risuonano negli ultimi lavori artistici del gruppo romano Muta Imago. Dal progetto Una settima nella vita al progetto collettivo Art you lost?, che vedrà termine al prossimo festival di Santarcangelo, fino a Pictures from Gihan, visto a Forlì al festival Ipercorpo, le domande e i tentativi di risposta si rincorrono. “Che cosa dovrebbero togliere a me per fare una rivoluzione?”, si chiedono Riccardo Fazi e Claudia Sorace alla fine di Pictures, chiudendo, non a caso con un interrogativo che risuona così forte, una risposta che sembra non trovarsi.

Buongiorno Cairo. Semibuio e inizio. In scena due corpi, due persone insieme in un unico spazio che è separato, in un tempo dove il passato e quel che resta di un recente presente, si mescolano nell’atto performativo. Due vecchi banchi scolastici che fanno da scrivania alle due camere separate dei due artisti, divisi tra Roma e Bruxelles, posti ai lati della scena, uno a destra e l’altro a sinistra. Computer, microfoni, videotelefoni, lavagne che dall’Europa all’Egitto, dal fuori al dentro proiettano paesaggi trasfigurati da fasci luminosi. Le mail che dal passato si raccontano attraverso la voce narrante di Riccardo Fazi e le immagini che si susseguono sulle lavagne che delimitano il luogo scenico mostrando le persone che hanno acceso piazza Tahrir.

È la genesi del progetto, il tentativo di comprendere una rivoluzione in atto dall’altra parte del mare, quella rivolta iniziata in Egitto nel gennaio del 2011, che si è trasformato nella necessità di raggiungere un contatto reale con quel presente tramite Gihan, la giovane blogger egiziana che ha attraversato con il suo corpo la rivoluzione e ne ha tracciato con i suoi tweet di parole, immagini e video un racconto. Il suo sguardo per i due artisti è diventato necessario, affiancandosi al racconto dell’amico Giuseppe, il giornalista che dal Cairo guardava e viveva direttamente gli eventi egiziani, nel momento in cui, dopo un silenzio lungo un anno, gli eventi sono di nuovo precipitati nel giugno del 2013. È il momento in cui l’inseguimento di Gihan non è più volto a ricostruire il passato ma è presente e s’inserisce attivamente all’interno delle vite dei due artisti e delle loro ricerche: l’osservazione delle tracce lasciate da Gihan nel web, l’osservazione dell’Egitto attraverso i suoi occhi, si capovolge in un guardare alle proprie vite e alle proprie azioni presenti nello stesso momento in cui quelle di Gihan sono di nuovo presenti nella rivolta.

È questo scardinarsi di tempi che fa di Pictures from Gihan, che vede non a caso di nuovo in scena i due fondatori del gruppo, non solo un’immersione nella frantumazione di suoni, voci, immagini che ricostruiscono le tracce seminate nel web da quella lunga primavera egiziana, ma anche una sorta di messa in discussione degli stessi Riccardo Fazi e Claudia Sorace, come artisti, e del loro lavoro scenico. Pictures è un ritratto mobile dei due artisti che, aprendo le finestre dei loro studi, mostrano i loro mondi e le domande che li popolano, per agganciarsi con più forza a quella vita che pur non essendo la loro, li aggrappa più fortemente al loro presente.

Ogni azione in scena è tesa ad aumentare la visione dei dati che provengono dall’Egitto quasi come per appropriarsene con più forza. Il Cairo, le sue piazze e i suoi quartieri accesi dalle proteste sono ingranditi attraverso una lente fatta scorrere su una mappa della città impressa sulle lavagne. I suoni delle piazze sono aumentati attraverso l’uso di microfoni e la reiterazione di alcune azioni, come accade per lo scalpiccio dei passi dell’attrice che insegue la corsa di Gihan tra le vie del Cairo o per la lenta attraversata verticale di una piscina di parole che gridano Where is the future in your past?. Alla fine, un aereo da Roma parte per il Cairo; i due attori, immobili, lo riprendono con il videotelefono. “Che cosa resta?”, sembrano domandarsi. Dall’altra parte del Mediterraneo solo il silenzio. Da questa parte una visione: il tentativo di ricostruire lo scenario e la serie di azioni prodotte dal foro di uscita di un proiettile.

 

Faiella in «Sesso? Grazie, tanto per gradire». Un cult per ricordare Franca Rame

sessoVINCENZO SARDELLI | Un cult capace di parlare di temi scottanti legati alla sessualità, senza banalizzare o cadere nella volgarità. È con Sesso? Grazie, tanto per gradire che Alessandra Faiella, con la regia di Milvia Marigliano, ha ricordato al Teatro della Cooperativa Franca Rame a un anno dalla scomparsa. E forse è giusto che l’attrice di Parabiago, morta il 29 maggio 2013, sia stata celebrata con un testo che parla di donne, sesso e amore. «Sono anni che porto in giro spettacoli sulla condizione della donna – diceva Franca Rame – lo sfruttamento sessuale, i problemi con i figli, i tradimenti, la coppia chiusa, la coppia aperta. In questi anni il mio camerino è diventato come lo studio di un analista: uomini, donne, giovani mi confidano storie che non racconterebbero al confessore. Con tutto questo dialogare, mi sono convinta che la causa di ogni pena amorosa, di legami che si sfaldano, è la mancanza d’armonia tra i sessi». Di qui l’idea di mettere in scena uno spettacolo, scritto con il marito Dario e il figlio Jacopo, che parlasse d’amore e sesso. Che raccontasse il vuoto della conoscenza del proprio corpo: tabù, paure e inibizioni. Il monologo affrontava temi delicati e intimi. Con contrappunto di commenti comici e grotteschi. Ma anche con delicatezza e pudore. Sesso? Grazie, tanto per gradire fu messo in scena per la prima volta nel 1994. Berlusconi prometteva un milione di posti di lavoro, l’Aids impazzava e terrorizzava, dal dischetto Baresi e Baggio sparavano alle stelle il sogno mundial. Eppure, per quanto riguarda l’educazione sessuale, vent’anni sono passati invano. «Rileggendo questo testo – spiega Faiella – mi sorprendo ancora per la sua forza comunicativa e per l’attualità dei suoi temi. Al progresso tecnologico e scientifico non si è accompagnato un altrettanto profondo rinnovamento etico e spirituale. L’amore non riesce ancora a fare da antidoto alla violenza. Parlare di sesso, diceva Franca Rame, è parlare d’amore. Perché fare bene all’amore migliora la comunicazione e l’armonia tra le persone». La strana coppia Faiella-Marigliano (più comica la prima, più attrice classica la seconda) aveva già aperto la stagione della Cooperativa con La versione di Barbie. Sesso? Grazie, tanto per gradire è un’allegra terapia di gruppo. Se Franca Rame si limitava alla propria presenza scenica per affrontare il tema, caricandolo di sfumature politico-sociali e quel po’ di vetriolo anticlericale, una Faiella dall’ironia più soft e casalinga si esibisce davanti a una tavola di ortaggi (zucchine, melanzane, carote, peperoni) dalla forma ammiccante, armata di coltello per tagliarli a pezzettini. Faiella rivisita l’originale quel tanto che basta. Aggiunge una vecchia radio da cui partono estemporanee lezioni di sesso, che danno il la a una sfilza di gag salaci. Proprio durante queste buffe lezioni, che caratterizzano le irriducibili differenze psicologiche e comunicative tra uomini e donne, Faiella scopre l’essenza del proprio talento, con una mimica facciale che, da Franca Valeri alla stessa Franca Rame, da Anna Magnani a Sofia Loren, attinge al meglio del teatro e dell’avanspettacolo. Anche senza parole, Faiella esibisce un campionario di pose esilaranti. Si mostra sconcertata, sexy, perplessa, disincantata, rassegnata; complice, rilassata, contratta; irritata, incerta, seducente. Lo spettacolo deplora la sovraesposizione che ha degradato la sessualità a pornografia. Ironizza sull’ignoranza che attribuisce potere spermicida alla coca cola, o confonde lo scroto con l’urna elettorale. Evidenzia i piani differenziali attraverso cui la donna comunica: «decidi tu» vuol dire: «la soluzione è ovvia», «fa’ come ti pare» significa «prima o poi la pagherai». Un’ora di monologo, e un bis a furor di pubblico, è sufficiente per la Faiella. Perché «si dice che chi parla tanto di sesso, è perché ne fa poco. Ed io sono qua da oltre un’ora».