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sabato, Luglio 27, 2024
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Uovo à la sudtirolese

Qualibo n-esimo-progetto-fallimentareRENZO FRANCABANDERA | Questo articolo arriva con qualche giorno di ritardo, perchè voleva esser scritto la sera del 21 marzo, quando ero appena uscito dalla Triennale di Milano Teatro dell’Arte, avendo assistito prima a –N-esimo Progetto Fallimentare di QuaLiBò e poi a –FOLK-S will you love me tomorrow? di A. Sciarroni.
Stiamo parlando del Festival Uovo. Da anni a Milano. Undici per l’esattezza. Performing arts, danza contemporanea. N-uovo, insomma. Grazie a loro sono stati circuitati alcuni dei lavori più interessanti e sfidanti degli ultimi anni. L’edizione di quest’anno potete seguirla in video qui.

Andiamo agli spettacoli.
Nel primo dei due in programma, N-esimo Progetto Fallimentare, Maristella Tanzi e Carlo Quartararo, ovvero QuaLiBò, presentano alcuni quadri al lume di neon, con la Tanzi impegnata in passi di danza contemporanea e Quartararo a fare da fonte luminosa, avvinghiato come Laocoonte fra cavi elettrici e prese di corrente. Una premessa interessante, che enuclea l’intento artistico. Una musica emanata da una fonte sonora  sporca fa da sottofondo a un ragionamento che in realtà ambisce a creare una poetica del fallimento, inteso come costruzione  non ortodossa, e dunque non valutabile con il canone normale. E’ ovviamente un provocatorio tentativo di invertire il parametro estetico, e anche in sala cerchiamo di ragionare a testa in giù. Da questo punto di vista sicuramente meno comodo, registriamo come alcune trovate di matrice quasi situazionista e surreale intrighino ma che l’uovo (visto che siamo in tema) non arrivi proprio al sodo. Nel senso che quello che viene proposto è un lavoro interessante ma che non sconvolge. Che non porta in un’altra dimensione di sensi e di senso.

E la riprova la abbiamo poco meno di un’ora dopo assistendo invece a quello che ci sembra veramente un piccolo capolavoro, che è FOLK-S will you still love me tomorrow? di Alessandro Sciarroni, una coreografia basata su una danza popolare folcloristica, lo “Schuhplatter”, tipico ballo bavarese e tirolese, antica danza di corteggiamento, interpretata da Marco D’Agostin, Pablo Esbert Lilienfeld, Francesca Foscarini, Matteo Ramponi, Alessandro Sciarroni e Francesco Vecchi.

Sciarroni riparte da alcuni segni dello spettacolo precedente, Lucky star, dai performer bendati. All’inizio, sei fari illuminano dell’alto il palcoscenico, lasciando il fondo nel buio.
Lui stesso, in vestiti tradizionali tirolesi, porta in scena gli altri performer, bendati, disponendoli in cerchio. Parte un ballo tondo, un ballo di origine popolare.
Questa epifania ha istantaneamente richiamato alla mente quanto visto in questo stesso luogo due anni fa, quando Claudia Castellucci presentava, all’interno del progetto STOA, una riflessione su regole, semantica e poetica del ballo tondo. Secondo noi la radice di entrambi gli studi risiede in questo.
E l’emozione, il rarefatto, l’ossessiva ripetitività insita nel fascino delle regole è lo stesso.
Poco dopo l’inizio della performance, vengono date al pubblico le regole: lo spettacolo va avanti fino ad esaustione o di chi è sul palco o di chi è in platea. E così accade. Piano piano sul palco qualcuno si stanca. Ed esce. Anche in platea qualcuno più ossessionato dalla proposta apparentemente ripetitiva esce.
Pensiamo che in questo tipo di fruizione ci debba essere la stessa audacia che provarono i contemporanei di Mondrian nel passare dallo sfrenato e ancora tardo romantico figurativo della maggior parte dei loro coevi a quei segni, quelle linee. Al loro rigore. A quei tre quattro colori. Fissi.
Eppure questa ripetitività ossessiva è invece un topos della tradizione del ballo popolare, fino allo stato di trance. Come i dervisci. Come i tarantati. Ma chi ha avuto la tenacia di resistere a questa ossessiva iterazione di colpi su scarpe, polpacci, anche, scarpe, polpacci, anche, ha potuto accedere ad una dimensione che va oltre il segno, come il calligramma arabo ripetuto all’ossessione a Granada o Siviglia, mentre progressivamente venivano proposte per sottofondo coloriture sonore ovviamente incongruenti, ambient, di canto per sola voce, persino in un caso con una traccia sonora mandata al contrario. Un tentativo di narcotizzare e neutralizzare l’elemento musicale, per paradosso. Così il gesto rimane assoluto, la sensazione di questa emotività, riempie la sala. In questo Sciarroni è riuscito progressivamente a pulire questo lavoro rispetto, ad esempio, a quanto proposto a Drodesera, per arrivare proprio all’essenziale, al calligramma appunto, a Mondrian.
Come altri spettatori ho deciso ad un certo punto di interrompere la mia fruizione. Ero emotivamente felice, sazio, avevo i miei collegamenti, le mie ricchezze. Capire chi avrebbe ceduto per ultimo, chi era l’highlander della situazione era di minor interesse per me. Sono uscito.
Fuori c’erano altre persone emozionate come me. Dopo dieci minuti abbiamo sentito un grande applauso venire dalla sala. Evidentemente i danzatori avevano ceduto al gesto ginnico.
Li ho applauditi metaforicamente da fuori.
Spero anche che altre persone possano vedere Folk-s, provare questa sensazione. Emozionarsi per la geometrica poesia dell’esistere.

Il video sul lavoro di Sciarroni a Drodesera
[vimeo 46230417 w=500 h=281]
DRODESERA 2012 We Folk! – ALESSANDRO SCIARRONI “FOLK-S, WILL YOU STILL LOVE ME TOMORROW?”
Un video sulla giornata del 21 marzo di cui parla questo articolo
[vimeo http://www.vimeo.com/62418800 w=500&h=281]
UOVO performing arts festival_day two from Uovo on Vimeo.
shooting and editing: Romana Sarti
special thanks to: Giulia Mariani
music: YACHT – Tripped Fell In Love
Intervista a Sciarroni
[vimeo http://www.vimeo.com/62421172 w=500&h=281]

I Karamazov di César Brie

karamazov9NICOLA ARRIGONI | Schierati ai lati di una sorta di tappeto/pedana delimitata da corde — i legami fra i personaggi — la vicenda dei Karamazov è narrata e agita nel suo susseguirsi di intrecci, di amori, rancori e vendette. Lo spazio è quello, o per lo meno lo richiama, dell’Arlecchino servitore di due padroni di Giorgio Strehler, una sorta di spazio teatrale a vista, in cui attore e personaggio convivono, in un dichiarato svelamento della finzione che Strehler mutuava da Brecht e che César Brie fa proprio come molti segni che si rincorrono ed emergono dal suo I Karamazov, centone teatrale in cui la tradizione del terzo teatro s’incontra con quello di regia in un gioco tanto callografico quanto vuoto.. César Brie ha lavorato con i suoi giovani attori: Daniele Cavone Felicioni, Gabriele Ciavarra, Clelia Cicero, Manuela De Meo, Giacomo Ferraù, Vincenzo Occhiero, Pietro Traldi ed Adalgisa Vavassori per dare forma scenica al feuilleton dei Karamazov, concentrandosi sulla trama piuttosto che sul pensiero di Dostoevskij, sui ruoli piuttosto che sulle funzioni, sui personaggi piuttosto che sulle idee.
L’impressione è che l’instintività di Dimitrij, la ragione e il dubbio portati alla conseguenza nichilista del ‘tutto è permesso’ di Ivan, la bontà e purezza religiosa di Aleksej, il risentimento e la sete di vendetta di Smerdjakov, oltre naturalmente alla grettezza di Fëdor, il padre di quei figli umiliati e offesi rimangano in superficie, si raccontino in gesti, in un’invenzione scenica che gioca con tenerezze di maniera, che cerca una semplicità e povertà di mezzi che non corrispondono all’intuizione poetica, ma sono esercizio di stile. Ciò che accade in scena è troppo alla César Brie.
Non ce ne voglia il regista e attore, ma è come se avesse messo il pilota automatico e restituito il romanzo di Dostoevskij alla sua maniera, senza però farlo proprio per poi ri-offrirlo vero e sentito all’altro, ovvero lo spettatore.
Ciò che accade in scena, lo scandirsi dei quadri, il lavoro sul corpo, l’atonalità del recitato divengono subito prevedibili, sono cliché a cui piegare un mondo, in questo caso il mondo dei Karamazov. Ogni particolare, ogni azione è troppo narrata, troppo spiegata, il senso oscuro, l’abisso e la tensione alla luce, la intima disperazione e l’infelicità grottesca e ridicola di chi troppo soffre, per cui al grande dolore fanno seguito prima le lacrime e poi il riso non arrivano. Anche i bambini — che César Brie definisce protagonisti occulti del romanzo — sono segni estetici, non inquietano, tantomeno commuovono. Il risultato è il racconto, una storia di amori, desideri, rancori, soldi e vendetta, ma nulla di più.
Ciò che rimane è la trama, la vicenda presentata lì, raccontata come in una sorta di guida alla lettura de I fratelli Karamazov. Chiarita la trama verrebbe da dire: è tempo di affrontare il pensiero, di metterlo alla prova della scena, di agirlo sì come carne e sudore del teatro… ma ciò deve ancora accadere e forse prima o poi accadrà.

Un video promo dello spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=H7lNsViaYoY]

Basta un libro per salvare Mercuzio?

Mercuzio 3LAURA NOVELLI | Cogliamo l’occasione del laboratorio teatrale “Mercuzio e altri personaggi mancanti” che Armando Punzo terrà alle Manifatture Knos di Lecce dal 25 al 29 marzo (nell’ambito del progetto “Io ci provo” della compagnia Factory) per raccontare qualche impressione sull’ultima fatica di un regista/simbolo della nostra scena contemporanea: anima di quella felice esperienza artistica e sociale che è La Compagnia della Fortezza di Volterra. L’ultima regia di Punzo si intitola appunto “Mercuzio non vuole morire” e già nel titolo – implicito il riferimento al “Romeo e Giulietta” – evoca una spontanea corrispondenza con l’imminente iniziativa pugliese, soprattutto in riferimento a quei “personaggi mancanti” sui quali si è concentra la ricerca di ambito shakespeariano condotta dal regista campano negli ultimi anni (basti considerare il precedente “Hamlice”, connubio tra Amleto e Alice).
Lo spettacolo, debuttato al festival di Volterra di quest’estate e visto al Palladium di Roma qualche settimana fa, non è uno spettacolo vero e proprio. O meglio, rappresenta secondo noi un’operazione che, nata per “invadere” letteralmente lo spazio urbano di Volterra coinvolgendo i cittadini e trainando la sua stessa aspirazione artistica fuori dall’istituto penitenziario in cui la Fortezza opera e crea, molto ha a che fare con la festa barocca: un montaggio traboccante di materiali (sonori, visivi, fisici, poetici) che si allontana dall’enigmatica essenzialità del teatro per abbracciare l’idea popolare – a tratti persino populistica – di un comizio in difesa della Poesia, del Sogno, dell’Arte, della Cultura: evento in cui, al di là della partitura testuale e della prova attoriale, contano soprattutto l’insieme, il coro, l’estemporaneità di un’esperienza da fare ora e insieme (teatranti, cittadini e spettatori) che stratifica, somma, moltiplica presenze e prospettive al fine di celebrare, attraverso Mercuzio, i Don Chisciotte di ogni tempo. Motivo per cui anche le repliche al chiuso previste nella capitale (e inserite nel più vasto contenitore “La provincia in scena”) hanno visto la collaborazione di tanti cittadini del quartiere Garbatella, reclutati per moltiplicare, ad esempio, il personaggio di Giulietta o per dare fisicità al popolo di Verona o , più simbolicamente, per inserire una tessera di presenza sospesa tra l’umano e l’artistico  (come ad esempio le splendide bambine in tutù o i piccoli musicisti). Anche al pubblico, accerchiato da continue “attrazioni” e innumerevoli sollecitazioni attinte all’arte figurativa,  è stato richiesto di indossare un guanto rosso (la mano che uccide, metaforicamente, l’ingenuità del bello e giusto) e di portare un libro caro, da sventolare come bandiera nel quadro più carnevalesco – ma anche più politico – della messinscena.

Dunque si capisce che questa operazione, scaturita dal bisogno di guardare alla tragedia di Shakespeare con il cannocchiale rovesciato verso le figure minori e verso quel concettoso Mercuzio destinato ad uscire presto di scena, e perciò, come direbbe Carmelo Bene, a diventare “o-sceno” e a segnare una perdita incolmabile per la tragedia stessa e per l’umanità, tenti una rivalutazione degli “ultimi” a più livelli: non solo i personaggi del dramma (tanto più che, a nostro parere, la parte migliore del testo shakespeariano è proprio la prima, quella fino alla morte di Mercuzio), non solo gli attori/detenuti del carcere di Volterra (una decina in scena, tra cui Aniello Arena), ma anche la gente comune, i bambini, i sognatori, chi crede nel senso (ancora  oggi) della cultura, del libri, dell’arte, delle parole. Punzo stesso si mette in gioco come una sorta di protagonista/demiurgo che recita, duella, legge, orchestra l’insieme azzerando la distanza tra sala e palcoscenico. Immergendo il lavoro in un pieno musicale ottimamente sostenuto da Andrea Salvadori (particolare plauso va al contraltista Maurizio Rippa).
Dissacrando epicamente ogni scampolo di finzione. Compiacendo l’atmosfera da festa, da concerto di piazza, da manifestazione popolare che questa drammaturgia sottende e pretende. Una scelta che ovviamente “apre” lo spettacolo a tanti varianti, a progressive inserzioni e modifiche, a continui innesti: un organismo vivo che cresce nel luogo e con il luogo in cui si radica.

Ma il rischio è quello di mettere troppa carne al fuoco, di con-fondere l’uditorio, di rendere fin troppo esplicito ciò che dovrebbe rimanere implicito, di restituire brandelli di testo slegati tra loro, di – paradossalmente – far distogliere l’attenzione (emotiva e cognitiva) del pubblico. Rimangono impresse battute come : “perché si vede che non ho paura”,  “vivere è di gran lunga più difficile”, “tutta la terra è un forzato di uomini con la testa rasata dal sole”, “sono il clown di Dio”. Il messaggio certamente è chiaro, arriva subito, è facilmente intuibile dopo la prima mezz’ora di spettacolo, per cui molta di questa abbondanza barocca finisce con l’essere didascalica.
E allora, rovesciando anche noi il cannocchiale, ci viene da pensare che questo “Mercuzio non vuole morire” vada letto essenzialmente come qualcosa d’altro rispetto al teatro, vada spostato l’insieme dei codici con cui lo si interpreta, vada spinto oltre lo spettacolo, dentro la vita reale. Fermo restando che, personalmente, sentiamo un po’ di nostalgia per lavori come “I Negri”  (’96) o “I pescecani, ovvero quel che resta di Brecht” (2003). Lì sentivamo la forza di una parola che si fa corpo, l’urgenza espressiva di uomini/attori avvezzi al dolore ma reattivi all’incontro misterioso con il pubblico, il sapore agro – o grottesco – di una scena pronta veramente a mostrare e distorcere la vita.

Alcune immagini video dello spettacolo nella versione di Volterra

           

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=fzMy6yJ55JM]

Free Games Wars: la battaglia per l’ultima frontiera video ludica

ALESSANDRO GUALANDRIS | dofusgameplayLa prova definitiva l’ho avuto quando, una settimana fa, mia madre a pranzo mi ha detto “Non mi funziona più l’app della Rai e non riesco a scaricarla dall’App Store”. Al di là della naturale sorpresa nel sentirle in bocca uno slang informatico di questo livello, mi son poi reso conto della reale portata raggiunta dalle applicazioni per smartphone e tablet, ma anche per PC, visto che è probabile il nuovo Windows 8 sia studiato per utilizzi sicuramente “touch”.

In questo mondo variegato di funzionalità sempre più assurde e, il più delle volte, inutili, una grossa fetta di mercato è certamente legata ai giochi. Partiti in sordina i primi F2P (free to play, giochi gratuiti) sulle piattaforme social, con Facebook in prima fila, negli anni si sono allargati a macchia d’olio su ogni portatile, senza distinzione di casacca: dall’ultimo mela fonino alla più recente versione di android. Molte case produttrici di videogiochi, come la Crytek e l’EA, stanno investendo tempo e denaro in studi di sviluppo per giochi da portare su tablet e smartphone, acquistando interi progetti nati in rete tra appassionati di programmazione. Sui mercati orientali ActionVision ha prodotto e diffuso una versione gratuita di Call of Duty.

Ma qual è la causa di tutto questo interesse per i giochi free? Prima di tutto facciamo qualche considerazione. Come avrete potuto leggere nel nostro speciale sul World Mobile Congress 2013, tenutosi a Barcellona, il mondo mobile come lo conosciamo è destinato a far fronte alla domanda crescente di migliorie tecnologiche stando molto attendo ai costi. I videogiochi su console e PC hanno ancora prezzi elevati, nonostante le offerte tra usato e nuovo disponibili in quasi ogni rivenditore. Il gioco online gratuito offre subito un aggancio diretto del fruitore ludico e un’istantanea diffusione tramite i social. Se pensiamo che solo in Italia 450 mila persone stanno abbandonando la linea telefonica fissa, in favore d’internet e cellulari, è chiaro come questo mercato sia una nuova terra promessa.

David Darling, CEO e co-fondatore di Kwalee, è convinto che “(…) questo mercato è molto competitivo. Solo i giochi migliori scaleranno la testa della classifica. L’opinione comune è che i giochi free to play siano di scarsa qualità, ma in realtà stanno alzando gli standard dell’intera industria.” Nonostante l’azzardo evidente della sua affermazione, è più vicino alla realtà di quanto si pensi.

autclubrevolution gameplayPrendiamo ad esempio Auto Club Revolution, simulatore di guida della Eutechnyx: totalmente gratuito e costituito da gare online, è cresciuto nel tempo grazie all’apporto degli utenti. Con qualità grafiche pari ai migliori titoli per console (da Gran Turismo a Forza motor Sport), è stato implementato negli anni seguendo i consigli e le lamentele degli utenti. Il passaggio tra creatore e utilizzatore si fa sempre più sottile, il tempo reale tra un upgrade e l’altro è calcolato sulla velocità di download.

Ma quindi il guadagno per le case di sviluppo dove sta? Ingrid Florin Muller, responsabile marketing Internazionale di Ankama, in una recente intervista apparsa sulla versione cartacea di Game Republic, parlando di DOFUS, gioco di ruolo che sta spopolando dal 2004, afferma che “(…) sin dall’inizio, lo scopo di Ankama è stato quello di far provare il gioco in maniera gratuita e decidere col tempo se si trattasse di qualcosa su cui valesse la pena spendere soldi. Da lì è nato il sistema che utilizziamo ancora oggi, con download, registrazioni e accesso all’area principianti completamente gratuiti. Il modello con abbonamento è stato introdotto successivamente, ma solo per dare regali e servizi extra.”

Il trucco c’è e si vede. Creare giochi dal forte appeal e dalla veloce meccanica, garantisce un ritorno economico nelle versioni più estese o negli extra, a cui un vero appassionato non può rinunciare. Che siano mappe nuove dove giocare, armi, personaggi o anche solamente vestiti e costumi personalizzabili, mano alla carta di credito o a pay pal. Ma il vero asso nella manica è un altro: il costo. Molti di questi pacchetti hanno prezzi relativamente bassi, a volte pochi centesimi di euro, e sfruttano il fatto che nelle community si creino veri e propri ghetti legati a particolari modalità di gioco, alle quali accedere solo avendone tutti i requisiti bonus. La diffusione è, così, garantita.

Ovviamente anche i banner pubblicitari presenti nelle versioni base di molti giochi, portano un guadagno notevole. Se però vi danno fastidio, non c’è problema, con 99cent potrete acquistare la versione senza spot. Più che strategie di marketing, sembrano partite a scacchi tra cliente e produttore.

Nel video che segue, un veloce sguardo a League of Legends, della Riot Games, che dal 2009 sta incrementando i suoi utenti in tutto il mondo, ispirandosi a Warcraft III e cercando di bissarne il successo. Impresa difficile ma non impossibile.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=aUT5iyCW1ps]

"Il ventaglio" di Michieletto

ventaglio MIchielettoNICOLA ARRIGONI | E’ possibile rileggere Goldoni in maniera rispettosa, intelligente, senza perderne lo spirito, ma anzi guadagnando in gioco e in visione sul presente e sui meccanismi senza tempo dell’amore. E’ possibile farlo se a mettersi alla prova è un regista audace e spregiudicato –ovvero che va oltre il giudicato – come Damiano Michieletto che ha saputo fare de Il ventaglio di Carlo Goldoni un terreno di sfida in cui drammaturgia e inventiva, recitazione e ritmo, lingua e immagine sono un tutt’uno.
Il ventaglio di Goldoni è affidato a una recitazione molto fisica, che sa tenersi in delicato equilibrio fra comicità e un pizzico di inquietata drammaticità. Eccolo il ventaglio simbolo d’amore, ma anche di gelosia, oggetto magico che fa venir fuori la passione fino ad arrivare alle pistolettate e ai capricci fra servi, il tirarsi i capelli fra servette e signore/cittadine. E allora il ventaglio è personaggio in carne ed ossa, è un po’ Cupido e un po’ Puck, recita Shakespeare e cita il Piccolo principe, ha le fattezze danzanti e leggere di Giuseppe Nitti, è colui che pone il microfono ai personaggi perché si raccontino, dicano del loro amore infranto per Giannina (Silvia Paoli), dell’amore omosex di Evaristo il tennista (Daniele Bonaiuti), della mail in cui Crispino (Nicola Ciaffoni) scopre di aver perso la sua lei. Questi inserti sul meccanismo di intrecci amorosi, di passioni ed equivoci, mirabilmente tessuto nella pièce di Goldoni, tiene, non perde in vivacità, ma acquista in inventiva, in racconto, si fa presente e coinvolgente e fa di Goldoni un nostro contemporaneo senza dare il senso di una sovrastruttura posticcia.
Gli intrecci disegnati, raccontati scritti dal Ventaglio/Puck sull’enorme lavagna che domina la scena trovano azione in scena, qualche sedia e i colori sgargianti di un’umanità pop col conte di Alessandro Albertin a ostentare la propria protezione e a combinar guai oltre che a pietre un pranzo, la gelosia di Candida (Giulia Briata), piuttosto che le pretese dell’oste Coronato (Pierdomenico Simone), o ancora le pretese del barone (Emanuele Fortunati), piuttosto che l’ostentata signorilità di Katiuscia Bonato e l’allampanato Matteo Fresch, oppure la provocante Susanna di Manuela Massimi. Ogni personaggio è ben caratterizzato, vive di una propria fisicità e mimica, è un’identità cui l’occhio dello spettatore si abbandona e abitua, ma non è carattere, è tipologia umana eppure credibile in gesti e mossette, in una ridicola quanto fresca e gaia inadeguatezza gioiosa nei confronti dell’andare ondivago e imprevedibile di amore.
Alla fine — come sempre in Carlo Goldoni — tutto torna, l’amore trionfa, o meglio l’amore mette tutti in mutande, ci mette a nudo, ci mostre inermi nei confronti di quella passione che tutto travolge e tutto vince. Buio in sala e la compagnia si presenta in accappatoio si gira e compone il titolo della commedia, regalando al pubblico un Ventaglio che sarà difficile dimenticare, ma soprattutto realizzando uno spettacolo che dimostra come la lettura registica di un capolavoro sia possibile, credibile, condivisibile laddove si mette alla prova nel cerchio chiudo della drammaturgia, senza paura di forzarla, ma con la consapevolezza che pure sempre la storia raccontata dall’autore deve arrivare al pubblico divertendo con intelligenza. Ed è questo che hanno fatto Damiano Michieletto e i suoi attori.

Qui un video con alcune immagini dello spettacolo
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=d57Vyhnv1Cg]

IL VENTAGLIO di Carlo Goldoni, con Alessandro Albertin, Daniele Bonaiuti, Katiuscia Bonato, Giulia Briata, Nicola Ciaffoni, Emanuele Fortunati, Matteo Fresch, Manuela Massimi, Giuseppe Nitti, Silvia Paoli, Pierdomenico Simone, Gianmarco Maffei; scene Paolo Fantin; costumi Carla Teti; disegno luci Alessandro Carletti; regia Damiano Michieletto, produzione Teatro Stabile del Veneto, Teatro e Umanesimo Latno Spa con la distribuzione di Arteven, al teatro Ponchielli, Cremona, 19 marzo 2013.

Le Rane di Teatro Due – il videoreport

Rane-Teatro dueRENZO FRANCABANDERA | Proporre una commedia classica a teatro è sempre un azzardo, perchè, anche quando riletta attraverso uno sguardo attuale, c’è sempre rischio di disallineamento fra aspettative del pubblico, proposta dell’artista e i registri linguistici coinvolti.

Vediamo dunque come è andata con la storica compagnia di Teatro Due di Parma e la rilettura de Le Rane, interpretata e diretta da Roberto Abbati, Paolo Bocelli, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Gigi Dall’Aglio, Luca Nucera,Tania Rocchetta, Marcello Vazzoler per una produzione della Fondazione Teatro Due, in questi giorni per le ultime repliche al Teatro dell’Elfo di Milano, che ospita di nuovo questo gruppo di attori dopo il successo l’anno passato de l’Istruttoria.

Entriamo allora nello schema classico e nella rilettura che ne fa la compagnia. Di tutta la plausibile produzione classica a noi è giusto per intero solo qualcosa di Aristofane. Perché? La mia convinzione è che la risata sia più difficile della lacrima. Necessita di contemporaneità fra pensiero scenico e dinamica di pubblico. E così nei secoli quello che non aveva davvero caratura di valore assoluto si è perso. Alcune cose legate nei testi a riferimenti coevi dei drammaturghi, inevitabilmente si perdono, vanno riletti, e queste riletture sono spesso sgraziate, fuori nota. Come noto, poi, la commedia in origine veniva rappresentata solo in occasione delle feste dionisiache, e fu riconosciuta come forma superiore d’arte dopo la tragedia, di cui ricalcò parte della struttura, con un rilievo particolare all’agone in cui due avversari si fronteggiano, in parti fisse simili a quelle della paràbasis. Caratteristiche che fanno del genere comico un genere soggetto a rapido invecchiamento.

L’ensemble di attori di Teatro Due affronta con la rilettura di questo classico la cruciale questione del ruolo politico della cultura, dell’arte, della poesia e del teatro nella società civile. La scena minimal-geometrica di Alberto Favretto ben illuminata da Luca Bronzo è povera, la palude una circonferenza limitata da un segno rosso, sul fondo una linea blu a demarcare forse il confine fra mondo dei vivi e quello dei morti. Il tono, anche nei costumi, è quello di un cabaret brechtiano. Le musiche un pout-pourri capace di donare leggerezza (divertente il Maramao con le rane che cantano in coro brekekekex koax koax, anche se non siamo certi la citazione letterale possa esser stata agevolmente colta).

Senza entrare troppo nel dettaglio della meccanica dello spettacolo e in quello che riesce più o meno (proprio in ragione di quanto sopra si diceva, ad esempio, l’attualizzazione della parte di battute e riflessioni sull’Italia oggi a mezzo del gigantesco megafono è tagliente e riuscita, più “vecchie” risultano di conseguenza alcune gag del testo originale come l’incontro con Eaco e la parte dello scambio di vesti con Xantia, che poteva essere espunta senza rimpianto) il contest poetico fra Euripide ed Eschilo, proposto sotto forma di vere e proprie “elezioni primarie” al pubblico, diventa il momento capace di diventare via via più alto, fino all’immaginifico finale, con una serie di frammenti di teatro nel teatro prima, seguiti dal deragliamento completo da Aristofane verso il contemporaneo che segue.

Alla fine risulta nel complesso chiara l’operazione del gruppo Teatro Due con questa proposta che, pur tradizionale nel linguaggio scenico, riflette da un lato sulla immaterialità della cultura e la sua leggerezza, capace di levare in alto lo spirito umano, e dall’altro sulla necessità che la produzione culturale arrivi all’interno di un consesso sociale che ne riconosca il valore assoluto e la favorisca, per cercare i nostri Eschilo e Euripide, evitando magari che debbano andare all’estero, o soffocare nella palude di ignavia di una classe dirigente incapace.

E ora il nostro videoreport.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=QSwrnP-TMqQ&w=560&h=315]

New York internazionale, New York spettacolare

PArsifal MetropolitanGINA GUANDALINI | Sembra strano andare all’opera a mezzogiorno, soprattutto nel caso del mistico e sacrale Parsifal, ma qui al Metropolitan l’orario cambia a seconda della lunghezza dell’opera: e il Parsifal è lunghissimo. Ma in questo allestimento non è quasi mai  pesante e si lascia seguire senza stanchezza. Il regista francese François Girard ha già presentato in Europa, a Lyon, questa sua intensissima concezione teatrale, che ora trionfa a New York presso critici e spettatori. Tutto è imperniato sul motivo del sangue.

Nei primi minuti sembra di assistere a Cavalleria rusticana, con i cavalieri del Graal seduti in circolo con panataloni neri e camicie candide, e donne,intimidite, che si raggruppano dall’altra parte della scena, mentre il ruscelletto che divide i due sessi diventa rosso. Oppressi dal peccato, i cavalieri non sono in grado di riconoscere subito il loro magico salvatore nel giovane allucinato e rozzo Parsifal. Nel secondo atto questi conosce la tentazione della carne in una reggia magico-diabolica che è un grande triangolo scarlatto ( simbologia chiarissima) e viene gradatamente allagata dal sangue; anche  i costumi di tutti i personaggi e il letto moderno che troneggia al centro del palcoscenico se ne inzuppano irrimediabilmente ( in Francia ci sono stati non pochi problemi tecnici nel  realizzare questa  intenzione di Girard). La catarsi del terzo atto si svolge nello stesso panorama arido e irrigato di sangue del primo, ma un Parsifal “nuovo” reca l’acqua santa come liquido sostitutivo.

Tutti hanno ammirato il fatto che il direttore d’orchestra, l’italiano Daniele Gatti, dirige quella che resta una delle più complesse composizioni sinfonico-vocali della storia senza avere davanti la partitura. E il suo è un Wagner dove ogni sfumatura viene esaltata, dal fortissimo al dolcissimo.

La principale attrazione dello spettacolo è il Parsifal del tenore tedesco Jonas Kaufmann, bellissimo, aitante, ottimo attore. Che Kaufmann non abbia un’impostazione vocale professionistica, che suoni costantemente opaco e forzato, è un fatto gravissimo nel repertorio italiano e francese, ma in Wagner, con il declamato aspro della sua lingua, non ha molta importanza. I tormenti di Parsifal – se non la sua fresca ingenuità nel primo atto –  sono espressi con efficacia. La stessa constatazione vale per gli altri interpreti, che si avvalgono con intelligenza della scabra scrittura vocale di Wagner, e fanno dimenticare i disastri che combinano in altri repertori.

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SCREAM-munchAl MoMa è esposta fino ad aprile quella versione del celeberrimo Urlo di Edvard Munch, datata 1895, che è stata venduta l’anno scorso da Sotheby per una cifra epocale. E’ l’unica copia in possesso di privati e non di gallerie norvegesi. Il visitatore si trova davanti una tavoletta di legno di esigue dimensioni, eseguita a pastello, ma lacerante di tragicità, soprattutto in quel cielo a strisce rosse che sovrasta l’enigmatica scena. La mostra espone anche molte incisioni dell’artista norvegese, di proprietà del MoMa, che non sempre ci si ricorda di avere osservato in altre visite. Anche in queste è un uso straordinariamente abile della luce che colpisce, con il risultato che paradossalmente le incisioni di Munch sono spesso più luminose e immediate dei suoi quadri a olio e tempera.

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La tradizionale parata di S.Patrick quest’anno, come in tutti gli anni in cui San Patrizio cade di domenica, si è svolta sabato 18 marzo. In questo giorno, si dice a New York, tutti sono irlandesi. Per la Quinta Avenue, dalla 40esima all’80 esima strada,  sfilano bande, majorettes, veterani, reggimenti con cornamuse e kilt, associazioni variamente vestite di verde, ma l’elemento più coinvolgente è proprio questa forte identificazione del pubblico e della città – degli Stati Uniti tutti,  forse – con un’etnia, una cultura che è stata  importante nella costituzione dei Stati Uniti, ma non maggioritaria. Germania, Italia, America Latina, l’ebraismo dell’Europa nordorientale non hanno quindi creato una giornata “dell’identificazione” altrettanto forte e simpatica.

Finita la parata, tutti giù nella Quarta Strada, al  Swift Bar – in realtà pub irlandese finto-tipico – a banchettare con zuppa di patate, salmone alla griglia e naturalmente fiumi di Guinness. Carnagione bianca e capelli carota  sono evidentemente considerati un’esclusiva. irlandese perché nel locale nessuno crede che io non lo sia. Allora recito la formula latina dell’annuncio del nuovo papa perché la mia pronuncia li convinca: ed è tutta un’esplosione di entusiasmo per Papa Francesco. Si uniscono nel sorriso e nelle lodi anche camerieri di colore e una donna con i capelli coperti nell’acconciatura islamica. La persona, lo stile, la provenienza (sud)americana di Bergoglio sono elementi che colpiscono al di là dell’appartenenza al cattolicesimo e che fanno sperare un po’ tutti.

 Alle immagini della parata di quest’anno vi lasciamo con questo video
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A scuola di cittadinanza attiva: l'esperienza di e-twinning

eTP_plus_country_names_medium3MICHELA MASTROIANNI | Forse non ci interessa più o forse non ci interessa abbastanza, ma è certo che siamo cittadini europei e questa cittadinanza ci garantisce una serie di diritti, che integrano quelli nazionali. Tuttavia già nel 2010, nella relazione della Commissione europea sulla cittadinanza dell’Unione, era emerso che i cittadini non esercitano pienamente questi diritti e non ne traggono vantaggio (anche economico) semplicemente perché non li conoscono (per pubblicizzarli nel modo più ampio e capillare possibile il 2013 è stato proclamato Anno europeo dei cittadini).
Stanno imparando invece i benefici della cittadinanza europea tutti gli studenti che, ogni anno in numero sempre crescente, insieme ai loro docenti partecipano ad esperienze di gemellaggio virtuale.
E-twinning è il nome del progetto e della piattaforma dove le classi propongono o raccolgono spunti di studio, ricerca, approfondimento da portare avanti con altre classi europee nell’ottica, propria del social learning, di una costruzione condivisa della conoscenza. I benefici di questa collaborazione sono notevoli: gli studenti familiarizzano con una piattaforma elettronica per l’e-learning; acquisiscono o perfezionano le competenze tecniche nell’uso degli strumenti informatici per la produzione di contenuti digitali; sviluppano capacità di knowldge-sharing, di time managing e di pianificazione delle attività dei gruppi di lavoro; comunicano in una lingua diversa da quella nazionale (molto spesso l’inglese, ma anche il francese e lo spagnolo in progetti che hanno l’obiettivo specifico di migliorare le competenze comunicative nelle due lingue).

Nel video seguente un ambasciatore del progetto spiega come “eTwinning impacts on learners”.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=aj5jlCdcnI8]

I “gemelli elettronici”, moderni discendenti degli ormai obsoleti “pen friends”, in molti casi sfruttano l’e-Twinning come momemento di conoscenza virtuale preliminare ad un’esperienza concreta di incontro e scambio culturale (ad esempio attraverso il progetto europeo Comenius). Sperimentano, infine, che proprio “la diversità dei suoi componenti conduce un sistema ad un livello più alto di coesione”. Questa asserzione è uno dei punti chiave della riflessione condotta dal prof. R. H. Fryer nel suo intervento sulla “Learning Citizenship”, introduttivo alla conferenza e-Twinning “Citizenship and school collaboration” svoltasi a Lisbona dal 14 al 16 marzo.
“The future is not only here for the taking – it is here for the making”, dice ancora il prof. Fryer, secondo il quale “the real issue for eTwinning is how do we make students the authors of society they live in today” e l’insegnante deve essere “someone who draws out the potential in others… giving the pupils a sense of themselves in a social world”.
Alla conferenza di Lisbona sono stati consegnati anche i premi eTwinning 2013. Tra i progetti premiati molti hanno visto la partecipazione di classi italiane: partner italiani del progetto “Pek the traveller Flea 3 – Evolution, Premio europeo categoria 16-19 anni, l’ISIS “Galilei” di Gorizia e il Liceo “Calasanzio” di Carcare (SV). Il video realizzato dalla prof.ssa Alessandra Pallavicini, referente del progetto per l’ISIS “Galilei” di Gorizia, racconta bene l’emozione di essere gruppo di lavoro e l’entusiasmo della creazione condivisa del fumetto, già pronto per il suo quarto viaggio
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Partner italiano del progetto “The Rainbow Village project”, vincitore nella categoria 12-15 anni, l’Istituto Comprensivo di Sermide (MN) e secondo classificato il progetto “AL C2 H6 OL” dell’Istituto comprensivo “Perlasca” di Bareggio (MI). Partner italiani anche nei progetti vincitori del Premio per la lingua spagnola “I tell you – you tell me a tale / Te cuento – Me cuenta un cuento” (III Circolo Didattico “Giovanni XXIII” di Corigliano Calabro), del Premio per la lingua francese “Dans le cercle des signe du zodiaque” (ITCG “Paolini” di Imola) e del Premio speciale Mevlana per la comprensione interculturale “Intercultural dialogue through fairy tales,drama and art” (Circolo Didattico Statale di Staglieno, Genova).

Links:
Per la conferenza di Lisbona –http://conference2013.etwinning.net
Per visitare la piattaforma europea – www.etwinning.net
Il sito italiano curato da INDIRE – http://etwinning.indire.it

Per il testo del Trattato dell’Unione Europea – http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:083:0047:020:it:PDF
Per le opportunità di finanziamento relative all’Anno europeo dei cittadini 2013 – http://europa.eu/citizens-2013/it/eu-funding-opportunities

l fumetto entra al Louvre con i fantasmi di Bilal

Bilal manifesto LouvreMARIA CRISTINA SERRA | Ci sono musei in cui si ritorna sempre, provando l’emozione e lo stupore della prima volta. Si rivive il piacere di tornare su luoghi già vissuti, senza però lo spaesamento iniziale, con lentezza, accantonata l’ansia di consumare in fretta le meraviglie esposte, con lo stato d’animo di scoprirne di nuove. Il Louvre è una di quelle “cattedrali dell’arte” che dentro l’eterna brillantezza dei suoi saloni nasconde sorprendenti angoli inosservati, opere dimenticate sotto l’immobile bellezza. Ci riserva sorprese, puntando i riflettori su “icone” del passato, per rinnovare la loro immensità sul palcoscenico dell’attualità.

E’ successo con la mostra “Gli ultimi anni di Raffaello”, che ha donato luce nuova alla perfezione del grande cantore del Rinascimento, mostrando la grazia dei suoi ritratti, tanto da sfiorare la seta e il damasco della sua “Donna Velata” e stregarci con la complicità del “Doppio Ritratto”, insieme al suo allievo Giulio Romano. Dopo la quiete della classicità, si è imboccata una strada visionaria per unire il mondo dei vivi a quello dei defunti.

Con il dissacrante “I fantasmi del Louvre” si sono dipanate trame oscure, per spingersi oltre i limiti dell’inspiegabile, nelle fascinazioni del terrore. Si sono evocati gli spettri, ci si è affidati alla geniale creatività di Enki Bilal per raccontare i sotterranei inaccessibili e i misteri di un  Palazzo che, nei secoli passati, era stata la dimora di re e regine, aveva ospitato intrighi e lotte per il potere, amori proibiti e odi mortali. Si è affrontato l’occulto, ciò che è sfuggente alla ragione, là dove gli argini della realtà si uniscono ai sogni e si nutrono degli incubi, lasciando che l’incertezza prenda il sopravvento, senza rivelarci il sottile confine fra il bene e il male, fra visibile e invisibile.

Si  è familiarizzato con presenze soprannaturali, con spiriti che disegnano l’aria e assumono trasparenti forme umane. I fantasmi sono riemersi dal lungo sonno e sono apparsi accanto a capolavori di ogni tempo, per sussurrare la loro verità e la raccapricciante fine della loro esistenza, svelando storie parallele a quelle ”ufficiali”. Ricevuta carta bianca da Henri Loyrette, direttore del museo, Enki Bilal, disegnatore, fumettista, pittore, regista, sempre pronto a sfide pirotecniche, si è raccolto nel silenzio dei saloni deserti, immersi nella penombra, nei giorni di chiusura, seguendo tracce evanescenti, echi tenebrosi. ”Alla ricerca”, spiega l’autore, “d’inamovibili testimoni del tempo, nascosti in ogni angolo del museo, in ogni frammento delle opere, nelle fessure dei muri, nell’aria che soffiava dagli spifferi, nelle ombre che si intravedevano sui soffitti”.

Ne è nato un libro avvincente e magnetico, “Les fantomes du Louvre” (Futuropolis ed., 29 E) e una collaborazione intrigante tra il museo e l’artista, che negli anni ha riscritto i codici linguistici del fumetto, elevandoli a poesia. I suoi pannelli sono stati esposti nel Salone dei Sette Camini, vicino alla Gioconda e alla Nike di Samotracia, a ricordare che i confini sono sempre sottili nell’arte e le contaminazioni ci insegnano a meglio “vedere”.

Bilal ha selezionato 22 fotografie, fra le 400 scattate, di opere immortali e, dopo averle stampate su tela, vi ha disegnato figure spettrali, colte nell’attimo del dolore, del terrore e dello stupore per la morte imminente. ”Ho ridipinto il mio sguardo sull’opera e riscritto la vita degli altri, uomini e donne morti in modo violento, una condizione necessaria per diventare fantasmi. Le loro drammatiche biografie, a volte ricalcano la verità storica, altre invece se ne distaccano”. Volano con le ali della fantasia, viaggiano nel tempo e nei labirinti del pensiero, narrano le angosce del presente e il senso di estraneità.

Sono esseri in preda alla dannazione, in cerca del filo spezzato dell’esistenza come i suoi personaggi abituali, con un tocco sofisticato di humour noir ad alleggerire la tensione.

Bilal è un artista che ama l’ avventura, fin dall’esordio negli anni ’70 nella prestigiosa  rivista Pilate, che segnò una svolta epocale nella “bande dessinèe”  proseguita con la pubblicazione di opere “rivoluzionarie” (“La Falange dell’Ordine Nero”, “Fiera degli immortali”, “Trilogia di Nikopel”, “Tetralogia del Mostro”). Le sue complesse architetture grafiche, virate al dark, visionarie interpretazioni della conflittualità del nostro presente e dei sentimenti oscuri dell’animo umano, lo hanno collocato nell’Olimpo del Fumetto, rappresentante di un realismo lucido, ma mai pessimista.

La sua narrazione procede attraverso la fascinazione per il “doppio”, perché “nulla è vero e niente è reale”, sullo sfondo di una memoria collettiva che proietta nel futuro destini e identità da ricomporre. I suoi protagonisti si muovono in un universo in preda al caos: esseri in fuga dentro un mondo che ha smarrito la coscienza. Sono sovrastati dall’ombra della violenza e della corruzione, e dal rischio di una manipolazione della realtà sempre possibile. E’ un’umanità spaesata in cerca di sé e dell’innocenza smarrita. Filtra tra le righe l’immaginario di Bilal: radici bosniache e croate, educazione francese. I tratti di china sono forti, carichi di densità emotiva, di dettagli definiti con pienezza pittorica espressionista e atmosfere avvolgenti. Fra cattedrali arrugginite, cieli di piombo, scorci blu notte si aggirano i suoi eroi errabondi. I suoi spettri, invece, rimarranno per sempre al Louvre.

“La Gioconda” a misurasi con lo sguardo livido di Antonio di Aquila, l’amante di Leonardo. La “Giovane orfana al cimitero” di Delacroix, con sguardo perso, abbracciata a Lantelme Fouache. Albrecht Durer sovrastato dal biancore di Melancolie Hrasny. La testa mozza di un mercenario appesa all’ingiù sopra il ”Bue squartato” di Rembrandt. “La contessa del Carpio “ di Goya insieme ai gemelli con occhi di ghiaccio, che ricordano i bambini “diabolici” in “Giro di vite” di Henry James. “Paolo e Francesca “di Scheffer divisi per sempre da un’altra anima perduta. “San Luigi “di El Greco con Analia Avellaneda, miscelatrice di colori uccisa dai veleni e dal suo talento.

“Voi sapete che io non credo ai fantasmi”, dice Bilal, “ma a questi qua ci credo”.

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Zigulì: nel nome del padre, del figlio – il videoreport

colella zigulìRENZO FRANCABANDERA | Zigulì è lo spettacolo (e prima ancora il libro) dei finalmente. Finalmente in modo semplice e diretto si parla di paternità, mettendo ad centro il rapporto fra il genitore che non partorisce e il generato. Finalmente un flusso di coscienza anti pietistico e vero, una bestemmia d’amore, quella del padre cui è toccato in sorte un figlio “handicappatissimo” prende il posto dei non detti che devi leggere negli occhi di chi ti guarda, guarda la creatura e pensa “che sfortuna”, “che peccato”. E la tua vita trascinata in un vortice di sogni irrealizzabili, abdicazioni a libertà non più possibili, ma anche aperture a una dimensione di amore filiale inconcepibile, dove l’amore soggioga, fa da vittima e carnefice. E quel sentimento da togliere il respiro che non ti lascia libero mai, come i gesti sempre al limite di un figlio che non sa dove e come esista il confine fra giocare e farsi male, fra essere umano e selvaggio della natura vivente.

Vedendo Zigulì e sentendo poi, come abbiamo fatto e proponiamo in videoreport anche a voi, Francesco Colella e Francesco Lagi (Teatrodilina), sembrano questi  i temi che i due hanno tratto dal coraggioso e controverso libro di Massimiliano Verga, che in un misto di amore e rabbia racconta la sua esperienza di genitore di un figlio gravemente disabile.

Le battaglie non combattute e quelle perse, l’impossibilità di una vittoria plausibile, stimolano una drammaturgia ricostruita da Lagi per la scena e centrata sul conflitto interiore nel rapporto con il figlio, che infatti in scena è assente (nè viene impersonificato da alcunchè di simbolico). Questa figura di padre solo,  d’amore, sinceramente votato ad esplicitare in forma anche crudele il suo ambivalente sentire rispetto al figlio che mai potrà restituirgli alcun sentimento, è affidato all’interpretazione di Francesco Colella, attore di grande talento, che dona alla figura narrante, all’uomo, un colore preciso pur nella continua e ondivaga risacca di sentimenti e risentimenti. Il monologo sa di bestemmia ma non oltraggia, anzi innamora, commuove: non in forma televisiva, però, ma umanissima, dolente, fragile.

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