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venerdì, Maggio 9, 2025
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Giovani compagnie tra maratona, gabbiani e sogni nel cassetto

vanaclu

VINCENZO SARDELLI | Fisicità e dinamismo sono i tratti comuni di tre spettacoli di scena a Milano durante il ponte di Ognissanti. Chi non è partito ha potuto apprezzare un teatro di movimento e figura, in fuga dai cliché tradizionali.

A partire da Maratona di New York, soggetto di Edoardo Erba, con Cristian Giammarini e Giorgio Lupano, in programma al Leonardo. E qui è doveroso un cenno a Zuzzurro e Gaspare, che avrebbero dovuto inaugurare la stagione del teatro di piazza Leonardo da Vinci; al dolore per la morte di Andrea Brambilla, clown in impermeabile dalla comicità gentile.

Giammarini e Lupano, registi e interpreti, iniziano sul palco un’ora di corsa. Si allenano di notte per preparare la maratona della Grande Mela. Corrono, corrono. E intanto parlano. Lo straniante brainstorming lambisce ricordi, rimpianti, aneddoti, con una sceneggiatura leggera di disarmante realismo. Il ritmo della corsa varia. Il taglio onirico è accentuato da un mega video che proietta sullo sfondo immagini in bianco e nero di rara bellezza, poi flash di vita vissuta. C’è un che di tridimensionalità, luci lunari e anabbaglianti. Intanto scorre l’originalissimo sound post-rock dei Sigur Rós, lunghe suite mistiche, paesaggi sonori di atmosfere fredde e rarefatte. Ma dove vanno davvero i due amici? Chi taglierà per primo il traguardo: quello dalle ampie falcate che precede, o l’altro che segue con andatura sbilenca? La matassa si dipana con sviluppi surreali. Particolare questa road-story dalle venature introspettive e dai geli cosmici. Lo sforzo fisico si accompagna a una buona capacità recitativa (Giammarini è di scuola ronconiana). Tutto è calibrato e contenuto in un’ora di spettacolo, tempo adeguato anche alla complessità dei temi toccati.

Coraggioso il tentativo della compagnia Vanaclù di «dis-adattare» il Gabbiano di Anton Cechov, riproponendolo in chiave farsesca con il titolo di GabbiaNO (di scena al Tertulliano). Perché Cechov è complesso già di suo, straordinariamente contemporaneo, e non richiede aggiornamenti. In questa storia balneare di amori traditi, successi effimeri e solitudini i personaggi girano a vuoto intorno a un ombrellone e a una piscina gonfiabile che richiama un lago. Afa, noia esistenziale. Tutti dialogano con tutti. Senza comunicare davvero. È la gabbia che Treplev rifiuta. E si spara, sulle note di Tenco. La fitta è eccessiva per chi ama il cantautore genovese, stride con la messinscena leggera. Altre varianti rispetto all’originale: lo scrittore Trigorin, amante dell’attrice Irina, madre di Treplev, nelle mani non ha una lenza ma un videogioco; Sorin, fratello di Irina, è un disabile in carrozzella sin dall’inizio, e passa dalla radio canzoni stile vacanza-impegnata (Mina, Lauzi, Graziani, Martino). Costumi sgargianti, occhialoni da sole, riviste gossip e luci al neon, con l’esilarante trovata di By This River di Brian Eno cantata a cappella, sono il marchio di questo progetto di Woody Neri, regista e attore in scena. Che richiede ulteriore labor limae. La commistione di generi e la scansione delle scene vanno meglio dosate per evitare derive pulp di cui non è chiaro l’esito. Alti e bassi nella recitazione, dove svetta Marta Pizzigallo. Stefania Medri, Massimo Boncompagni, Loris Dogana, Gioia Salvatori, Liliana Laera e Mimmo Padrone completano il cast.

Cresce la compagnia Idiot-Savant, cui la regia di Benedetto Sicca reca un valore aggiunto. Il silenzio dei cassetti (al Teatro di Ringhiera) è una pièce a quadri che mette insieme teatro di figura e d’ombre, con una prova attoriale intensa e generosa di tutti i protagonisti (Pierpaolo d’Alessandro, Paola Michelini, Valentina Picello, Filippo Renda, Matthieux Pastore, Mattia Sartoni, Laura Serena, Simone Tangolo). Anche qui si copre bene il palco, meno bene il vuoto esistenziale. I personaggi hanno identità multiple. L’ipocrisia e il tornaconto sono le regole di base di quest’umanità in disarmo. Pressioni, trame, tresche, senso di precarietà. E lo spiraglio che il bisogno d’autenticità sia soddisfatto, che l’amore vinca. Tanti cassetti. A dar voce a ognuno di essi non solo gli attori, ma gli stessi spettatori, in un territorio dove tutto è possibile. Luci da piano-bar, musiche stranianti registrate alla viola in una grotta da Chiara Mallozzi. E un lenzuolo che diventa sipario, schermo, alcova, pavimento. E scandisce le scene fino a volare via sulle nostre teste, sulle ombre dell’anima. E scopre un cenno di danza tra due innamorati. Sulle foglie secche, citazione di Autumn in New York.

Maratona di New York
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Ci sono Bukowski, Fante e Faulkner in una clinica. E non è una barzelletta

CHARLES BUKOWSKIEMANUELE TIRELLI | Qualcuno ha deciso che è necessario girare un film su John Fante. Che al cinema manca un film su John Fante. Però è meglio se andiamo con ordine. Ci sono Bukowski, Fante e Faulkner nella camera di una clinica. E non è una barzelletta. Ok, Faulkner è fisicamente assente, ma viene richiamato più volte e con insistenza, quindi è proprio come se ci fosse. John Fante è ricoverato in questa clinica dove vivrà i suoi ultimi giorni di vita (cieco e senza gambe per il diabete) e dove detterà il romanzo Sogni di Bunker Hill alla moglie Joyce. Bukowski lo considera uno dei più grandi autori che siano mai esistiti. Il migliore. Un punto di riferimento. Un Dio. Fante lo conoscono in pochi, mentre Bukowski, ‘mbriaco e buono, ha molto successo, è un autore simbolo ed ha anche un certo peso, tant’è che minaccia il suo editore: “se non ripubblichi Fante, non ti consegno il mio prossimo libro”.
Che che se ne dica, che si rispettino o meno i gusti, la prosa di Bukowski non ha niente a che vedere con quella di Fante. Anzi, forse la prosa di Bukowski non ha niente a che vedere nemmeno con la poesia di Bukowski. Comunque i due sono lì, in questa stanza dove l’autore di Chiedi alla polvere tirerà le cuoia e dove non sa che un giorno morirà di nuovo per il film con Colin Farrell e Salma Hayek, perché quella pucciosa e picciosa storia d’amore lui non l’ha mai scritta. Perché Arturo Bandini, alter ego di Fante e quindi tozzo e nodoso, gli mollerebbe un bel cazzotto sul naso a Colin Farrell e pure al regista Robert Towne e magari pure ad Alessandro Baricco per aver scritto quella prefazione. Senza dimenticare che lo scorso agosto il regista francese Charles Guérin Surville, come dicevo all’inizio, ha dichiarato di voler girare in Molise alcune scene del suo nuovo film ispirato alla figura dello scrittore italo-americano, con gli attori Olivier Marchal e Ornella Muti. E quindi i cazzotti e i manrovesci potrebbero anche aumentare a dismisura.

Bukowski invece è sempre stato raccontato così come è. Certo, magari anche lui è stato incompreso e di sicuro, dopo averlo letto, molti hanno partorito la brillante idea: “Voglio scrivere! Ho deciso che voglio scrivere perché se può scrivere Bukowski posso farlo anche io”. E invece no. Sarà anche divertente leggere “rutto, cazzo, tette, scolo”, ma scrivere è un’altra cosa. Ad ogni modo, in questa stanza di una clinica di Los Angeles dove tutto durerà fino alla primavera del 1983 Henry Charles Bukowski va a trovare il suo amico John Fante e si sente dire che lui, John, ha lavorato a Hollywood nello stesso periodo in cui c’è stato anche William Faulkner. Sì, perché alcuni autori americani erano letteralmente corteggiati dai dollari del cinema e non sapevano dire di no alla possibilità di comprare una casa a Malibu, avere un conto in banca sicuro e non rischiare di tornare a vivere nelle topaie di Los Angeles. Quindi il cinema per loro era motivo di benessere, sicuramente, ma anche di grandi frustrazioni, perché li allontanava dal loro vero e più sincero amore: la letteratura.

JOHN FANTEAllora Fante dice a Bukowski che quando Faulkner lavora a Hollywood c’è anche lui. E che Faulkner è il peggiore di tutti ed è sempre ubriaco lercio. A volte fa addirittura fatica a entrare nel taxi da solo. Anche Fante alza spesso il gomito, un po’ per la frustrazione di non avere successo come scrittore, un po’ perché molti autori americani l’alcol se lo portano dietro dalla gioventù. E anche Bukowski non s’è mai fatto pregare per scolarsi una confezione di birre. Però Faulkner se ne va da Hollywood, lascia, mentre Fante non ha il coraggio e resta lì. Faulkner è il suo punto di riferimento. Faulkner scrive come avrebbe voluto scrivere lui, tant’è vero che lo fa dire anche al suo Arturo Bandini. Faulkner è per Fante quello che Fante è per Bukowski. Allora Bukowski gli fa un regalo, gli dice “tu scrivi bene come Faulkner” e riporta tutto quello che vi ho raccontato nella poesia “Small conversation in the afternoon with John Fante” che forse è meglio di tanti film che potrebbero girare su di lui.

A questo link la poesia

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Il Beethoven di d’Elia: biografia di un genio

beethovenVINCENZO SARDELLI | Il Beethoven di Corrado d’Elia è estro senza bisogno d’orpelli. Attore e scena. Sgabello bianco al centro, vuoto totale, azzurro luminoso; un susseguirsi di pannelli quadrati, un po’ lampade un po’ carta da musica.

È un attimo, un vortice. Rullano le luci, casca la musica. Ti ritrovi inchiodato alla poltrona come d’Elia allo sgabello.  Il personaggio, la sala, tutto è fermo. Come la mano di Beethoven nell’Inno alla Gioia. E ne nacquero le quindici note più belle di sempre.

Io, Ludwig van Beethoven, liberamente tratto da Lezione 21 di Alessandro Baricco, è la biografia di un genio: l’infanzia tormentata, la mortificante afasia fino a dieci anni, i primi successi, le manifestazioni di un temperamento ardente, i molteplici antitetici stati d’animo, ambizioni e passioni. È il ritratto di un artista moderno che detestava virtuosismi e sonorità leziose, e deragliò dalla tradizione. Unendo forza e sensibilità. Dando fisicità al suo atto creativo.

La narrazione di d’Elia rende l’esuberanza del musicista, acclamato solista-improvvisatore al pianoforte, direttore d’orchestra, compositore. C’è l’uomo, insofferente e accigliato, utopista e sregolato: andatura scimmiesca… bestia, così lo chiamavano. Una vita di povertà, solitudine e disperazione. Annodata alla sordità, che distinse oltre metà della sua vita.

Genio e sregolatezza: ma quella trasandata, unta, asociale, finalizzata all’arte e solo allora sublime. Sarà per questo che d’Elia, autore, regista e attore, qui è un direttore d’orchestra dalla cravatta slacciata e dai capelli impomatati. E centellina parole come le note su uno spartito. Con scosse e ripartenze improvvise.

È un oracolo di parole divulgative e liberatorie, imbevute degli ideali della Rivoluzione Francese. Trilli, bisbigli e urla sono tutt’uno con la musica, con luci ben dosate nelle varie tonalità (azzurro, rosso, indaco, viola, fucsia, verde, grigio opalescente, bianco abbacinante) da Alessandro Tinelli.

L’identità tra racconto, musica, mimica e luci è la nota dominante di questo monologo. D’Elia non entra nel personaggio. Entra nell’anima. Tutto è equilibrio. L’Allegro con brio è penetrante, porta la pièce a un fortissimo che si smorza e lascia il posto a un lirismo raccolto. I temi si alternano misurati fino alla conclusione gioiosa. In mezzo c’è lo Scherzo-Allegro vivace con le sue rappresentazioni fantastiche. Il Finale-Allegro si serve di variazioni. Procede attraverso trasposizioni e aggiunte. Il flusso si interrompe con un Poco andante, raggiunge nuove altezze drammatiche. E sfocia in un finale travolgente.

 

A “Le vie dei Festival” le mille Napoli di Servillo

MARIA PIA MONTEDURO | Non una Napoli oleografica e scontata, non una cartolina “sole-mare-pizza-mandolini”, non un omaggio fine a se stesso alla città di Partenope, non un’invettiva veemente contro la camorra. È un’altra la Napoli che Toni Servillo racconta, leggendo, ma sarebbe più esatto dire interpretando, le parole di scrittori napoletani, accomunati principalmente dal fatto di essere uomini di teatro o molto vicini al teatro. Salvatore Di Giacomo (Lassamme fa’ Dio), Eduardo de Filippo (Vincenzo De Pretore, Nfunno), Ferdinando Russo (A Madonna d’e’ mandarine, E’ sfogliatelle), Raffaele Viviani (Fravecature, Primitivamente), Mimmo Borrelli (A sciaveca, Papule), Enzo Moscato (Litoranea), Maurizio De Giovanni (O’ vecchio sott ‘o ponte), Giuseppe Montesano (Sogno Napoletano), Michele Sovente (Cose sta lengua sperduta), Antonio De Curtis (‘A livella), Alfonso Mangione (autore delle parole della canzone ‘A casciaforte): quindi tradizione indiscussa, fama consolidata, ma anche nuovi nomi emergenti che non sfigurano accanto a mostri sacri. Questi gli ospiti che Servillo chiama a testimoniare e a illustrare una Napoli dove Paradiso, Purgatorio e Inferno coabitano e coesistono, dove il sacro va a braccetto con il profano e dove, anzi, il profano ha tante cose da insegnare al sacro. Una Napoli terragna, ctonia, ancestrale, puteolana e flegrea, come la definisce lo stesso attore-regista, in un Teatro Vascello di Roma affollato all’inverosimile per lo spettacolo che ha aperto la XX edizione de Le vie dei Festival.

Ci si può chiedere il perché di questo “tutto esaurito” in ogni ordine e grado: la fama meritatissima dell’interprete, l’interesse che il teatro napoletano ha sempre suscitato e continua a suscitare a Roma (e non solo), la serata “libera” da altri impegni teatrali (tradizionalmente il lunedì è giorno di riposo per le sale teatrali), l’apertura di una rassegna apprezzata sempre di più da critica e pubblico? Sta di fatto che la serata è risultata interessantissima, e non solo per aver ascoltato la gamma di interpretazioni vocali, facciali, mimiche con cui Servillo ha dato spessore alla lettura dei brani – e già questo sarebbe motivo soverchio di soddisfazione; ma perché ne è uscita appunto un’immagine non necessariamente prevedibile di Napoli, pur nella lettura di brani celeberrimi, quali ad esempio “A livella” di Antonio de Curtis-Totò. È una Napoli sofferente, che non comprende appieno il perché di tanta sofferenza e sembra che neanche l’al di là (con tutti i suoi illustri abitanti) lo comprenda appieno. Una Napoli che tiene quasi in scacco le regole del Paradiso, mettendo “in difficoltà” il Padre Eterno. Una Napoli che nelle “filastrocche” di Enzo Moscato e di Mimmo Borrelli (tourbillon di immagini della città, dei suoi drammi e delle sue gioie)  stordisce chi la osserva, ma tramortisce anche chi la vive, la conosce e, con rabbia dolente, la ama. E lo stesso dialetto napoletano si dispiega in una varietà veramente apprezzabile. È la lingua ironica e sorniona di Di Giacomo, la melanconica di de Filippo, ma è anche quella acre, violenta, spesso turpe, di Moscato, Borrelli, Sovente; è la lingua sognante di De Giovanni e quella sagace di Totò. Per ogni lingua, per ogni autore, Toni Servillo cambia registro interpretativo, pone l’accento su un aspetto, su un vizio sociale, su un dramma personale, senza cadere nello scontato, nel macchiettistico, nel déjà vu.

Napoli sembra contenere mille tranelli per chi la voglia veramente comprendere e ogni autore, consapevole di questo, offre “una” chiave di lettura, non “la” chiave. E così l’interprete, da grande attore qual è, presenta Napoli nelle sue diverse sfaccettature, perché in essa convivono, interagiscono e si compenetrano forze diverse, spesso antagoniste e contraddittorie. Uno spettacolo che si presenta come la classica serata di teatro da leggio – oggi particolarmente diffusa anche per la crisi economica – e che invece ha fatto sfilare sul palcoscenico spoglio, dalla scenografia essenziale (per non dire totalmente assente) una rassegna di autori, personaggi, mondi diversi, unificati nella figura, teatralmente parlando, carismatica di Toni Servillo.

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A "Le vie dei Festival" le mille Napoli di Servillo

MARIA PIA MONTEDURO | Non una Napoli oleografica e scontata, non una cartolina “sole-mare-pizza-mandolini”, non un omaggio fine a se stesso alla città di Partenope, non un’invettiva veemente contro la camorra. È un’altra la Napoli che Toni Servillo racconta, leggendo, ma sarebbe più esatto dire interpretando, le parole di scrittori napoletani, accomunati principalmente dal fatto di essere uomini di teatro o molto vicini al teatro. Salvatore Di Giacomo (Lassamme fa’ Dio), Eduardo de Filippo (Vincenzo De Pretore, Nfunno), Ferdinando Russo (A Madonna d’e’ mandarine, E’ sfogliatelle), Raffaele Viviani (Fravecature, Primitivamente), Mimmo Borrelli (A sciaveca, Papule), Enzo Moscato (Litoranea), Maurizio De Giovanni (O’ vecchio sott ‘o ponte), Giuseppe Montesano (Sogno Napoletano), Michele Sovente (Cose sta lengua sperduta), Antonio De Curtis (‘A livella), Alfonso Mangione (autore delle parole della canzone ‘A casciaforte): quindi tradizione indiscussa, fama consolidata, ma anche nuovi nomi emergenti che non sfigurano accanto a mostri sacri. Questi gli ospiti che Servillo chiama a testimoniare e a illustrare una Napoli dove Paradiso, Purgatorio e Inferno coabitano e coesistono, dove il sacro va a braccetto con il profano e dove, anzi, il profano ha tante cose da insegnare al sacro. Una Napoli terragna, ctonia, ancestrale, puteolana e flegrea, come la definisce lo stesso attore-regista, in un Teatro Vascello di Roma affollato all’inverosimile per lo spettacolo che ha aperto la XX edizione de Le vie dei Festival.

Ci si può chiedere il perché di questo “tutto esaurito” in ogni ordine e grado: la fama meritatissima dell’interprete, l’interesse che il teatro napoletano ha sempre suscitato e continua a suscitare a Roma (e non solo), la serata “libera” da altri impegni teatrali (tradizionalmente il lunedì è giorno di riposo per le sale teatrali), l’apertura di una rassegna apprezzata sempre di più da critica e pubblico? Sta di fatto che la serata è risultata interessantissima, e non solo per aver ascoltato la gamma di interpretazioni vocali, facciali, mimiche con cui Servillo ha dato spessore alla lettura dei brani – e già questo sarebbe motivo soverchio di soddisfazione; ma perché ne è uscita appunto un’immagine non necessariamente prevedibile di Napoli, pur nella lettura di brani celeberrimi, quali ad esempio “A livella” di Antonio de Curtis-Totò. È una Napoli sofferente, che non comprende appieno il perché di tanta sofferenza e sembra che neanche l’al di là (con tutti i suoi illustri abitanti) lo comprenda appieno. Una Napoli che tiene quasi in scacco le regole del Paradiso, mettendo “in difficoltà” il Padre Eterno. Una Napoli che nelle “filastrocche” di Enzo Moscato e di Mimmo Borrelli (tourbillon di immagini della città, dei suoi drammi e delle sue gioie)  stordisce chi la osserva, ma tramortisce anche chi la vive, la conosce e, con rabbia dolente, la ama. E lo stesso dialetto napoletano si dispiega in una varietà veramente apprezzabile. È la lingua ironica e sorniona di Di Giacomo, la melanconica di de Filippo, ma è anche quella acre, violenta, spesso turpe, di Moscato, Borrelli, Sovente; è la lingua sognante di De Giovanni e quella sagace di Totò. Per ogni lingua, per ogni autore, Toni Servillo cambia registro interpretativo, pone l’accento su un aspetto, su un vizio sociale, su un dramma personale, senza cadere nello scontato, nel macchiettistico, nel déjà vu.

Napoli sembra contenere mille tranelli per chi la voglia veramente comprendere e ogni autore, consapevole di questo, offre “una” chiave di lettura, non “la” chiave. E così l’interprete, da grande attore qual è, presenta Napoli nelle sue diverse sfaccettature, perché in essa convivono, interagiscono e si compenetrano forze diverse, spesso antagoniste e contraddittorie. Uno spettacolo che si presenta come la classica serata di teatro da leggio – oggi particolarmente diffusa anche per la crisi economica – e che invece ha fatto sfilare sul palcoscenico spoglio, dalla scenografia essenziale (per non dire totalmente assente) una rassegna di autori, personaggi, mondi diversi, unificati nella figura, teatralmente parlando, carismatica di Toni Servillo.

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Ranuncoli #4 – Hamburger culturale e un bamby rotto in cucina

elettrodomestici cucinaCOSIMA PAGANINI | La cultura è morta. Chi di voi non ha assistito ad almeno un funerale della cultura con noninvitati muniti di catafalchi  e  invitati che biasimano la mancanza di buon gusto dei necrofori, mentre altri invitati ne attribuiscono la colpa a quella pulsione di morte che funesta la civiltà da più di un secolo? Ma tant’è,  parafrasando la moda die Leiche ist das neue Schwarz (il tedesco funziona sempre se ci si deve mostrare colti). Un cadavere sta bene con tutto e poi lo puoi mettere nell’armadio se non ti serve più. Per ora, sarà  che si avvicina il giorno dei morti, si usa moltissimo. C’è il corpo del dittatore che svanisce davanti a 300 spettatori (e 300 la sera prima) ignari, chi di musica, chi di teatro, chi di tutto, e questi ultimi sono i migliori «‘ché sono riusciti a vedere lo spettacolo come un’opera totale senza sapere nemmeno chi era Wagner».  E c’è stato Wilson in quella fantomatica unica rappresentazione per pochi che ricordava un po’ il Corvo (il film), senza nessun effetto sorpresa, in quanto di vita il maestro non ne ha mai mostrata troppa; e poi la cantante italiana sorella dell’altra cantante italiana che si era sposata col dio del tennis, revenant per opera di uno scrittore italiano già apprezzato, chissà perché, in un’esibizione, che, ora possiamo definire in memoria, di un altro cantante famoso famosissimo. Americano come quella poetessa santificata che non potrà mai morire per volontà delle legioni di anoressiche, sorelle ideali dello scrittore-russo-nichilista-esteta che muore oscenamente in scena invece che spararsi in ‘osceno’. E c’è la famosa attrice morta forsesuicida forseuccisa che si è esibita in una festa privata (ma anche un po’ pubblica) nelle carni di una performer che non si capisce se canta male di suo o per fedeltà alla defunta (che in fondo così male non cantava).

cameriereAlla festa c’era comunque di peggio: camerieri che ti dicevano che il vino era finito e ti veniva in mente quel genere di feste di quand’eri bambino quando la fanta finiva subito a meno che non eri il figlio del notaio; e ancora, venditrici di bamby e gnometti che a Milano fanno una vita grama e ti attaccano un bottone per dirti che in provincia il bamby e lo gnometto ce l’hanno tutti perché lo regalano quando ti sposi, o ai figli universitari fuori sede, e chi ce l’ha lo fa vedere, mentre quei pochi che sono riuscite a piazzare in città giacciono nascosti nei ripostigli… E tu rispondi: bamby? È mainstream. Meglio kiiwood, il concorrente giappo-tedesco che costa anche 200 euro  in meno e che bamby proprio no, meglio addirittura un qualsiasi superfrullatore da centro commerciale del sabato pomeriggio (una così ci passa tutto il pomeriggio del sabato nei centri commerciali). Costa 10 volte meno e non fa provincia, e mica siamo casalinghe disperate che dobbiamo avere elettrodomestici che funzionano. Ma se tu piazzi bamby come mai sei a questa festa? E ti risponde: ma perché a volte vendo anche kiiwood… nella scatola dei bamby. E allora ti spiega che il problema è la scatola, che queste sciattone con le scarpe dal nome tedesco usano tutte delle belle scatole. E tu allora: bello? Ma Muccia docet: «La bruttezza è attraente ed eccitante. La ricerca della bruttezza, per me, è molto più interessante dell’idea borghese della bellezza».  Mentre dici questo ti guardi intorno e vedi che davvero di bellezza in giro non ce n’è troppa e le muccie sono ovunque.

E poi si è fatto tardi e mentre te ne torni a casa nella car-zucca ti domandi: come faremo senza la cultura (o meglio il suo cadavere) quando tra qualche giorno, passata la festa, dovremo rimetterla nell’armadio?

Quasi certamente non se ne accorgerà nessuno perché nel frattempo la scatola Qualità ha già sostituito il corpo morto Cultura. Sono diventati sinonimi come ai tempi di kultur e civilisation (che non è civilization di Sid Meier) e usiamo la parola Qualità quando ci vergogniamo troppo di nominare la Cultura, e un brivido ti percorre mentre un branco di ragazze col mal di luna e ragazzi lupo ci attraversano la strada e ti ricordano quando halloween non esisteva, ma è solo un brivido, pensando a domani.

I riferimenti stavolta trovateli voi, se volete.

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Ibsen-von Mayenburg-Ostermeier, terzetto d’eccezione

xxBRUNA MONACO | Che dire di uno spettacolo che dal 2005 a oggi non ha interrotto la tournée e ha ricevuto critiche d’encomio e ovazioni? Che dire di un regista che a quarantacinque anni ha firmato più di trenta regie, tutte pièces apprezzatissime, sei delle quali ancora vanno di teatro in teatro a raccogliere consensi? Il successo dell’Hedda Gabler vista al Teatro Argentina all’interno del Romaeuropa Festival è di per sé un commento eloquente a questo spettacolo che Thomas Ostermeier ha messo su in modo impeccabile. Come spesso accade agli spettacoli destinati a lasciare il segno, anche Hedda Gabler parte in sordina, a dispetto dell’imponente e glaciale scenografia. Su una piattaforma girevole circolare un’ampia vetrata dalle lastre scorrevoli divide due ambienti: il soggiorno col suo design moderno, una veranda. Il soffitto di specchi ci fa tenere d’occhio ciò che accade dentro e fuori dalla scena.

Sulle prime, il pubblico vive lo stesso disagio dei personaggi che si muovono nella nuova casa, algida, senza riuscire a riempirla; e lo proietta sulla scenografia inglobante che prende tanto spazio, troppo, nella loro attenzione. Ma presto l’interesse degli spettatori sarà tutto per l’azione, inizia a spiegarsi la vicenda sorretta dalla bravura degli attori. La regia è pulita, lucida. Ostermeier ha saputo leggere con perspicacia il dramma scritto da Ibsen oltre un secolo fa, traducendo in gesti, sguardi e respiri le sfumature e i non-detto del testo. La recitazione naturalistica è ornata accenti parodici che per contrasto rendono ancora più credibili i dialoghi e le situazioni.

Per l’operazione di rilettura del testo, Ostermeier si è lasciato aiutare da un drammaturgo di professione: Marius von Mayenburg suo storico collaboratore. Non si può parlare di adattamento in senso stretto, piuttosto di “aggiornamento”: il testo di Ibsen è riportato quasi integralmente dagli attori. Ma trattandosi di una Hedda contemporanea, von Mayenburg lo ha emendato degli elementi che lo legavano al contesto storico-culturale di fine ‘800. Mancano i riferimenti al differente status sociale degli sposi, mancano le cameriere, il pianoforte. Il passato di Hedda e le sue relazioni sono affrontati come un dato non problematico, senza particolari spiegazioni.

La trama è nota: l’unica cosa che riesca bene alla bellissima figlia del generale Gabler, Hedda, è annoiarsi a morte. Così, si stanca prestissimo del novello sposo, il promettente studioso Jörgen Tesman. La ricomparsa dello scrittore Eylert Lövborg, un suo amore giovanile, aumenta la sua irrequietudine, a cui si aggiunge l’invidia: Eylert da scapestrato che era, è diventato un uomo savio grazie a Thea, ex compagna di collegio di Hedda. Ma Eylert perde il manoscritto di un’opera geniale scritta proprio con l’aiuto di Thea. E purtroppo lo trova Hedda che per noia o per vendetta, lo distrugge. A Eylert, disperato per la perdita non dice nulla, anzi gli offre la sua pistola per compiere una “bella azione”, per regolare il “conto con se stesso”. Eylert però non si suicida, un colpo parte accidentalmente in casa di una prostituta e lo uccide. L’amico di famiglia e corteggiatore di Hedda, Brack, riconosce la pistola della donna e la ricatta. Forse per non subire il ricatto di Brack, forse definitivamente vinta dalla noia, Hedda si spara.

Tutto ciò è fedelmente rispettato da von Mayenburg e Ostermeier. Quello sul testo è stato un lavoro di finissima limatura che ha ben atteso l’obiettivo: fare un testo verosimile oggi quanto nel 1890.

C’è una sola vera deroga al rispetto del testo, nel finale. E con questa Ostermeier getta una luce diversa, del tutto autoriale, sul percorso scenico del personaggio di Hedda: dopo il suo colpo di pistola, nessuno “si precipita nel salottino” a vedere cosa le sia accaduto, come recita invece la didascalia di Ibsen. Tesman, Thea e Barack restano indifferenti. Intenti nelle loro attività recitano con tono disincantato, con una smorfia di sarcasmo, le battute che Ibsen aveva previsto fossero dette “gridando” da uno, “semisvenuto” dall’altro. La donna che, nel bene e nel male, era stata il polo d’attrazione della scena fin dall’inizio, nell’ansia di esercitare il proprio potere su qualcuno, ha piano piano svelato il proprio carattere, perdendo così l’ambiguità su cui si fondava la sua seduzione. In assenza di un contesto sociale che la schiaccia in quanto donna, e che quindi, in qualche modo la protegge, fungendo da alibi ai suoi comportamenti, l’Hedda contemporanea si mostra alla fine, solo vacua, e priva di interesse agli occhi dei suoi coprotagonisti, mossi tutti, invece, da una qualche passione.

Se qualcuno ha creduto di vedere nel gesto folle di Hedda (bruciare il manoscritto prima, indurre Eylert al suicidio poi) i prodromi dell’“atto gratuito” che vent’anni dopo André Gide avrebbe teorizzato e fatto compiere a Lafcadio ne I sotterranei del Vaticano, beh, quella è forse la Hedda di Ibsen, sicuramente non quella di von Mayenburg e Ostermeier.

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Emily: la reincarnazione. La Dickinson, fra il verso e l’icona

Dickinson_Elena Russo Arman
foto fabio mantegna

RENZO FRANCABANDERA | Un tavolo-scrivania, una scala che va verso il soffitto, due casette di tulle trasparenti ai lati del palco; e una cascata di lampadine pronte a diventare fioche stelle nella notte americana. Poco più.
Siamo nell’universo di auto reclusione della poetessa, quella casa-mondo, la stanza di color bianco purezza in cui la giovane, figlia di un notabile della provincia americana, trascorse, di fatto, tutta la sua esistenza. Vita e morte collassano in un’ora di spettacolo e attraverso i versi e frammenti dell’epistolario della Dickinson (di cui è possibile trovare tutto a questo link) rivivono, fra ansie, angosce, tormenti uterini e memorie infantili, con suggestioni che vanno da Carroll al codice iconico post punk.
Colorando di fantasie vivissime tutto quello che la circondava, la Dickinson un secolo e mezzo fa mise in versi di grandissima modernità l’ingenuità di una presenza semplice, di uno sguardo tanto fragile da sentire un piacere di potenza mortale nel ronzio di un moscone nella sua stanza. Una parola capace, nella rilettura enfatizzata, deframmentata, carica fino alla sovraesposizione della Russo Arman, di diventare materia contemporanea.

In quale humus nasce La mia vita era un fucile carico (being Emily Dickinson)?
Fra i fermenti culturali più interessanti e contaminanti di questi ultimi cinque anni a Milano non può tacersi la serie di incontri che hanno avvicinato le esperienze artistiche di Elena Russo Arman, attrice componente del gruppo dell’Elfo, la musicista polistrumentista Alessandra Novaga, la Fondazione Mudima, la presenza straordinaria del rimpianto Antonio Caronia, pensatore e saggista, fra i massimi esperti di cultura cyborg e post punk, Francesca Marianna Consonni, collaboratrice della MAGA di Gallarate, e il gruppo di appassionati e praticanti di arti sceniche riunito sotto il nome di Phoebe Zeitgeist Teatro.
Questo gruppo di persone, e probabilmente altre ancora che nel tempo si sono avvicinate e incrociate nel percorso di fecondazioni artistiche vicendevoli, sta dando vita ad un corpus di produzione culturale organico, che pur nelle sue diverse aree di approfondimento e sviluppo, trova alimento condiviso nei percorsi differenti.
A questo ambito va, infatti, fatta risalire la collaborazione della Novaga con Phebe Zeitgeist in alcuni spettacoli, la presenza della Russo Arman come interprete della rilettura del regista di Pheobe, Giuseppe Isgrò, dei blues di Tennessee Williams che ha debuttato l’anno passato al Tertulliano di Milano e che sarà in stagione al Teatro dell’Elfo quest’anno, e infine lo spettacolo dedicato dalla Russo Arman alla figura della grande poetessa americana Emily Dickinson, in scena in questi giorni sempre all’Elfo, con la presenza musicale dal vivo e fondante della Novaga, e al suono di Giovanni Isgrò, fratello del regista e componente di Phoebe, esperto di nuove sonorità digitali e fautore di un codice musicale fatto di interiezioni sonore capaci di creare intervalli logici che infatti anche in questo spettacolo in alcuni punti con precisione affiorano.

foto fabio mantegna
foto fabio mantegna

Per certi versi questa della Arman è un’operazione concettualmente affine a quella condotta da Isgrò sui blues di Williams, ma con filtri di altra natura, in cui prevale la sensibilità di genere, che vuole affermarsi in questo caso come caleidoscopio (anche sonoro, oltre che di luci).
Le luci sono a volte fioche a volte piene, abbacinando di bianco i versi, gli elementi in scena: sulla sinistra la postazione musicale della Novaga che suonerà prima la chitarra elettrica e poi, con l’archetto, trarrà dalla stessa suoni davvero straordinari, per poi applicare la trazione del vibrato ad un piatto crash di batteria e chiudere con una pioggia di note che inonderà i pensieri della poetessa. La Russo Arman ruota i suoi equilibri intorno ad una scrivania ed una scala posizionate a destra della scena, indossa il vestito bianco con cui la Dickinson è diventata icona. E dello studio sull’incona-Dickinson è testimonianza non solo la mostra che accoglie gli spettatori all’esterno della sala Fassbinder del teatro dell’Elfo, ma anche tutto il materiale raccolto sul sito http://beingemilydickinson.tumblr.com dove si racconta del viaggio della Russo Arman sui luoghi della vita della amata Emily.

L’allestimento, curato con un’attenzione maniacale degna della poetessa, si segnala e va visto come gesto artistico di continuità rispetto al movimento di cui si faceva cenno, come originale lettura della persona e dei personaggi che albergarono in Dickinson, della sua femminilità e del suo universo. Seppur cerebrale e un po’ denso in alcuni momenti (meglio meno), in altri l’operazione riesce a portare davvero la poesia in scena. E chi segue il teatro sa come i due codici siano davvero difficili da far coesistere senza che uno tragicamente soccomba.
Qui non succede, e dunque vale la pena vederlo, entrarci dentro, perdercisi anche a volte, fra parole e suoni che di tanto in tanto si confondono non lasciandosi spazio (volutamente?), si perdono, abbandonando il fruitore nella sdrucciolevole e scomoda condizione di dover esistere.

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Il libro di Giobbe e Vita di Galileo: la fame di Dio di E. Nekrosius

teatro olimpico 16-09-13NICOLA ARRIGONI | «L’intero valore del teatro è che tutto quello che è stato creato scompare immediatamente. Come accade per la nebbia cresce, cresce e poi improvvisamente svanisce. Questo è il valore del teatro: la raccolta e poi l’improvviso svanire», così Eimuntas Nekrosius definisce il teatro e ovviamente il suo modo di fare teatro in cui tutto vive nell’immagine, nell’emozione impalpabile che simboli e racconto, parola e gesto, attore e pubblico vivono in quell’istante. Ma questo si può dire del teatro in genere, ma in Nekrosius assume quasi un valore esegetico, aiuta a vivere il susseguirsi delle situazioni che il regista lituano racconta, mette insieme i tasselli di una felice creatività visionaria che cresce pian piano come la nebbia svanisce, ma poi è destinata a risorgere, germogliare come racconto che persiste nell’anima e negli occhi dello spettatore. In questo senso Il libro di Giobbe da un lato e la Vita di Galileo di Brecht dall’altro – entrambi gli spettacoli andati in scena all’Olimpico di Vicenza – raccontano di un’estetica, raccontano di una persistenza del maestro lituano nell’interrogare l’uomo, nell’indagare il suo rapporto con Dio, il suo spazio nel creato, demiurgo e fragile omuncolo al tempo stesso.

C’è una coerenza interna al teatro di Eimuntas Nekrosius che offre a chi lo frequenta con appassionata ostinazione e continuità di legare uno spettacolo all’altro, di trovare in ogni nuovo allestimento delle invarianti che sono il rafforzamento di un segno estetico e al tempo stesso il proseguimento di un pensiero/dialogo che il regista mette in atto col suo magistero teatrale. Questo accade nella Vita di Galileo di Brecht in cui l’interrogarsi sul mondo, sulle regole che lo governano, sulla possibilità che queste regole possano preannunciare lo sfratto di Dio sono un tutt’uno. Allora anche il workshop tenuto dal regista lituano a Vicenza in qualità di direttore artistico e artista residente del Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico e dedicato a giovani attori in formazione è un’occasione per proseguire la ricerca sul rapporto col sacro, sul ruolo dell’uomo come elemento dell’universo, iniziato col Cantico dei Cantici, proseguito con la messinscena della Divina Commedia e ovviamente con l’elegiaco Libro di Giobbe, visto sempre all’Olimpico di Vicenza. C’è un chiedere senso, c’è un voler andare al cuore del creato con l’analisi, meglio col simbolo che tutto contiene e non tutto svela, che è sintesi e al tempo dilatazione del senso, immersione nel sema per coltivare la curiosità dell’uomo.

giobbe nekrosiusQuesta esigenza si ravvede in primis nella storia di Giobbe, nel suo interrogare Dio e chiedere il perché di tanto dolore. Giobbe che piega, ripone in un cassetto, poi riprende e reindossa la sua giacca e lo fa con pazienza e ostinazione, la stessa determinazione che non l’ha indotto a maledire il suo Dio anche di fronte alla perdita delle sue ricchezze, dei figli e della salute del suo corpo, la stessa determinazione con cui vorrebbe che Dio gli spiegasse perché tanto dolore. E’ l’immagine che commuove: Dio ridà a Giobbe i suoi averi, una mela divisa in due da cui poi attinge la nuova progenie del saggio timorato di Dio e coloro che sempre hanno avuto in Giobbe un punto di riferimento. Così come accadde nel Cantico dei Cantici, così come è accaduto ne Il Paradiso di Dante, ma in fondo come capita sempre con Nekrosius, il racconto in scena è pensiero, è gesto che tutto comprende, è recitazione viva, pulsante, è danza dello spirito, è parola incarnata, è l’incontenibile che c’è nel simbolo, nei grandi simboli che più che dire suggeriscono. Nel Libro di Giobbe Eimuntas Nekrosius parte alla grande con Dio che potente racconta la storia di Giobbe e subito si ha l’impressione che la parola detta, il suo ripetersi possa equivalere ad una sorta di canto accompagnato da musiche variate di poco che dicono dell’interrogarsi sul dolore e sul senso della sofferenza di fronte ad un Dio inconoscibile e iroso, come è quello dell’Antico Testamento. Pochi elementi scenici: alcuni scranni, una scrivania che rappresenta forse il banco degli imputati, il tribunale che giudicherà Giobbe, un corsetto di lampadine che scottano come le piaghe sul corpo del vecchio Giobbe, ma che sono anche sigaretta, simbolo di pensiero.

E se Giobbe interroga Dio e chiede il perché di tanto dolore, il Galileo di Brecht/Nekrosius è ben piantato a terra, quasi ‘crocifisso’ – uomo vitruviano – su una materasso che fa da giaciglio e da casa, inchiodato a terra ma con lo sguardo volto alle stelle, con il de-siderio di conoscere come si muove il mondo; immerso nel quotidiano del vivere eppure proiettato nel tempo/spazio del cosmo infinito. E’ uomo a confronto con il voler esperire, è lo sguardo gettato nel cannocchiale moltiplicato come volo fra gli allievi che dovrebbero servire al sostentamento di Galileo, ma che egli rifiuta per non togliere tempo alla sua ricerca. Nekrosius racconta il suo Galileo con pochi e intesi segni che si ripetono e si ricorrono, che sono gesti coreografici di danza, di abbracci e lotte, di lenzuola che assomigliano alle oche che un visitatore di passaggio offre allo scienziato prigioniero e ormai quasi cieco. Oche che sono carne da mangiare, ma anche il procedere con un’unica prospettiva dell’uomo che si accontenta dei canoni culturali in cui vive e non va oltre, non rompe le righe. E allora basta un ombrello aperto con un cima una croce di stagnola per simboleggiare la chiesa, un’immagine semplice e tanto maestosa che rende piccolo piccolo quell’uomo che sfida la visione culturale e teologica dell’universo per aprire l’universo allo sguardo analitico della scienza, ma alla fine abiura proprio perché uomo del quotidiano, abiura per non finire come Giordano Bruno, abiura per la paura che lo statu quo mette in atto per mantenersi potente.

Il libro di Giobbe messo in scena dalla compagnia di Nekrosius e Vita di Galileo frutto del workshop tenuto dal regista lituano in quel di Vicenza al termine del suo incarico di direttore artistico del Ciclo di Spettacoli Classici dell’Olimpico di Vicenza hanno peso specifico diverso, il primo si avvale di una potenza attoriale assoluta che ha finito col rendere intime, suggerite le grandi invenzioni gestuali e visive del regista, l’altro con un gruppo di attori necessariamente acerbi ha fatto crescere in potenza le immagini sceniche per dare corpo, spessore ad un gruppo di attori che bisognava sostenere con la poesia della regia, laddove nel lavoro di Giobbe gli attori erano parte integrante della poetica di Eimuntas Nekrosius, erano semplicemente lo strumento di una riflessione teatrale condivisa, portata avanti in stretta simbiosi col regista/maestro. Ma ciò che arriva dal teatro del demoniaco lituano è un senso di speranza e laica fiducia nel mondo o come ha detto il regista commentando la scena finale del suo Giobbe in cui l’umanità si ciba della mela divisa in due da Giobbe, donatagli dal Dio di cui i progetti sono inconoscibili: «una speranza vitale e umana. Avidità di mangiare, inghiottiendo la vita, forse afferma che nessuno da nessuna parte sparisce all’improvviso senza una ragione, niente passa senza un significato. Ogni cosa in questa vita ha un significato».

Il libro di Giobbe, regia di Eimuntas Nekrosius, scene: Marius Nekrošius, costumi: Nadežda Gultiajeva, musiche originali: Leon Somov, luci: Audrius Jankauskas, assistente alla regia: Tauras Čižas, suono: Arvydas Dūkšta, oggetti di scena: Genadij Virkovskij, assistente ai costumi: Lina Akstinaitė, con Remigijus Vilkaitis (Giobbe), Salvijus Trepulis, Vaidas Vilius, Darius Petrovskis, Vygandas Vadeiša, Marija Petravičiūtė, Beata Tiškevič, Teatro Olimpico di Vicenza, Vicenza, 19 settembre 2013, prima mondiale.

Vita di Galileo di Bertolt Brecht, esito del workshop a cura di Eimuntas Nekrosius, assistente alla regia e music designer Tauras Cizas, costumi di Carolina Cubria, con la partecipazione di Alessandro Lombardo e con gli attori selezionati per il workshop: Anna Bellato, Chiara Catalano, Sara Borghi, Federica Castellini, Emilia Verginelli, Valerio Mazzucato, Emanuele Piovene Porto Godi, Pinheiro Amandio, Luca Damiani, Vittorio Vaccaro, Luigi Maria Rausa, Lorenzo Marangoni, Francesco Aiello, Giuseppe Gandini, al teatro Olimpico di Vicenza, 4 ottobre 2013, prima nazionale.

Se anche sala e critica sono «Poveracce»

poverine

VINCENZO SARDELLI | Io di Poveracce non volevo parlarne. Non tanto perché questo spettacolo (soggetto di Scotti e Coletti, con Gianna Coletti, Beatrice Schiros e Vanessa Korn) è malriuscito. Neppure perché muovere rilievi decisi mi turba. Dante diceva che «perder tempo a chi più sa più spiace». Io sapiente non sono. Ma ci tengo a non precipitare.

Intendiamoci. Le poveracce non è un obbrobrio. Ho visto di peggio. E si sa che il pubblico, quando sceglie, un po’ guarda il portafogli, un po’ le presentazioni sui media. Se annusa che c’è da ridere rompe gli indugi. Tanto più se a teatro ci va con groupon. Della serie: «io a teatro voglio rilassarmi dopo una giornata di lavoro. Sennò m’addormento». Una volta ho visto gente che si sbellicava mentre Otello strangolava Desdemona. Aveva pagato per ridere.

La folla a teatro ci va per i volti noti. Megapubblico davanti ai comici di Zelig. Una volta mi sono avventurato anch’io al Nuovo per la La dodicesima notte. Con Paolantoni. Pienone. Una noia. La gente rideva. Sono uscito a metà spettacolo.

La folla va assecondata. Vent’anni fa me lo confidò il direttore del San Babila. Quello che proponeva non era teatro. Ma la gente vuol ridere. E allora giù con Feydeau. E con Salemme. Qualche anno dopo ne riparlai con Syxty. Dirigeva da poco il Litta. Gli chiesi perché non facesse più gli spettacoli belli dell’Out Off. Rispose ironico: «devo pur mangiare».

Il cattivo gusto impera. Colpa della famiglia o della scuola? Della tv o dei politici che dicono che «con la cultura non si mangia»? Corrado Accordino, direttore del Binario 7 di Monza, ha smesso di rodersi il fegato: «le scelte del pubblico sono incomprensibili». Per César Brie «chi è troppo bravo, fa paura nel deserto del teatro italiano».

Anche al cinema abbiamo sdoganato Giovannona Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza. Boldi e De Sica (figlio) sono maître à penser, Habemus papam un filmone.

Io di Poveracce non volevo parlarne. Ma come si fa a tacere quando anche certa critica riesce a dire che è uno spettacolo «espressionistico», «un prezioso momento di autoanalisi collettiva», da cui sia gli attori sia il pubblico «traggono enorme giovamento»? E poi la prova delle attrici: la Korn che «cresce a vista d’occhio», la Schiros il cui talento «straripa, esonda in maniera incontenibile», la Coletti che svetta al punto che «senza paura di esagerare» si può osare «un parallelo con Franca Valeri».

Minchia… E intanto sold out, applausi, bene-brave-bis. Possibile?

Poveracce. Perché i personaggi sono inconsistenti, ripetitivi. Macchiette a partire dal nome: Fortunata Speranza patita di gioco d’azzardo; l’Avvocato delle Pene malata di “pene” (femminile plurale) d’amore; Zocco Lara malata della stessa roba di prima (stavolta maschile singolare). Tre monologhi che non fanno una storia. Che non superano i venti minuti ciascuno. Perché, gira e rigira, non hanno niente da dire. E allora che t’inventano? Appiccicano i monologhi con la saliva, li montano in sequenza alternata e arrivano al minimo sindacale di un’ora di spettacolo. Nessun intreccio, nessun epilogo. Regia zero, luci da oratorio, pubblico che ride, critica (una parte) che plaude.

Poveracce. Perché loro a recitare sono brave. Ed è vero che la Korn sta migliorando. E la Schiros se la cava sempre. E la Coletti, buttala via. Ma il teatro «è tutto un complesso di cose».

Poveracce quelle persone che fanno critica e si chiedono solo se l’attore entra nel personaggio con una buona gestualità. Perché la critica è anch’essa «tutto un complesso di cose».

Forse ha ragione Corrado d’Elia quando dice che la critica sta morendo. Perché se ci fermiamo alla didascalia, agli ammiccamenti, al «mi piace» (come stigmatizza Serena Sinigaglia) non siamo solo morti: puzziamo di cadavere. E di piaggeria. Capito l’eufemismo?