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venerdì, Maggio 9, 2025
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Da Kafka a Lorca: il corpo e il suo viaggio verso la libertà

wroclawski_teatr_pantomimy_plakat alba-1MARIA FRANCESCA SACCO | Il teatro della Pantomina di Breslavia (Teatr Polski), in una Polonia ancora ghiacciata d’inverno, ha presentato l’1 e il 2 marzo due spettacoli diretti dal regista Zbigniew Szymczyk. Egli ha scelto di mettere in scena, nella stessa serata, due pièce teatrali molto diverse, celebrando, così, due autori altrettanto dissimili tra loro: Kafka e Garcia Lorca.

Uno ceco, l’altro spagnolo; uno in conflitto costante con il proprio corpo, l’altro con il proprio “io”. Uno legato all’Europa, l’altro lanciato verso l’America; Kafka muore di tubercolosi, Lorca fucilato. Erano piu’ o meno coetanei ed emtrambi si trovavano a vivere un conflitto interiore: mentre il primo non accettava il proprio corpo per le sue innumerevoli imperfezioni, il secondo si disprezzava per la sua omossessualita’. La societa’, incapace di rispondere alle loro esigenze a causa delle imposizioni rigide e castranti, alimentava il desiderio di sfuggirla. Il sogno della libertà appare in loro costante, ma sempre illusorio.
Forse, il regista polacco Zbigniew Szymczyk decide di legare le due performance proprio basandosi sull’idea comune ad entrambi gli scrittori che esistano dei pregiudizi e delle regole dalle quali è pressochè impossibile liberarsi, se non attraverso la morte.

Il primo spettacolo, tratto dall’opera Il Castello di Kafka (Polawiacze papieru, Il pescatore di carta), mostra in scena un bizzarro omino con una bombetta in testa che appare dapprima senza volto a causa della luce dietro di lui. Sembra L’uomo con la bombetta di Magritte che ha davanti al viso una colomba.
Il nostro ometto cammina instancabile, mentre egli vive la sua giornata ripetendo i soliti movimenti. La routine soffocante nella quale e’ immerso il protagonosta e’ rappresentata dalla ripetizione delle stesse mosse: sempre identica la camminata che prevede un leggero ondeggiare prima a destra, poi a sinistra, mentre l’ombrello accompagna l’azione con disinvoltura. Persino i muscoli che si tendono sono sempre i soliti: fanno uno sforzo immane, ma senza spostarlo neppure di un millimentro. Fogli, carte e protocolli, simbolo della burocrazia onnipresente, sono l’oggetto dei sogni del nostro omino con la bombetta (dalla quale non si separa fino alla fine): egli viene spogliato dei suoi abiti e lasciato solo con una camicia da notte bianca che nella nostra testa assume la forma di una camicia di forza. L’uomo e’ denudato dalla burocrazia. Scappa e combatte, ma senza risultato: verra’ annientato e la sua bombetta e i suoi abiti passeranno ad un altro che, non potra’ fuggire, a sua volta, al potere delle scartoffie burocratiche. Il regista per rendere quell’alienazione e perdita di contatto con la realta’, ha deciso di sfruttare gli espedienti del teatro dell’assurdo, eliminando ogni logica e consequenzialità nella performance. L’elemento sempre costante è, dunque, il movimento dei corpi che scivolano come se stessero camminando su dei tapis roulant: scelta che funziona quasi tutto il tempo grazie alla bravura indiscussa dell’attore che riesce a mantenere puliti e fluidi i suoi movimenti. Tuttavia, qualche inciampo in alcune scene, come quella della corsa sul posto, un cliche’ del teatro di pantomima che poteva essere evitato, insieme alle poco credibili espressioni facciali che -per fortuna rare- rischiavano di trasformare il tragico protagonista in una macchietta buffa. Interessante, invece, la scelta di mettere in scena Kafka, che odiava il proprio corpo, attraverso una rappresentazione del tutto fisica.
La Casa di Bernarda Alba, ha presentato in scena solo attrici donne (al contrario di quello precedente in cui vi erano solo uomini). La luce era fioca, solo una prigione puo’ avere questo tetro tipo di luce, e la casa di Bernarda Alba, del resto, lo è.
Le cinque figlie costrette ad indossare il lutto e a stare recluse in casa per volere della madre vedova, non smettono pero’ di sognare. L’amore e lo svago che e’ loro vietato, si manifesta con la scoperta della propria femmilita’ e sessualità nei rari momenti in cui la madre non è presente in scena. Chi cerca un bacio dentro uno specchio, chi elemosina carezze dentro una giacca da uomo. Chi, nell’aria viziata soffiata da un ventilatore scalcagnato, crede di avvertire il vento della passione amorosa. Le vie di fuga dalla realtà nella quale sono rinchiuse (ne è simbolo la finestra sempre chiusa) vengono cercate all’interno. Un’oppressione che ci arriva attraverso l’impeccabile gioco di luci e candele. Peccato non poter dire lo stesso per le attrici, alcune molto brave, come Bernarda Alba (Ewa Czekalska), ma in generale poco credibili, poco precise, troppo tendenti a voler rappresentare il proprio personaggio attarverso la mimica, piuttosto che attraverso il corpo. Queste “faccette” fanno crollare in un secondo l’anima di un personaggio e renderlo -senza possibilità di redenzione- non gia’ divertente, il che sarebbe ancora accettabile, bensì ridicolo.

Un video del Bernarda Alba
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=B_FKSh-aZ84]
Polawiacze papieru, Il pescatore di carta
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=wysw_l0y7Zs]

L’occhio di PAC | Tardito Rendina alla Caduta di Torino – video

bigANDREA CIOMMIENTO | L’occhio di PAC incontra il gruppo torinese Tardito/Rendina in occasione dello spettacolo “Gonzago’s Rose s.” in scena al Teatro della Caduta di Torino.

Nel vostro spettacolo si delineano due strade molto chiare: il legame bizzarro e grottesco uomo/donna e l’azione convertita in sentimento grazie alla danza. In che modo vi siete relazionati alla creazione di questa storia?

Il nostro spettacolo è del ‘99, diciamo che è uscito gradualmente il tema della coppia anche se non abbiamo iniziato dicendo “lavoriamo sul tema della coppia” e devo dire che si è rivelata la relazione tra noi in sala durante le prove. Tutte le linee di tensione si sono figurate dentro al lavoro come base di questa relazione scenica nata in prova.

Da cosa avete attinto?

Sicuramente abbiamo cercato di attingere da noi creando poi una forma e un linguaggio che potesse permetterci di offrire distanza e non essere morbosamente vicini al tema. Nella migliore delle ipotesi quando la cose diventano universali riguardano anche qualcun’altro e non solo noi che siamo all’interno dell’azione.

Il sentimento si trasforma anche in comicità…

Noi lo chiamiamo il ridicolo del dramma, ci piace entrare nel dramma e tentare di riuscire approcciandosi ad esso facendo un giro lungo, divenendo quindi un giro ridicolo.  Siamo danzatori di origine, vicino al teatro/danza, e quindi usiamo la materia corporea, il gesto, la sequenza, l’azione per poi inserire l’emozione. È anche una cosa che ci diceva un nostro maestro clown: avere attenzione nel “non far ridere”.

Qual è l’approccio che più vi interessa? 

Non prendersi troppo sul serio è qualcosa che sicuramente ci interessa però allo stesso tempo ci interessa anche andare veramente al fondo del dramma. Gonzago e Rosaria lo stiamo facendo da tempo, ci siamo impratichiti un po’. Da questo fondo con un po’ di osservazione alle volte possiamo fare un giro largo sull’autoironia.

Vi lasciamo al video “l’OCCHIO di PAC” durante la serata di Tardito/Rendina alla Caduta di Torino:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=WcJ2160OaWo&w=560&h=315]

Link al reportage/intervista “Il buon varietà rinasce a teatro” con Massimo Betti Merlin sull’esperienza del Teatro della Caduta di Torino (PaneAcqua):

http://www.paneacqua.info/2012/04/il-buon-varieta-rinasce-a-teatro/

.Mondocane. #1 – Il maestro

MaestroMARAT | “Attenda in linea, le passo il maestro”. Mi domando se non ho sbagliato numero per l’intervista. Ma è solo un (non) raro caso di autocertificazione. Altro che cattedre e concorsi sovraffollati. Mi viene in mente Arbasino. Di come a questo mondo si passi da giovane promessa a solito stronzo, per finire venerando maestro. Parabole. Ci vuole niente a teatro. Diciamo che hai più di 60 anni (prima sei adolescente), fai soprattutto cinema ma ti concedi al palcoscenico con un paio di letture estive, tieni il capello un po’ lungo, stringi mani, fai un giro in Rai in dolcevita nero: sei un maestro.
E mo’ che te lo sei guadagnato, te lo tieni stretto. Che il problema di chi si autodefinisce maestro, è che maestro vuol sentirsi chiamare. E la cosa crea qualche imbarazzo. Nel senso: non lo chiamo maestro, gli faccio girare le balle e mi sciorina le due solite banalità su quanto il teatro sia unico ogni sera; o lo chiamo maestro, fingo astuzia e faccio conversazione, con il rischio che il suddetto maestro mi propini insegnamenti? Lascio correre, mugugno, mi attorciglio sugli impersonali per evitare perfino il “lei”.
E poi finisce. In archivio. Che se lo smazzi l’assistente. Tanto a teatro lo si incrocia poco. E quando succede, spesso fa pure rissa. Ma me lo ritrovo davanti per caso in un film di Moretti. Scelta dettata dal bisogno di consolazione di questi giorni. Ascoltare qualcosa di sinistra. O di sinistro. Lo osservo e penso che probabilmente nella vita reale è anche peggio del personaggio che interpreta. Probabile, il maestro.
Che poi è un concetto tutto al maschile, visto che al femminile ti viene subito in mente di quando imparavi l’alfabeto. Anche questo vorrà pur dire qualcosa. Comunque una sola volta mi è venuto da chiamare qualcuno maestro. Quel giorno avevo le mani fredde fredde e la voglia di raccontarlo a tutti. “Buongiorno Monicelli”, riuscii a dire. E meno male. Che altrimenti mi sarei beccato un “Ma va caà, grullo…”.

I 150 anni della GAM a Torino

Mostra_Seduzione_Disegno__-_FONTANESI_Nudo_nel_bosco_20130220112706.__412_0GIANCARLO CHIARIGLIONE | La Gam di Torino festeggia i centocinquant’anni della raccolta d’arte civica con l’apertura di un nuovo Gabinetto disegni e stampe e due preziose mostre.
Dal 7 marzo sono visitabili il nuovo spazio destinato alla conservazione, deposito e consultazione della raccolta grafica del Museo sabaudo, nonché le mostre «La seduzione del disegno. Cartoni, acquerelli e dipinti dalle raccolte della Gam» a cura di Virginia Bertone (sino al 5 maggio 2013) e «Giovanni Migliara. Acquerelli e preziosi fixé» a cura di Monica Tomiato (sino al 9 giugno 2013).
La città di Torino festeggia i primi centocinquant’anni della sua Galleria civica d’arte moderna e contemporanea, dotandola di un nuovo Gabinetto disegni e stampe realizzato grazie al sostegno della Consulta per la valorizzazione dei beni artistici e culturali del capoluogo sabaudo. La struttura è stata ubicata nelle sale del piano interrato del museo, secondo il progetto sviluppato da Virginia Bertone, conservatore e responsabile delle collezioni Gam, in stretta collaborazione con gli architetti Diego Giachello e Marco Gini, che ne hanno curato il progetto tecnico, e con l’ingegnere Giuseppe Bonfante, che ne ha seguito la parte impiantistica per l’adeguamento della climatizzazione e della sicurezza.
L’apertura su appuntamento del nuovo spazio, garantito grazie al prezioso contributo della Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris, rappresenta un traguardo importante per la Gam, che potrà così rispondere in modo adeguato alla crescente domanda di accesso al proprio patrimonio grafico proveniente da studenti, ricercatori, docenti delle facoltà universitarie legate agli studi storico-artistici e architettonici e dai funzionari che operano nell’ambito del restauro degli edifici storici. Il patrimonio grafico del museo, che annovera oltre trentanovemila esemplari tra fogli sciolti e album, rappresenta una delle più importanti raccolte pubbliche italiane su carta, otto e novecentesca, integralmente inventariata e informatizzata grazie a un impegnativo lavoro di schedatura avviato nel 2000. L’arco cronologico dei materiali presenti si estende dagli ultimi decenni del Settecento fino a tutto il Novecento e annovera artisti italiani del calibro di Giovanni Fattori, Felice Casorati, Filippo De Pisis, Giorgio Morandi, Renato Guttuso, Lucio Fontana e Fausto Melotti, insieme ad alcune presenze straniere, tra le quali Bouchot, Delaroche, Bob Rauschenberg e Andy Warhol. Oltre a fogli di grande bellezza, come nel caso dei paesaggi acquerellati di Giovanni Battista De Gubernatis, vi sono documenti esemplari per la storia dell’arte italiana, come il primo studio per «La città che sale» di Umberto Boccioni, la serie delle «Compenetrazioni iridescenti» di Giacomo Balla o il dagherrotipo di Enrico Federico Jest, vero e proprio incunabolo per la storia della fotografia in Italia.
In occasione dell’inaugurazione del Gabinetto disegni e stampe, in programma nella giornata di giovedì 7 marzo, il museo torinese presenta al pubblico la mostra «La seduzione del disegno. Cartoni, acquerelli e dipinti dalle raccolte della Gam», a cura di Virginia Bertone, che concentra l’attenzione sulla parte più antica della raccolta, quella che dagli ultimi decenni del Settecento giunge sino all’inizio del Novecento. A guidare il percorso è il filo rosso della formazione di questo patrimonio, una storia che precede di alcuni decenni l’istituzione vera e propria del Museo civico (1863), contribuendo a determinarne la nascita. Il susseguirsi degli acquisti e delle donazioni offre lo spunto per presentare circa centottanta tra i fogli più rappresentativi della collezione: dai disegni a penna di Pietro Giacomo Palmieri agli acquerelli di Giuseppe Pietro Bagetti, dai taccuini di Massimo d’Azeglio ai grandi carboncini di Antonio Fontanesi, sino ai fogli di Alfredo d’Andrade, Domenico Morelli e Leonardo Bistolfi. Ad arricchire il percorso espositivo sono gli spunti sulle diverse funzioni assolte dal disegno, sulle caratteristiche di materiali e tecniche, sulla storia del gusto e sul collezionismo torinese: un intrecciarsi di temi che ha per sfondo lo svolgersi dei primi decenni di vita della Pinacoteca moderna, l’antica denominazione dell’attuale Gam.
Sempre in occasione della succitata inaugurazione, in Wunderkammer, lo spazio al secondo piano del museo che presenta ciclicamente al pubblico disegni, acquerelli, grafiche e incisioni dell’Ottocento e del Novecento, si terrà la rassegna «Giovanni Migliara. Acquerelli e preziosi fixé», a cura di Monica Tomiato. Stimato da Massimo d’Azeglio come da Hayez, l’artista nato ad Alessandria nel 1785 e morto a Milano nel 1837, fu il sapiente artefice di vedute e ambientazioni che sorprendevano per la verità ottica e la ricercata cura dei dettagli, qualità che egli seppe declinare anche in una chiave notturna, gotica, in cui pare quasi riverberarsi una sensibilità romantica.

Una passeggiata nella GAM

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=8bdEPp7RhD0]

Il debutto di Korsunovas a Pontedera: il videoreport

I_bassifondi- korsunovasRENZO FRANCABANDERA | Gor’kij senza Gor’kij. Attori senza trama, a mani nude sul loro personaggio. Irrompiamo nelle sale del teatro Era di Pontedera per la prima nazionale de “I bassifondi” firmata Oskaras Korsunovas, spettacolo in lingua originale che si è aggiudicato in Lituania il premio di miglior spettacolo del 2010, per la regia di Oskaras Korsunovas.
Il regista torna in Italia dopo la tournèe di due anni fa con l’Amleto, di cui questo lavoro pare riprendere, anche negli intenti del regista e del lavoro con la sua compagnia, le questioni di fondo sull’azione scenica, sul vero falso, sul dilemma persona-personaggio.
Un lungo tavolo, una fila di sedie, bottiglie apparentemente piene d’acqua. Sullo sfondo cartine geografiche a testimoniare un mondo i cui confini cambiano quasi ogni anno da qualche parte nel pianeta.
Il debutto è stato preceduto da un incontro con il regista Oskaras Korsunovas, introdotto da Roberto Bacci della Fondazione Pontedera Teatro, un’occasione aperta al pubblico per conoscere e approfondire la storia, la poetica e l’opera del regista lituano a partire dagli esordi, e a cui si riferiscono le immagini del nostro videoreport di oggi.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=TV84Boocd90]

Mio padre Ulisse

perrotta odisseaVINCENZO SARDELLI | È un Telemaco contemporaneo davanti al mare del Salento, affascinato da un padre assente ma mitico, quello che Mario Perrotta, autore, regista e attore leccese, propone da alcuni anni ormai in “Odissea”, spettacolo che abbiamo visto di recente al teatro Binario 7 di Monza.
Perrotta, interprete mai banale del teatro-racconto, propone una versione particolare del poema omerico, centrata sulla figura del figlio. Telemaco, rampollo per antonomasia, è catapultato nel XXI secolo, avvilito da gente di paese che al bar della piazza mormora alle spalle sue e della sua famiglia.
Anche Penelope, madre reclusa, è presente in quest’alchemica contaminazione epico-salentina. Si chiama Speranza: è un’ombra nascosta dietro le persiane, anche lei perduta nella sua tela-isola.
L’Odissea di Perrotta mescola mito e quotidiano, Itaca e Salento, poesia colta e dialetto. L’attore si presenta da menestrello, giacca da varietà, viso di biacca. Lo accompagnano le musiche originali dal vivo eseguite da Mario Arcari (oboe, clarinetto e batteria – ha suonato anche per De André) e Maurizio Pellizzari (chitarra e tromba). Sono armonie di feste paesane, di processioni, echi amarcord alla Nino Rota.
Le luci si spargono rossastre sulle note dei musicisti, bianche sulla voce del narratore. Un bagliore lunare evidenzia i gesti delle mani. La voce di Perrotta è calda e spettrale, suadente e tambureggiante. Prendono forma giochi di parole, bisticci e strafalcioni verbali. Le mani disegnano geometrie di gabbiani. Gli sguardi scrutano l’orizzonte, nell’attesa ventennale di qualcosa sempre sul punto di accadere.
Nascono scenette ironiche da avanspettacolo, ma anche storie assorte, che narrano l’anima. È la voce di Telemaco, ma anche il delirante sogno del suo amico Antonio, lo scemo del paese, un pescatore che apre le cozze e le restituisce a quel mare mastodontico che percuote le coste, eppure è incapace di aprire una sola cozza. Il mare ricambia. Svela i suoi segreti a chi, come Antonio, sa ascoltare. Come le storie di Ulisse. Sono lotte ciclopiche, tempeste, diapositive che scorrono veloci sugli immaginari femminili. Sono richiami di Sirene, festini erotici, da Maga Circe, di maschi potenti e donnicciole compiacenti. Sono danze, silenzi, guerre e pianti.
Il mito aiuta a comprendere l’oggi. Dà voce e immagine a situazioni e paure dell’animo. È la vicenda di Telemaco, delle sue attese, tensioni e fantasie. È la storia di Ulisse, delle sue peripezie. Ma qui la figura simbolica non è mai in discussione, e questo padre aiuta anche nella distanza il figlio a crescere e a diventare uomo, molto più di tanti padri presenti in carne e ed ossa. A tenere uniti padre e figlio è il mare, con i suoi colori e i suoi linguaggi.
Quello di Mario Perrotta è un lavoro epico e introspettivo, divertente e toccante. Affrontare il mito significa affrontare un percorso di conoscenza. I viaggi della mitologia greca sono viaggi verso la consapevolezza. Questo teatro-narrazione coinvolge con la verità storica e psicologica di quel che riferisce tramite la finzione. Diventa esperienza emotiva interiore, incontro relazionale con l’esterno e con il mondo.

L’Odissea di Mario Perrotta
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E’ stato così

impacciatoreNICOLA ARRIGONI | E’ in apnea Sabrina Impacciatore, un’apnea che fa venire il mal di pancia e che ben rende E’ stato così di Natalia Ginzburg, romanzo adattato per la scena da Valerio Binasco. A trattenere il respiro è la platea stessa che segue passo passo quella che è una confessione, allucinata ma precisa, quasi una deposizione di un interrogatorio. «Gli ho sparato negli occhi», dice la donna riferendosi all’atto di disperata ribellione verso quell’uomo che ha sposato, di cui ha subito le assenze, i silenzi, i viaggi, l’amore per Giovanna, la sua ex. Il testo di Natalia Ginzburg affida alla paratassi l’accostamento di elementi descrittivi sulla vita di quella donna, una professoressa che incontra un uomo, crede di amarlo e di essere riamata, lo attende, lo insegue, lo sposa e da lui avrà una figlia. In E’ stato così c’è il montare di una tortura relazionale che è destinata a scoppiare nell’uccisione dell’uomo dai riccioli grigi e dall’impermeabile bianco, c’è l’angoscia per quella bambina che piange in continuazione e che morirà mentre la donna è con un’amica a Sanremo per fuggire dal marito assente.
Il testo di Natalia Ginzburg propone un concentrato delle debolezze, incertezze, paure femminili e lo affida a una donna che per Valerio Binasco ha l’allucinata femminilità di Sabrina Impacciatore. Occhi pesantemente cerchiati, un rossetto intenso sulle labbra carnose, i capelli neri raccolti, un abito elegante a suo modo seducente, Sabrina Impacciatiore è lì seduta davanti al pubblico, inchiodata alla sedia. Tre lampadine appese e uno sfondo floreale conferiscono alla scena qualcosa di sacro di ieratico, a tratti quella donna potrebbe sembrare una madonna laica, il cui dolore non conosce redenzione se non il colpo di pistola sparato per disperazione.
La tridimensionalità della scena si perde e lo sguardo è tutto nel muoversi delle labbra, nello sguardo perso nel vuoto di quella donna che si racconta, che confessa di aver sparato negli occhi a quell’uomo a cui è rimasta sposata per quattro anni. Il dolore, l’oppressione di quella donna che non ha nome è lì in Sabrina Impacciatore che è parola incarnata, voce e corpo inchiodato alla sofferenza e a quelle parole della Ginzburg che Binasco sa esaltare nella loro assoluta secca semplicitas.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=HwrSrmh1uoM&w=420&h=315]
e un’intervista alla Impacciatore per FuturaTV
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=OGGcXP61if0&w=560&h=315]

E’ STATO COSÌ di Natalia Ginzburg, regia di Valerio Binasco, con Sabrina Impacciatore, luci e scene Laura Benzi, costume Sandra Cardini, musiche originali Arturo Annecchino, produzione Pierfrancesco Pisani / Parmaconcerti / Teatro della Tosse / Infinito, al teatro Bellini di Casalbuttano, 19 febbbraio 2013.

Ultima Vez e l’avanguardia belga

wimvandekeybus_ultimavez_whatthebodydoesnotremember1BRUNA MONACO | Si è chiuso febbraio e così anche Equilibrio – Festival della nuova danza, una delle rare occasioni in cui a Roma si possano apprezzare spettacoli di danza contemporanea internazionali e di qualità. Anche quest’anno è stato il coreografo belga Sidi Labi Cherkaoui ad aver selezionato pièce e compagnie. Compagnie fiamminghe per la maggior parte, segno decisivo che oggi, sul fronte della danza contemporanea, il Belgio è l’avanguardia d’Europa. Da Bruxelles non solo Cherkaoui (oltre che direttore artistico autore di Puz/zle, andato in scena l’11 e 12 febbraio), ma anche Ali e Hédi Thabet (i fratelli belgo-algerini autori di Rayahzone). Belgi i Peeping Tom, che hanno chiuso la rassegna con la loro ultima geniale creazione A louer. E, a dispetto dell’ispanismo, anche Ultima Vez appartiene alla compagine delle formazioni belghe, fondata dal coreografo dal nome, invece, riconoscibilmente fiammingo: Wim Vandekeybus. What the body does not remember e Booty Looting i titoli dei due spettacoli portati a Roma da Ultima Vez. Due spettacoli che racchiudono tutta una carriera, i ventisei anni della compagnia, la loro prima e ultima creazione.

È con What the body does not remember che Ultima Vez esordì nel 1987, riscuotendo un gran successo di critica. Ora Wim Vandekeybus riporta in scena il capolavoro che fu definito “straordinariamente innovativo”. Forse per mettere alla prova il tempo e i suoi progressi: per verificare se “innovativo” possa suonare come una condanna, essere un’etichetta eterna. O per verificare se, oltre che innovativo, What the body does not remember sia al contempo capace di parlare ancora, a un pubblico nuovo. L’organico è cambiato rispetto al debutto: i danzatori sono duttili, giovani, bravi. Il What the body does not remember a cui assistiamo oggi è uno spettacolo impeccabile sul piano formale, che raggiunge dei picchi di grazia nelle coreografie: ipnotiche, ironiche, intense.

Strutturato in quadri che per scenografia, musiche e mood sono tra loro così lontani da far credere a tratti che si sia davanti a piccole pièce a sé stanti. Due uomini sono manipolati da una donna che sbatte le mani su un piano amplificato: ogni colpo sul piano un movimento dei danzatori. Colpo, movimento. Un colpo diverso, un movimento diverso. Prima lenti e pesanti, poi si fanno rapidi. La danza è un crescendo e così la pietà dello spettatore rapito da quel dibattersi al suolo, coatto, senza speranza di emancipazione, sempre a seguire i colpi sferzati senza cautela e amplificati al punto da risuonare come un castigo anche alle orecchie del pubblico. Secondo quadro: camminando su mattoni di tufo entrano in scena prima uno, poi due, tre quattro dieci danzatori. Ognuno costruisce e poi va per la sua strada. L’incedere è faticoso, difficile mantenere l’equilibrio. Quando la fatica vince, si smette d’esser costruttivi e i pezzi di tufo diventano palle da rugby da lanciarsi e schivare, in un gioco pericoloso che sembra condurre all’autodistruzione. Ma per fortuna cambia lo scenario, si passa al terzo quadro, i toni del gioco si fanno pastello come i colori dei vestiti e asciugamani che soppiantano i mattoni: i danzatori attraversano la scena incontrandosi, scontrandosi, ad ogni incontro una metamorfosi. Incontro, metamorfosi. Scambiano le giacche, i foulard e i danzatori si fanno trasformisti. Buio. Quarto quadro: tre donne a braccia e gambe divaricate vengono perquisite, palpeggiate, da tre uomini. Un’immagine che con grande efficacia riesce a mostrare (come scrive Anna Kisselgoff) “donne che, come partner consenzienti, accettano la denigrazione della propria persona”. Dopo un quinto quadro leggero in cui si susseguono tableau vivant costruiti intorno all’idea di vecchie foto di famiglia, What the body does not remember si chiude con la violenza dell’inizio. Ma questa volta la violenza non è unidirezionale: tutti sono vittime e carnefici. Ogni vittima è carnefice di qualcuno che a sua volta è carnefice di qualcun altro. Poi di nuovo vittima. Come accade nella vita, nella realtà. Come se solo sulla violenza reciproca sancita da un patto si possano fondare le relazioni, la fiducia. Un danzatore al suolo è oppresso da uno in piedi che lo sfida a non avere paura. E inizia la danza di un pestaggio o “calpestaggio” fatto di colpi sempre elusi che ricorda il flamenco, ma anche le prove di valore per entrare nelle società massoniche: mano aperta sul tavolo e il coltello salta come ostacoli le dita. Come in una celebre scena di Nell’anno del Signore, capolavoro di Luigi Magni.
Un filo rosso fra i quadri, per quanto sottile e spesso sfuggente, attraversa tutto lo spettacolo. E riguarda le relazioni di potere fra gli esseri umani. Quindi le relazioni tout court.

Se c’è una pecca in What the body does not remember è un briciolo di autocompiacimento di troppo, che fa sì che i primissimi brillanti minuti di ogni quadro siano seguiti da tanti altri, più lunghi, a volte inutili. Ed è in quei minuti in eccesso che si perde il filo della narrazione, si depotenzia la carica detonante dello spettacolo, si diluisce la concentrazione delle scene e dello spettatore.
Pecca assente, invece, nell’ultimo spettacolo. In Booty Looting Ultima Vez integra i linguaggi: il teatro si accosta alla danza insieme alla fotografia, alla video arte, alla musica dal vivo. Uno spettacolo complesso per la stratificazione dei piani di significato che parla dell’ossessione della memoria, dell’impossibilità di farne un racconto che sia vero. Tanto testo, tanti elementi scenografici e una fitta tessitura drammaturgica fanno di Booty Looting il rovescio di What the body does not remember che si esprime soprattutto attraverso coreografie e immagini.

La varietà stilistica e la ricerca di un modo sempre nuovo di essere “innovativo” fanno di Ultima Vez una compagnia fra le più interessanti viste quest’anno a Equilibrio al Parco della Musica di Roma, convincente nelle premesse quanto nell’approdo. E speriamo di rivederla presto in Italia, magari insieme a un po’ più di danza contemporanea, magari anche prima della prossima edizione Equilibrio.

Alcune sequenze di Booty Looting
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=XkCCc1v2eyo]

Edipo, re nella terra selvaggia

cecchi_reRENZO FRANCABANDERA | La riflessione che vorremmo svolgere nasce dalla visione ravvicinata dello spettacolo “Serata a Colono”, testo di Elsa Morante e regia di Mario Martone con, tra gli altri, Carlo Cecchi, in scena al Piccolo Teatro di Milano, e del film “Re della terra selvaggia”, opera prima del regista Benh Zeitlin, vincitore del Sundance Festival 2012 e divenuto celebre, oltre che per la scrittura visionaria della drammaturgia cui è ispirato, anche per la straordinaria interpretazione della piccola Quvenzhanè Wallis.
Il motivo della vicinanza di queste due creazioni è in una serie di trovate che le accomunano: innanzitutto l’universo extra moenia che fa da ambientazione ad entrambe. Mario Martone, infatti, pensa il soliloquio del suo Edipo in un manicomio, con la platea percorsa per tutto il tempo in lungo e in largo da folli, ognuno con il suo tic, la sua ossessione.
Il film pure racconta di vite ai bordi, ugualmente un padre e una figlia, immersi, è proprio il caso di dirlo, in un mondo di reietti, che hanno creato a modo loro una comunità, con un codice comunicativo etilico, incomprensibile, tanto che spesso vien da pensare che non si ascoltino neanche, in un’ebbrezza ambientale che non può che lasciare stranito lo spettatore.
In Serata a Colono, il pubblico è immerso nel via vai dei corridoi del manicomio, quasi implicitamente a fare parte del coro dolente dei suoi abitanti in abiti consunti, a trasformare il punto di vista del fruitore in quello del folle, incapace di comprendere il messaggio di Edipo, disperato per il suo destino, che leva al vuoto il suo pianto lirico.

Zeitlin, per quasi tutto il film, gira con la telecamera ad altezza di bambina, quasi per enfatizzare il suo punto di vista, costringendo lo spettatore a guardare il mondo come lei, misurando dal basso in alto l’altezza degli adulti, degli alberi, del paesaggio. Tutto diventa gigantesco e incomprensibile.
In questi scenari fuori dalla società civile, con punti di vista tipicamente estranei alla norma, le due figlie (Antigone e Hushpuppy) devono confrontarsi con la malattia del genitore moribondo, entrambe in un misto di sentimenti che oscilla fra la speranza che mai nulla finisca e la consapevolezza che invece la titanica e insieme crudele figura del genitore è lì per dissolvere la sua presenza fra parole, moniti e insegnamenti, spesso incomprensibili per gli occhi ancora ingenui.

Edipo, nel delirio di Colono, tuttavia, non si sforza di attivare nei confronti di Antigone un processo di formazione genitoriale, mentre il padre della piccola Hushpuppy procede, in maniera animalesca (si veda il frammento video in fondo all’articolo) a insegnarle come sopravvivere in un universo ostile ma del quale reclama la cittadinanza.
E se Edipo rifiuta il mondo che lo ha visto diventare re, maledicendo il destino così crudele con lui, nel film il genitore preferisce, piuttosto che farsi curare, andare a morire nella sua natura selvaggia, in un’ambientazione argomentativa onirica e spesso totalmente visionaria e bizzarra.

In questo il film risulta superiore allo spettacolo, se mai possa essere fatto un paragone di questo genere fra arti così diverse che stimolano in sensi in maniera così difformemente complessa. Ma, tant’è, nel tempo di incroci mass mediatici che è il nostro, la mente consapevolmente o meno crea collegamenti, sancisce ordini, priorità, supremazie.
Certo, è l’intento stesso dei due lavori a voler essere diverso: in quello teatrale la “folle” e poetica consapevolezza di Edipo resta non intellegibile da chi lo circonda, figlia, folli del manicomio, nessuno, perfino il pubblico, il film invece ha un ricco elemento da bildungsroman onirico-animale ed è il personaggio della figlia ad essere davvero una chiave di lettura e di sviluppo, il fulcro.
L’Antigone di Martone è invece un personaggio un po’ piatto, non sviluppato, di rustica inconsapevolezza, monodico in un recitato popolar-cantilenante, che paradossalmente finisce per appiattire la figura paterna in una necessità di titanica decadenza, che forse è anche un po’ estraneo al pensiero della Morante, ove se ne potesse certificare l’interpretazione autentica, cui certamente Cecchi, per il suo vissuto amicale con la scrittrice, sarebbe comunque più vicino.
Ma se di nave dei folli deve parlarsi, di lucida allucinazione, abbiamo sentito più viva e necessaria quella della Grande Vasca, dell’umanità derelitta che la abita ne il “Re della terra selvaggia”. I due padri muoiono, scompaiono. Edipo si dissolve addirittura nel nulla. L’altro viene arso sulla pira dalla figlia. Forse è proprio la questione di fondo che ha mosso in noi il paragone fra le due visioni: in una, il film, vive una speranza, mentre nell’Edipo, nella lettura di Morante-Martone-Cecchi no. Di questi tempi poco ci resta: toglierci pure la possibilità non dico di un lieto fine, ma di un futuro, persino preistorico e da naufraghi, ma pur sempre futuro…

Un significativo frammento del film disponibile su youtube, in cui è sintetizzato il processo di crescita padre-figlia
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=8Ud0SC9JPO8]
Alcune sequenze di Serata a Colono
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=iXMiTW7aU4s]

Riflessioni sugli spazi dell'arte al Rossi Aperto Pisa: Lecat/Guidi/Settis – il videoreport

Lecat_Locandina2

ANDREA CIOMMIENTO | Pubblichiamo il videoreportage conclusivo che vede come protagonisti Jean-Guy Lecat, Chiara Guidi, Salvatore Settis intervistati durante i giorni di workshop “Lo spazio teatrale tra tradizione e innovazione” (6/7/8 febbraio 2013) curato da Jean-Guy Lecat, consulente per progetti di recupero in numerosi teatri nel mondo e scenografo per trent’anni del regista inglese Peter Brook*.

Lecat ha abitato lo spazio del Rossi Aperto di Pisa cercando insieme ai partecipanti le possibili soluzioni d’intervento per riportare in vita gli spazi del teatro, senza dimenticare lo sguardo di un ambiente che diviene agorà, piazza d’incontro fra culture e saperi differenti, come già da mesi il palcoscenico del Rossi suggerisce con le sue finestre e porte aperte sulle strade della città.

Il videoreportage (intervista a Jean-Guy Lecat, Chiara Guidi, Salvatore Settis):

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=3-nO363qI3Y&w=560&h=315]

Il podcast sull’esperienza del Centro Culturale il Funaro di Pistoia (Premio Ubu 2012) per voce di Lisa Contini:

“Stiamo vivendo un momento molto speciale: siamo reduci dalla vittoria del Premio Ubu 2012…” L.C.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Zagi2L708Qo&w=560&h=315]

Il podcast sull’esperienza del Teatro Sociale di Gualtieri (RE) per voce di Riccardo Paterlini:

Un consiglio per il Rossi Aperto? “Creare un dialogo con le istituzioni per farlo diventare un’esperienza stabile, dimostrare che sei in grado di fare qualcosa, di funzionare.” R.P.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=1W4It3XNZ2g&w=560&h=315]

Il podcast sul primo giorno (6/2) per voce di Sandra, “abitante” del Rossi Aperto:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=FvwPdQ1LhAE&w=560&h=315]

Il podcast del 5/2 con contributi di “abitanti” e ospiti del Rossi Aperto:

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=FvwPdQ1LhAE&w=560&h=315]
PROGRAMMA

Mercoledì 6 e giovedì 7 febbraio 2013

dalle ore 10 alle 13 – Lavoro pratico di progettazione sullo spazio. Analisi del contesto architettonico dell’edificio, costruzione di ambienti scenici, ipotesi realizzazione impianto di illuminotecnica e studio delle potenzialità acustiche.

6 febbraio dalle 15 alle 18 – Narrazione e panoramiche su progetti nazionali e internazionali di recupero funzionale di teatri e spazi storici in disuso; a cura dello stesso Lecat

7 febbraio dalle 15 alle 18 – il caso de Il Funaro a Pistoia, interviene Gianluca Mora – architetto del progetto e Lisa Cantini organizzatrice; il caso del Teatro Sociale di Gualtieri e dell’associazione che lo gestisce.

Venerdì 8 febbraio 2013

dalle ore 10 alle 13 – Lavoro pratico di progettazione sullo spazio.

dalle ore 15 alle 16.30 – Chiusura del workshop con discussione pubblica delle ipotesi realizzate insieme a Lecat.

Dalle 16.30 alle 17.30 – Un esempio di trasformazione dello spazio presente. Testimonianza di Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio sul Teatro Comandini di Cesena.

dalle ore 17.30 alle 19.30 – “Bene storico-artistico/Bene comune. L’arte tra tutela, normative giuridiche e nuovi modelli di progett/azione partecipata”

Conversazione con Salvatore Settis (storico dell’arte, ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa) e Ugo Mattei (giurista, professore di “diritto internazionale comparato”, autore del manifesto Beni Comuni, ed. Laterza).

A seguire interventi e testimonianze sulle trasformazioni del presente e i nuovi spazi di creazione. Saranno presenti Teatro Valle Occupato, Cinema Palazzo, Teatro Garibaldi, Teatro Sociale di Gualtieri.

La sera dell’ 8 febbraio a partire dalle ore 21.30 concerto de Les Anarchistes Alessandro Danelli – voce, Nicola Toscano – chitarre, Max Guerrero – live electronics, con la partecipazione di Ellie Young – violoncello.

Nelle altre sere sono previsti appuntamenti di musica e teatro.

Aggiornamenti sul programma www.teatrorossiaperto.blogspot.it