ELENA SCOLARI | Kilowatt. Un kilowatt equivale a 1.000 watt. Unità di potenza elettrica e quantità di energia. Quanta energia per fare un lavoro in un tempo dato? Quanta energia umana serve per dare alla luce il teatro e per darvi luce?
È curioso che si sia intitolato a un’unità di misura elettrica un festival che si tiene in un borgo medioevale come Sansepolcro, dove – se non fosse per qualche auto di residenti – le migliori guide direbbero “sembra che il tempo si sia fermato”, a quando l’elettricità ancora non c’era.
Mura antiche, palazzi di un caldo color ambrato, Piero della Francesca che si aggira tra quelle pietre.
Scelta simbolicamente indovinata: nei 9 giorni giorni di programmazione del festival ideato 16 (già 16!) anni fa da Luca Ricci e Lucia Franchi il paese alza il suo “voltaggio” (il sottotitolo è L’energia della scena contemporanea), ospitando spettacoli teatrali e circensi, performance di danza, convegni, concerti. Un altro brillante esempio di quanti luoghi periferici (e non troppo comodi da raggiungere) siano ormai diventati punto di riferimento per l’Italia teatrale e culturale.

Un altro posto dove si cerca di combattere le tante “teste di cavolo” (l’immagine promozionale del festival 2018, nella foto) che ostacolano il lavoro culturale, che appiattiscono gli individui, che rincorrono col forcone dell’allineamento chi esce dal coro. O dall’orto.

Abbiamo partecipato a due giornate “feriali” di Kilowatt 2018, vedendo le prime di quattro compagnie italiane e il lavoro di un artista spagnolo. Per Ssshhh de I sacchi di sabbia rimandiamo al resoconto pubblicato su Eolo in occasione di Teatro tra le generazioni, marzo 2018.
Non sarà un caso se tre di questi spettacoli ragionano intorno al ricordo. Più che alla memoria proprio al ricordo, inteso come storia personale e come mezzo di costruzione di un’identità. Forse perché lo smarrimento è grande, oggi, cerchiamo di ancorarci a ciò che è sicuramente avvenuto (ammesso che l’offuscamento del tempo non ci inganni) e che contribuisce a formare un’idea di noi stessi, anche presso il prossimo. Siamo quello che abbiamo fatto.
Progetto Demoni porta quattro spettatori alla volta in una casa privata, una vecchia casa di borgo, mura spesse che tengono il fresco, cucinino in cima a una scala ripida, e li fa assistere alla materializzazione dei ricordi di una coppia, o forse solo della donna. L’attrice maneggia lenta (ma lenta) alcuni oggetti tratti da una credenza a muro, ci svela che di ricordi trattasi e ci invita a seguire il fallimento sentimentale dei due, dovuto in buona sostanza all’inadeguatezza dell’uomo che si crede scrittore ma pare sia l’unico a crederlo, ahilui.

Ora, l’invito teatrale in casa non è cosa nuova, potrebbe non essere un difetto ma dipende da come poi va l’accoglienza: “Come va a pezzi il tempo” soffre di alcune debolezze che “inceppano” la visita. L’idea di mettere in scena il passato, dichiarandolo, è buona ma l’insistita lentezza dei movimenti degli attori diventa irritante, così come la quasi totale inespressività dell’uomo (Alessandro Miele) che si aggira tra le stanze con aria catatonica. Prendono un po’ di vita, che suona però insincera, durante le liti, piuttosto banali. Ci è sembrato che sfruttare di più la scelta di essere in una casa, segnata dal tempo del mobilio che la arreda e della musica che viene diffusa, usare meglio la prossimità degli spettatori potrebbero essere punti forti, per far entrare dentro una storia altrimenti non troppo interessante.

Collettivo No Name presenta Nameless (tutto un discorso di innominati ma forse anche di senza destino), che parte da uno strambo lavoratore impiegato nell’industria dello zucchero, sostanza che sta ovunque e che crea dipendenza inconsapevole in tutti noi. Un altrettanto bizzarro presentatore introduce lui e gli altri caratteri in una dimensione di rapporto diretto col pubblico, mentre i personaggi sono momentaneamente cristallizzati nel loro tempo drammaturgico. Lo sviluppo non è del tutto lineare ma si tratta di un sentiero che si muove avanti e indietro tra passato e futuro, anzi: tra ricordi chiusi e possibilità aperte, c’è una donna provocante in un abito rosso acceso, c’è un timido che alle feste si trovava sempre a disagio…
C’è un momento molto bello in cui i tre attori maschi imbastiscono un dialogo che rimbalza dall’uno all’altro in una triangolazione di sensi e opposizioni assai riuscita, peccato duri poco. Invece le incursioni della “guida” diventano bruscamente molto cospicue, per durata, senza che se ne intraveda una vera spiegazione. La regia di Benedetti porta i cinque (bravi) attori a un finale soffocante, niente affatto ottimista, come fossimo sommersi dai nostri stessi dubbi.

Residenza Qui e Ora ha costruito con I Fratelli Dalla via uno spassosissimo e ironico manifesto contro alcuni “difetti” della vita. Le tre protagoniste presentano formale reclamo all’I.N.P.S. (Istituto Nazionale per la Sopravvivenza) per differenti mancanze, nell’ordine: Sofia Francesca Albanese (particolarmente convincente nella sua testarda goffaggine) ha preso 59/60 alla maturità e quel punto mancante ha influenzato negativamente tutta la sua vita, Samuela Silvia Baldini cerca “un padre facente funzione” per il proprio figliolo, Asia Laura Valli chiede una morte fittizia per avere un nuovo inizio. L’ente concede il bonus totale ma c’è un inghippo: triplice omocodìa, non vi vogliamo spiegare di più per salvaguardare la sorpresa…
Quello che è ancora da oliare è l’arrivo del colpo di testa del personaggio di F. Albanese, che sembra troppo estraneo, così come l’uscita dalla storia delle tre attrici che smettono di essere personaggio è ancora un poco slegata e rischia di dare la sensazione di una “morale” giustapposta. Ma I will survive (magari un titolo in italiano?) è uno spettacolo bello, con un testo molto ben scritto – come è del resto pregio costante dei Dalla Via, recitato in modo divertito ma consapevole del messaggio che si vuole mandare: si deve poter sbagliare, i singoli errori di ognuno pesano meno se condivisi tra i tanti “uno + uno + uno” che formano la società.

Nella Petronia dei Maniaci D’Amore non si nasce e non si muore, Pania è perennemente incinta ma non partorisce, Amita tenta annualmente il suicidio durante la festa del pontile (sospeso su nessun mare). Tale condizione super simbolica si sovvertirà quando l’eroe della serie TV “Cuori che affogano” Johnny Water irromperà nel villaggio direttamente dallo schermo. Nella telenovela la vita prima si bloccherà ma poi si libererà dal copione e a Petronia il tempo comincerà a fare il suo lavoro. PAC ha raccontato qui Il desiderio segreto dei fossili con dovizia, dalla replica di Sansepolcro ci sembra di poter dire che ancora qualche lungaggine impedisce una comprensione completa della seconda parte dello spettacolo, che si attorciglia un po’. C’è però molto talento in questi fossili, c’è spirito anche impietoso, c’è senso della metafora e coraggio narrativo, Manca un po’ d’ordine.

Il tempo di Kilowatt si è chiuso entrando in un tempo andato, quello rievocato dallo spagnolo Xavier Bobés e le sue Cosas que se olvidan facilmente (cose che si dimenticano facilmente),

un fantastico viaggio sospeso, à rebours, da oggi al 1942, 5 persone intorno a un tavolo, nel buio di una stanza antica, una sola piccola lampada, che vedono scorrere all’indietro gli anni tramite i tabloid popolari, piccoli calendarietti illustrati dalla Sagrada Familia, scatolette magiche con minuscoli oggetti della memoria: tessere annonarie con i bollini per pane e olio, medagliette, foto, tantissime foto di famiglia sgualcite, come alcuni ricordi, consumati ma tenerissimi e delicati. Le belle mani da prestigiatore di Xavier fanno apparire e scomparire fatti e persone, in un rituale curato e attento, che nelle scatole di latta un poco arrugginite metterà anche noi, per l’album del suo oblio. Con amore.


Progetto Demoni
Come va a pezzi il tempo
di e con Alessandra Crocco e Alessandro Miele

Collettivo No Name
Nameless
di Lorenzo Garozzo
con Enrico Pittaluga, Luca Mammoli, Graziano Sirressi, Susanna Acchiardi, Alessandro Maione
regia Gabriele Benedetti
luci Diego Labonia
assistente alla regia Susanna Acchiardi
produzione Armida Artaud Teatro – Caracò teatro
con il sostegno di CapoTrave/Kilowatt

Qui e Ora
I will survive
con Francesca Albanese, Silvia Baldini, Laura Valli
regia Marta Dalla Via
dramaturg Diego Dalla Via
luci Paolo Tizianel

Maniaci d’Amore
Il desiderio segreto dei fossili
scritto, diretto e interpretato da Francesco D’Amore, Luciana Maniaci e con David Meden
progetto vincitore I teatri del Sacro 2017

Xavier Bobés
Cosas que se olvidan facilmente
creato ed interpretato da Xavier Bobés
costumi Antonio Rodríguez
co – produzione Festival TNT 2015 – Terrassa Noves Tendències
in collaborazione con L’Animal a l’Esquena