IDA BARBALINARDO* | «L’albero ha tre rami: Creazione, Conservazione e Distruzione»: recita così la cantastorie indiana (Parvathy Baul), portatrice, insieme a una violinista punk (Elena Floris), del racconto che costituisce il nucleo drammaturgico de L’Albero, spettacolo dell’Odin Teatret andato in scena a novembre al Teatro Koreja di Lecce.
Un lavoro, questo, frutto di una composizione “girovaga”, come la definisce Andrea Porcheddu, compiutasi tra Holstebro (Danimarca), Villa de Leyva (Colombia), Wroclaw (Polonia) e Batuan (Indonesia), da marzo 2015 a settembre 2016, e di una stretta collaborazione tra interpreti e regista (Eugenio Barba). Uno spettacolo complesso, la cui anatomia ha preso forma attraverso il contributo di suggestioni individuali e successivi rimaneggiamenti del materiale resosi disponibile durante le attività laboratoriali.
Il tema della narrazione è un’istantanea delle dinamiche relazionali che hanno interessato e continuano ad interessare il genere umano, con un focus su quelle conflittuali, fino a giungere alla guerra intesa come risoluzione delle controversie.
La Storia dell’uomo pare svolgersi e realizzarsi intorno a un’alternanza di opposti, una sorta di ciclico bilanciamento che, ad ogni fine fa succedere un nuovo inizio. Accade quindi che vita e morte, bene e male, distruzione e rinascita siano strettamente legati: questo sembra volerci dire Parvathy Baul, con una frase che, pur nella sua brevità, racchiude l’essenza del dramma portato in scena e delle questioni in esso delineate.

Il pubblico, che generalmente siede in platea, nel caso de L’Albero condivide lo spazio agito dagli attori: lo spettatore accede infatti al palcoscenico, entrando in una struttura di forma ovoidale con pareti di tela color rosso aranciato e un “soffitto” di stoffa bianca. Qui viene fatto accomodare su grossi tubi neri posti ai bordi. Tale condizione di stretta vicinanza all’azione scenica, quasi di costrizione alla prossimità, è figlia dell’abitudine allo spazio piccolo e chiuso, tipica della cifra stilistica dell’Odin.
La struttura viene animata dall’intervento delle due cantastorie, che introducono il pubblico nel cuore della messinscena: una è indiana, carnagione scura, capelli, tipo rasta, raccolti in un grande chignon, indossa un sari dai colori vivaci e accompagna il suo canto, dapprima con un piccolo tamburo e successivamente con un particolare strumento a corde. L’altra ha un sembiante nord-europeo, capelli biondo chiaro, indossa un vestitino corto e bianco, con un corpetto nero e, suonando il violino, inneggia a un futuro auspicabilmente anarchico. Entrambe, così esteticamente diverse, sembrano, in un certo senso, espressione di quel gioco di estremi, quell’alternanza di opposti che permea l’intera rappresentazione. Insieme narrano una favola amara che parla di un mondo in cui gli uccelli, spaventati dalla barbarie e dalla violenza umane, sono spariti. Un racconto che si sviluppa intorno all’albero della Storia (intesa come quella dell’uomo e del mondo), reale fulcro della narrazione che, posto fisicamente al centro della scena, é raffigurato come una pianta spoglia, ridotta al suo scheletro e i cui rami, invece che essere attaccati al tronco, sono sparsi sul pavimento; una pianta palesemente finta che comunica, allo stesso tempo, un’idea di solidità, pur essendo parzialmente distrutta e nella quale, quindi, vita e morte coabitano.
Una luce tenue e calda illumina l’ambiente.

ph. Rina Skeel

Da qui in poi si sviluppano le vicende narrate dalle donne, all’interno delle quali, gli stessi protagonisti sembrano espressione del dualismo di cui si è fatta menzione, tanto che tra essi si possono in qualche modo distinguere rappresentanti del bene e rappresentanti del male. Ci sono infatti, da una parte, due monaci yazidi, Aureliano e Serafino (interpretati da Julia Varley e Donald Kitt), che tentano di richiamare alla vita gli uccelli, mettendo in atto una sorta di rito propiziatorio affinchè l’Albero possa tornare a dare frutti e ad attirare le piccole creature. Dall’altra parte ci sono invece due dittatori, uno europeo e l’altro africano, incarnazioni di personalità realmente esistite: Joshua Milton Blahyi (I Wayan Bawa), “Il generale tutto nudo”, comandante di un esercito di bambini soldato durante la prima guerra civile in Liberia nel 1990 e Arkan la tigre (Kai Bredholt), comandante serbo di una forza di giovani para-militari e responsabile del massacro di Srebrenica (1995), la peggiore operazione di pulizia etnica compiuta in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Nel mezzo, simbolicamente, due figure femminili che vivono questi mondi in conflitto: Iben – che il pubblico incontra sia da bambina (Carolina Pizarro) che da adulta (Iben Nagel Rasmussen) – le cui parole rivelano il suo stretto legame con l’Albero, un pero, costruito dal padre poeta all’indomani della sua nascita. Accanto a lei, una donna africana (Roberta Carreri) il cui volto appare letteralmente segnato dal dolore che la guerra le ha inflitto; sulle guance ha infatti tatuate le mani della figlia morta, quelle stesse mani che non le è più permesso sfiorare, stringere. Con espressione catatonica vaga sulla scena senza una meta apparente, portando in un fagotto di stoffa la testa della sua bambina.
Ne emerge una mescolanza di personaggi a metà tra fantasia e realtà storica, che dà vita a una drammaturgia composita e spesso simbolica, alludendo anche a fatti realmente avvenuti e alternando immagini di efferatezze a scenari di speranza.
Sono figure, queste, espressione della brutalità umana e della violenza della guerra che, diversamente da quanto si potrebbe essere portati a credere, macchiano perfino l’Occidente, per così dire, “civilizzato”. Ma sono anche rappresentazione della sostanziale banalità del male: ne La trilogia degli innocenti, di cui L’Albero costituisce una tappa, l’Odin analizza infatti il concetto di innocenza e si chiede se e quanto esso possa essere attributo anche alle figure più abiette. Nell’economia dei conflitti, compiere violenze ha un suo senso correlato agli obiettivi da perseguire e al rispetto del ruolo che si ricopre. In quest’ottica, potremmo forse risultare tutti innocenti?

Si profila, in questo modo, una vera e propria lotta tra forze opposte, la cui antitesi si traduce in due modi differenti di gestire e abitare la scena. Se, infatti, i rappresentanti del bene si distinguono per movimenti lenti, delicati e per una recitazione trasognata, dalle tonalità morbide, i rappresentanti del male spiccano per un incedere cadenzato, martellante, militaresco e per una vocalità dura, fragorosa, aspra: lo spazio scenico viene così interamente utilizzato e reso tutto portatore di significato.
Lo spettatore si ritrova dunque ad assistere alla simulazione di un sacrificio umano e, quasi parallelamente, ai tentativi di Serafino e Aureliano di ridare vita all’Albero; o ancora alla visione di sassi macchiati di sangue e, poco dopo, alla comparsa di uova che stanno per schiudersi, a suggerire forse una rinascita. Esperienze visive che il pubblico – in virtù della sua prossimità alla messinscena – vive attraverso un contatto privilegiato con la rappresentazione, di cui è reso parte integrante, quasi protagonista. A conferma di ciò, le sciabole brandite dal dittatore africano a pochi centimetri dagli spettatori, inevitabilmente scossi da tale gesto. O il tremore delle singolari sedute – scosse probabilmente da un motore sottostante – che quasi richiama i gommoni che di continuo attraversano il Mediterraneo, suggerendo che chiunque è straniero e nessuno, di fatto, è estraneo. Ma estraneo a cosa? A chi? All’altro da sè e a ciò che sulla scena, in quel momento, si compie: dinamiche che non hanno frontiere, perchè tutti, in un modo o nell’altro, ne sono coinvolti.

ph. Rina Skeel

Si toccano qui concetti alla base della poetica dell’Odin, quel “nessun posto mi è estraneo, nessun uomo mi è estraneo” in virtù del quale il multiculturalismo ha sempre costituito un tratto distintivo della compagnia. È per questo che, anche nel caso de L’Albero, la regia ha dato ampio spazio alle abilità teatrali, ai talenti di ogni singolo interprete, non soffocandone l’identità in favore di quello che sarebbe stato un approccio più preordinato e didascalico.
È uno spettacolo, questo, non costruito con l’intento di essere compreso in tutti i suoi passaggi: Eugenio Barba da sempre fonda le sue scelte registiche attorno alla «capacità animale» degli attori, ovvero quell’abilità di sollecitare la parte limbica del cervello dello spettatore, rievocandone memorie sensoriali passate.
Da ciò una cifra recitativa peculiare, che pare quasi brechtiana, ovvero volta a smascherare totalmente il meccanismo teatrale: ne sono espressione i nasi rossi, indossati dagli attori (eccezion fatta per le due cantastorie) che producono un effetto di straniamento rispetto alla materia trattata, il deus ex machina (Fausto Pro) che ripulisce il palco dagli oggetti di scena e l’Albero, che è chiaramente finto senza che venga posto in essere alcun artificio perchè appaia il contrario.
Ci si serve, dunque, della finzione dichiarata, puntando a restituire la testimonianza della violenza, e non la rappresentazione o l’interpretazione di essa.
Non c’è immedesimazione nè catarsi: la ferocia umana viene raccontata con distacco, quasi fosse un gioco perchè, parafrasando le parole di Arkan, cosa sappiamo noi della guerra, se abbiamo vissuto solo la pace?

L’allestimento mescola un ritmo recitativo sostenuto ad un certo barocchismo di segni: colori dei costumi etnicamente connotati, odori e suoni di terre lontane (in special modo quelli prodotti da Parvathy Baul e I Wayan Bawa), in una sorta di danza a metà tra l’incubo e il sogno, l’angoscia e l’utopia. Un conflitto tra due mondi che, dopo tanto rumore, regala un barlume di speranza e di fede nel futuro con il ritorno del cinguettìo degli uccelli.

Complice forse l’esasperato simbolismo e lo stile recitativo ridondante, volutamente teso all’annullamento dell’interpretazione, L’Albero non riesce del tutto nel suo intento di rievocare nel pubblico le emozioni più intime: lo spettacolo, infatti, si compie davvero nell’incontro con l’altro, e se questa comunicazione viene in qualche modo inficiata, il risultato è una separazione troppo netta tra ciò che avviene in scena e chi guarda.
Resta tangibile, in ogni caso, il fascino legato alle suggestioni multietniche che popolano la rappresentazione: di grande pregio, in tal senso, i canti riprodotti da Parvathy Baul e la ritualità e gestualità portate in scena da I Wayan Bawa, finestre su usanze e mondi lontani che, altrimenti, lo spettatore potrebbe difficilmente conoscere. È inoltre opportuno evidenziare il valore del lavoro corale compiuto tanto sulla produzione drammaturgica quanto nella gestione dell’azione scenica, espressione sintomatica dell’unione sempre ritrovata all’interno di una compagnia attiva da più di cinquant’anni.

***A latere dello spettacolo si segnala il proseguimento del laboratorio di critica teatrale Lo spettatore ridestato, organizzato da Palchetti Laterali a cura di Maria Chiara Provenzano, in collaborazione con Koreja e con il sostegno dell’Università del Salento. A condurre questo ulteriore incontro il critico Alessandro Toppi, cofondatore e direttore responsabile delle riviste culturali Il Pickwick e La Falena.***

L’ALBERO

drammaturgia di Thomas Bredsdorff
regia di Eugenio Barba
assistenti alla regia Julia Varley e Elena Floris
testo di Odin Teatret
consulente letterario Nando Taviani
con Luis Alonso, Parvathy Baul, I Wayan Bawa, Kai Bredholt, Roberta Carreri, Elena Floris, Donald Kitt, Carolina Pizarro, Fausto Pro, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley
scenografia Luca Ruzza e Odin Teatret
disegno luci Luca Ruzza e OpenLab Company
consulente luci Jesper Kongshaug
disegno e realizzazione dell’albero Giovanna Amoroso, Istvan Zimmerman e Plastikart
programmazione software Massimo Zomparelli
costumi e oggetti di scena Odin Teatret
manifesto di Barbara Kaczmarek
direzione musicale Elena Floris
direttore tecnico Fausto Pro
marionette Niels Kristian Brinth, Fabio Butera, Samir Muhamad, I Gusti Made Lod
teste delle bambole Signe Herlevsen

Teatro Koreja, Lecce
18 novembre 2021

 

 

* PRIMAVERA PAC è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo.
Il gruppo di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.