ELENA SCOLARI | Orsino, Viola, Sebastiano, Malvolio, Antonio, Andrea, Feste, Tobia, Maria. Questi i personaggi principali che abitano La dodicesima notte, quella prima dell’epifania, dodicesima contando dal giorno di Natale. Il luogo è l’Illiria, sull’Adriatico, in zona balcanica. Il tempo è quello shakespeariano.
Trattandosi di commedia (con molti aspetti amari) c’è una dose abbondante di equivoci, scambi di persona, inganni: il duca Orsino ama la Contessa Olivia, la quale ovviamente lo ignora ma si innamora invece del messaggero Cesario, in realtà Viola travestita da ragazzo, la quale Viola ama invece Orsino. Per moltiplicare gli intrecci si aggiungono il maggiordomo Malvolio che pure ambirebbe alla sua padrona Olivia, il gemello di Viola, Sebastiano, creduto morto in un naufragio e che invece torna ad aumentare i malintesi (elevati al cubo perché è un uomo, Alessandro Bandini, a interpretare sia Viola sia Sebastiano), l’astuto e alcolico zio Tobia, lo sciocco Andrea, la furba cameriera zabetta Maria e il giullare Feste. Disperiamo che possiate aver colto tutti gli incastri, ma come immaginerete, non è questo il punto.
Il punto è che nessuno è soddisfatto del proprio stato: le conquiste amorose rappresentano salti di classe, cambi di condizione, la speranza di colmare i propri vuoti con il consenso e l’adorazione dell’altro.

Giovanni Ortoleva (Biennale College e menzione speciale per registi under 30 nel 2018), ospitato al LAC di Lugano per la prima assoluta della commedia shakespeariana, sceglie dunque di ambientare la sua Dodicesima notte (o quel che volete) in una scenografia (di Paolo Di Benedetto) fatta a scale: una grande tribuna di quattro alti gradinoni che culmina con un decoro di putti svolazzanti è l’oggettone scenico sul quale si muovono gli attori. È dipinta di verde, un verde fluo molto acceso e freddo, un colore nervoso, come appaiono gli animi dei personaggi, vestiti di abiti neri e blu (costumi di Margherita Baldoni) tutt’altro che vitali, a ricordare il lutto da una parte e la tristezza (uno dei significati di blue, in inglese) dall’altra; perfino il fool Feste ha un abito arlecchinesco ma che da lontano sembra fatto di losanghe in bianco e nero. In questo trionfo di freddezza cromatica sembrano tutti privi di una fiammella, di un calore sincero che li muova, si agitano ma non si muovono veramente.
L’unica nota calda saranno le calze gialle di Malvolio (Michelangelo Dalisi, altero e dimesso al tempo stesso), che gli frutteranno lo scherno di tutti in seguito a uno scherzo crudele e sprezzante ordito dalla perfida Maria.

La regia lavora sull’intera compagine dei nove interpreti, creando distanze e vicinanze tra i ruoli proprio sfruttando la “scala sociale” che occupa tutta la scena: quei gradini sono classi, sono fasce di reddito, sono livelli di censo e di posizione sociale ma sono anche piani di conoscenza che mettono alla pari i personaggi che occupano lo stesso gradone, oppure, al contrario, che li mostrano, geometricamente, in rapporto di sudditanza o superiorità nei confronti dell’interlocutore. E questa potrebbe essere una soluzione che allevia un poco lo spettatore dal districare di continuo chi è chi veramente, una sorta di schema che facilita la lettura. Ma una volta capita questa idea, essa stessa diviene invadente e non permette (o forse fa ritenere inutile) di sviluppare altri livelli di interazione tra i personaggi, che infatti finiscono per risultare statici, nonostante i frequenti andirivieni.


Dalisi è l’unico che usa anche lo spazio della platea, da cui salirà sul palco all’inizio, ancora a sipario chiuso, anticipando una delle sue ultime battute «Non sono pazzo, sono loro che fan di tutto per privarmi del ben dell’intelletto». La sua parte nella commedia è la più interessante insieme a quella del giullare Feste (Francesca Osso, elegante nel canto e ironica nelle note caustiche a margine), commentatore lucido a latere, cantore che accompagna con le sue canzoni le misere vicissitudini di gente che si preoccupa solo di non essere ciò che è. Qui Feste occupa la posizione in basso a sinistra del palco, e sta seduto al suo pianoforte verticale, sul primo gradino, cantando d’amore su richiesta (e mancia) dei signori ubriaconi.
Malvolio è un servitore che si vuole affrancare dalla subalternità e spera quindi nell’amore della padrona. Non è però solo calcolo, il suo: il sentimento c’è e sincera e profonda sarà la sua sofferenza quando scoprirà che la lettera in cui Olivia confessa la sua inclinazione per lui è un falso, una bassa mossa della vendicativa Maria in combutta con Sir Tobia, che poi la sposerà. Benché il comportamento scortese tenuto talvolta del servo non giustifichi tale castigo, quest’ultimo verrà addirittura imprigionato in una stanza buia, visitato da preti e somari per indurlo alla pazzia.

La traduzione di Federico Bellini è scorrevole e conserva in bella lingua tanto i versi poetici di Shakespeare quanto i suoi arguti giri di parole proprio per dire della falsità e inaffidabilità delle stesse: «… le parole sono diventate così false che sono assai restio a usarle per dimostrare una ragione», dice il giullare Feste. Anche qui (esattamente come nell’Amleto di Latella) ‘addio’ non è tradotto e rimane ‘farewell’ (che sia un omaggio tra registi?).


Le luci di Fabio Bozzetta sono pulite, sfacciate, non proteggono i personaggi ma anzi li espongono, e questo corrisponde a una sensazione complessiva: i componenti del gruppo compongono un microcosmo di sfaccendati (tranne servi e cameriere) che in una sequela di sbronze pensano solo ai propri affari. Sono però forzati dal contesto a sostenersi l’un l’altro: lo fanno con atti sgarbati, aspri ma non hanno che le relazioni tra loro a certificarli esistenti; e allora questo dovrebbe creare una sottile, invisibile ma percepibile ragnatela che tiene legati i personaggi (e quindi gli attori) con dinamiche, interazioni, rapporti di causa ed effetto che costruiscono il respiro dello spettacolo. Abbiamo visto la prima assoluta del lavoro, pertanto è naturale che queste articolazioni vengano e crescano con il tempo e le repliche, registriamo però che in assenza di questa rete di confidenza emotiva tra gli interpreti, il ritmo (che non è la velocità) risente di una certa stasi estetica che fa prevalere l’aspetto analitico su quello carnale, le passioni brucianti sono espresse più che sentite, i desideri assunti più che vissuti.
Ortoleva cura con puntualità le posizioni e i profili degli attori, ha senza dubbio un’idea forte di regia, ma la esercita con tanta esattezza da eccedere in ordine, fa emergere i lati cupi più di quelli divertenti, tende a tacitare la temperatura della voluttà e la sgangheratezza delle ubriacature in favore di una nettezza generale. Nelle situazioni in cui la fisicità dell’azione porta a rompere le righe allora sbocciano i momenti più vivi e più coinvolgenti: Edoardo Sorgente è un Tobia vitale, vigoroso, nei suoi duetti con Andrea Guanciamolle (Alberto Marcello) ha il polso dei tempi e sa fuoriuscire dallo schema donando tridimensionalità.
Sarà il savio giullare Feste a chiudere la commedia ricordando che «se voi non sorridete, io non so più che dire».

 

LA DODICESIMA NOTTE (O QUELLO CHE VOLETE)

di William Shakespeare
traduzione Federico Bellini
adattamento e regia Giovanni Ortoleva
con (in ordine alfabetico) Giuseppe Aceto, Alessandro Bandini, Michelangelo Dalisi, Giovanni Drago, Anna Manella, Alberto Marcello, Francesca Osso, Edoardo Sorgente, Aurora Spreafico
scene Paolo Di Benedetto 
costumi Margherita Baldoni 
luci Fabio Bozzetta 
progetto sonoro Franco Visioli 
assistente alla regia Alice Sinigaglia
assistente scenografo Andrea Colombo
direttore di scena e capo macchinista Stefano Orsini
capo elettricista e datore luci Fabio Bozzetta
fonico Nicola Sannino
sarta realizzatrice e di scena Margherita Platé
scene realizzate da Allestimenti Arianese srl
produzione LAC Lugano Arte e Cultura, in coproduzione con Fondazione Luzzati Teatro della Tosse, Centro D’arte Contemporanea Teatro Carcano, Arca Azzurra

LAC, Lugano | 27 febbraio 2023 – prima assoluta