FRANCESCA DI FAZIO | Un tavolino illuminato fiocamente nel mezzo della sala. Sopra di esso, una pedina che è un unico pezzo di legno con testa e braccia, e qualcos’altro coperto da stracci bianchi. Il tavolino è una scacchiera. Due persone entrano in scena avvicinandosi al tavolino e sedendosi una di fronte all’altra. Non vediamo i loro volti, coperti da maschere di cuoio, né le mani, coperte da guanti neri. Per cominciare la partita, vengono tolti i polverosi stracci: sotto, un’altra pedina di legno e due piccoli bidoni della spazzatura, questi ultimi in primo piano a sinistra. La seconda pedina è un uomo su una sedia a rotelle: Hamm. L’altra, il monoblocco senza gambe, è Clov. Dentro i due bidoni della spazzatura: Nagg e Nell, i due vecchissimi genitori di Hamm, due scheletrini mossi dagli attori con un meccanismo sorprendentemente preciso e nascosto. Hamm e Clov, “attori artificiali”, si muovono invece perché evidentemente mossi dalle mani degli attori, senza fittizia illusione. Così i giocatori sono ad un tempo governatori e governati: definiscono il moto delle pedine ma da esse dipendono per andare avanti nella loro partita a scacchi.

Il riferimento agli scacchi è chiaro e definito nell’intenzione degli ideatori-attori Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti: “L’idea di rappresentare Finale di Partita come una vera e propria partita a scacchi, con attori-giocatori che muovono pedine-personaggi sopra ad una scacchiera, è nata dopo diverse letture del dramma e naturalmente dalle pochissime indicazioni che l’autore ha fornito alla sua pièce, tra cui l’esplicito riferimento al “finale di partita”, l’ultima fase di una partita a scacchi dove il re, tra i pochi pezzi superstiti, in previsione di una probabile sconfitta, tenta le sue ultime disperate mosse d’attacco” (Giocando un finale di partita – Giulia Dall’Ongaro, Enrico Deotti in Beckett & Puppet, Studi e scene tra Samuel Beckett e il teatro di figura a cura di Fernando Marchiori).

teatrino_giullare_54_5901Così, il titolo completo dello spettacolo della compagnia Teatrino Giullare, vincitore, tra gli altri, del premio speciale UBU 2006 e andato in scena recentemente al PimOff di Milano, è Finale di partita – allestimento da scacchiera per pedine e due giocatori: e da questo particolare allestimento si dipartono le principali linee guida di ideazione dello spettacolo. In primis l’idea di limite, una costante della ricerca teatrale della compagnia e la chiave per leggere la pièce beckettiana, in cui i limiti sono ovunque: “uomini paralizzati dentro bidoni della spazzatura, una stanza chiusa con finestre altissime…” (Ibid.). L’allestimento rispecchia questi limiti: “Hamm oltre che cieco è stato inchiodato alla sedia a rotelle, Clov non può sedersi ed è un monoblocco di legno, la scacchiera riduce le possibilità di movimento degli interpreti, completamente rivestiti in modo da non svelare nulla della loro carnalità” (Ibid.).
Carne e oggetto sono così mutati di segno: il ribaltamento, per cui gli attori sono cose e le cose sono attori, raggiunge il massimo grado nel gesto di uno dei due interpreti, semplice ma sconvolgente per la densità di significato: per un attimo si sfila un guanto, ma la mano è un muro di mattoni, è il muro della stanza che rinchiude Hamm e Clov: “abbiamo piacevolmente rinunciato all’idea di fabbricare dei nuovi oggetti scenici, trovando il muro su di noi, sulla mano del giocatore”(Ibid.).

Spicca la sincopata eppure fluidissima ritmica con cui gli attori scandiscono battute e movimenti delle pedine, voci e suoni, parole e gesti con una precisione tecnica che parla d’esperienza ed esercizio, senza per questo appesantire il meccanismo a ingranaggio che anzi sembra essere stato appena oliato.
Lo spettacolo è composto da una vera “partitura di gesti e microgesti”, a restituire quello stesso ritmo musicale su cui insisteva Beckett: “a matter of fundamental sounds”. Questa contemporanea reinterpretazione di Finale di Partita resta fedele alla profondità di senso beckettiano nel restituire perfettamente, attraverso l’oggettificazione, l’alto dramma esistenziale, fisico e metafisico dei personaggi chiusi in una stanza sperduta in un mondo dove nemmeno la natura lascia più riconoscere chiaramente i suoi attributi. La dimensione dell’assurdo è delicatamente accentuata dal senso di spaesamento dato dal gioco di alternanza pedine-attori che bene restituisce anche quel senso di ironia, quella “natura tragicomica o meglio semi-seria” (Ibid.) che, quando si tratta di Beckett, viene suo malgrado troppo spesso dimenticata.

In che modo questo spettacolo è mutato nel tempo, se è mutato?

Questo spettacolo nasce esattamente dieci anni fa e nasce con una partitura fissa, seguendo la drammaturgia di Beckett che è molto precisa, quindi nasce con una regia anch’essa molto precisa, pulita, rigorosa. Tuttavia negli anni si sono aperti spiragli di libertà interpretativa, di cambiamento: lo spettacolo è cambiato soprattutto nei dettagli e nei particolari, ma l’impostazione scenica, i dialoghi sono esattamente gli stessi.

Che cosa provate, a distanza di tempo, nel ripercorrere e riabitare questo stesso testo?

La cosa incredibile è che ogni volta, ancora dopo dieci anni, si rivela fonte di nuove scoperte: ieri per esempio ho scoperto un nuovo significato del testo. Non si finirà mai di capirlo, perché è sorprendentemente misterioso ed enigmatico. Ogni volta che lo mettiamo in scena ci stupiamo. A un ascolto attento capisci che è tutto chiaro, è tutto logico, i significati ci sono, ma sono talmente sotto, nascosti, che devi scavare. Crediamo che sia questa la fortuna di questo spettacolo: al di là della messa in scena, è un testo che non si finisce mai di capire, che lascia sempre delle domande, è immortale.

Attualmente invece siete in scena con il vostro nuovo lavoro “Le Amanti”, tratto dall’omonimo romanzo di Elfriede Jelinek. Perché questo testo? Perché un romanzo?

Questo spettacolo rientra nel progetto Festival Focus Jelinek, ideato da Elena Di Gioia, in cui siamo stati coinvolti e che riguarda la messa in scena di spettacoli tratti dai testi di Elfriede Jelinek. Abbiamo scelto questo romanzo perché ci è sembrato ricco di possibilità sceniche e molto adatto ad essere teatralizzato; tra le sue opere è quella più vicina a noi, soprattutto per quanto riguarda il tipo di linguaggio utilizzato.

In effetti il romanzo ritrae dei personaggi statici, che si prestano bene ad essere messi in scena con degli “artifici”, usando la vostra definizione: in che modo questo testo si inserisce nella vostra ricerca teatrale?

In questo caso l’artificio è più vicino ad un’illustrazione, si può parlare di romanzo illustrato, di una messa in scena che si avvicina anche all’installazione artistica. L’utilizzo di tali artifici è sempre giustificato dalla drammaturgia. Dice Jelinek: “Io ingrandisco (o riduco) le mie figure in una dimensione super-umana, ne faccio dei fantocci, visto che devono stare su una sorta di piedistallo”. Cioè alterare la realtà perché essa venga RICONOSCIUTA meglio.

Quando cominciate a lavorare su un nuovo testo, come si compone la fase di creazione? Come si arriva dal testo allo spettacolo?

È un percorso lungo in cui si parte dal testo, dalla lettura: lettura, lettura, lettura, lettura, senza pensare minimamente alla messa in scena, anche se percepiamo a pelle che c’è una possibilità. I nostri spettacoli hanno un aspetto visivo molto forte ma è il testo che parla: ciò che ci interessa principalmente è far arrivare il testo. Quindi inizialmente lavoriamo sul testo, che nel caso della Jelinek è stato anche un lavoro di riadattamento, poi si delineano una o più idee sceniche e si sperimentano, attraverso prove e improvvisazioni. Una volta scelta la strada, si comincia a provare su quella. La fase di costruzione materiale, scenografica arriva invece per ultima: proviamo sempre con dei prototipi di quelli che saranno i veri oggetti scenici per capire come andranno poi realmente costruiti.

Http://www.teatrinogiullare.it/finale_di_partita.htm

http://festivalfocusjelinek.it/teatrino-giullare/