Kinder [Bambini] @ Francesco Pititto
Kinder [Bambini] @ Francesco Pititto

MATTEO BRIGHENTI | L’orrore della Shoah è un concentramento di nomi. Dall’oblio delle lapidi Lenz Fondazione ha richiamato Donato e Cesare Della Pergola, Liliana, Luciano e Roberto Fano, Roberto Bachi: sei bambini ebrei di Parma deportati e uccisi ad Auschwitz dopo essere passati per i campi di prigionia di Monticelli Terme e Fossoli (anche l’Italia ha mani insanguinate). L’impresa compiuta da Kinder [Bambini] è quella di aver fatto incontrare Orfeo ed Euridice nel Coro di Voci Bianche ‘Ars Canto’: l’infanzia perduta nell’attesa della catastrofe ha cantato da sé la sua ricerca di salvezza, nell’assoluto asettico e matematico della mostruosità i piccoli hanno fatto luce delle tenebre che li avvolgevano per restare bambini e scoprire una pausa di gioia laddove era programmato solo uno svolgimento di brutalità.
“I bambini – ha detto lo storico torinese Bruno Maida durante la conversazione prima della prima del 25 aprile – giocavano ad Auschwitz, era un modo per dare un senso al mondo, per trovare un rapporto con la realtà”. Per Francesco Pititto, autore del testo originale e dell’imagoturgia, e Maria Federica Maestri, che ha curato installazione, elementi plastici e regia, quel “gioco” è il teatro, drammaturgia, luci, spazio che hanno consentito alla memoria di essere presente e vibrante, perché i bambini qui oggi (dai 6 ai 12 anni) sono stati quelli di ieri, restando semplicemente e naturalmente loro stessi. Non hanno storia né biografia, i bambini sono bambini. Sempre e ovunque. Kinder [Bambini] è un progetto di ricerca drammaturgica realizzato con la consulenza scientifica dell’ISREC di Parma, l’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea, una collaborazione iniziata nel ’91 con Bruno Longhi e che ora diventa permanente sui temi della Resistenza e dell’Olocausto: sono già in calendario gli spettacoli Aktion T4 [Azione T4] sul programma nazista di eutanasia dei minori nati con malformazioni o portatori di handicap (2017), e Rosa winkle [Triangolo rosa] sullo sterminio degli omosessuali (2018).
Valentina Barbarini, già ne Il Furioso e in Verdi Re Lear, è l’unica attrice in scena. Risveglia i piccoli dal riposo eterno di innocenti bare bianche disposte una di seguito all’altra. Ai sei si aggiungono i non parmensi Salomon Papo, proveniente da Sarajevo, rifugiatosi nel modenese e poi deportato ad Auschwitz e lì ucciso, Rena Papo, nata a Sarajevo, salva grazie all’aiuto degli abitanti della frazione di Gramignazzo di Sissa in provincia di Parma, e Teresa, colei che incarna l’impossibilità di tornare alla normalità dopo le ferite del lager sul corpo e, soprattutto, nella mente.
Kinder [Bambini] sta nella profondità, non sulla canonica direttrice Nord-Sud, bensì Est-Ovest: platea e scena corrono parallele sul lato lungo della Sala Majakovskij di Lenz Teatro. La visione risulta così schiacciata e la claustrofobia è accentuata dal fatto che tutto avviene dietro una pellicola trasparente che non permette una perfetta messa a fuoco. È la materializzazione del passato che, comunque, ci separa da quegli eventi e finisce per distorcerli, per cui il nostro non può essere che il tempo dell’interpretazione. Ci sono tre microfoni, uno a sinistra delle bare, uno a destra vicino a una sedia, e un altro sotto a uno dei sei letti a castello alle spalle delle bare, che completano questa scenografia fatta di niente. Non viene ricostruito il campo di concentramento, ne viene abitato il terrore con gli occhi dell’innocenza.
La luce cade glaciale e di taglio sui bambini e le cose, dagli altoparlanti scorrono i nomi dei campi, si respira odore di polvere misto a carne bruciata. Valentina Barbarini è Giorgina Padova in Fano, madre dei fratelli Fano, madre di tutti i figli, le madri, i padri, e legge le sue lettere al “Signor Questore della Provincia di Parma” sotto al letto a castello, cerca di muovere a pietà il boia, senza riuscirci.
Dall’alto dei loro letti i bambini si parlano con un microfono, una volta avvicinato a uno, una volta a un altro, perché ogni parola risuona e passa comunque attraverso il vaglio del campo di concentramento. Dialoghi immaginari, chi sei?, da dove vieni?, con chi sei?, conosci qualcuno?, perché sei qui?, si alternano, con piccole variazioni, alle lettere della signora Fano, in una partitura minimale di ripetizioni con scarti minimi, a tracciare ore qualsiasi di giorni qualsiasi, tanto non fa differenza, la loro è una fine segnata dal principio.
Questo parlato in musica si fa canto quando intonano un Lied di Mozart/Overbeck Komm lieber Mai che parla di un Maggio imminente, di violette, di giochi nella notte e nella neve, di un libero paese amato. “Lodevole” nella materia Canto è scritto in una pagella di Luciano Fano, documento storico fornito dal direttore dell’ISREC Marco Minardi e che ha dato il La alla ricerca di un coro di voci bianche/interpreti: la purezza nella fragilità di chi non è ancora nato del tutto alla vita.

Tereska Draws Her Home @ David Seymour
Tereska draws her home @ David Seymour

Dopo essersi conosciuti, i bambini giocano a rincorrersi, si scontrano e urlano, sembrano divertirsi, anche se sempre con un certo distacco, si portano dentro la ferita dell’allontanamento dai genitori, nei loro castelli distanti da terra. Poi camminano sulle tombe, le loro tombe, dicendo poesie anonime di bambini ebrei sulla bellezza della vita e di vivere. Sulla parete di destra, intanto, si stagliano le ombre dei giacigli, sembrano tanto i profili delle baracche quanto i corpi ridotti pelle e ossa dalla prigionia o i fili ramificati del treno, ciò che poi diventano una volta messi tutti in fila sul fondo, in un binario di luce blu cianotico. Un urto assordante, poi come uno sciame di api impazzite prima dell’Apocalisse. Ultima fermata: morte.
Su quella parete laggiù Tereska, diminutivo di Teresa, traccia con il gessetto cerchi concentrici e collassanti. Quell’immagine è il calco di una fotografia di David Seymour scattata nel 1948 in una residenza per bambini “disturbati” a Varsavia, e divenuta nucleo fondamentale della scrittura e della drammaturgia in azione di Kinder [Bambini]. Le avevano chiesto di disegnare alla lavagna la sua casa e ne è venuto fuori un caos o, forse, il ricordo opprimente del filo spinato. Dopo aver attraversato con meravigliosa naturalezza una versione ritradotta di Tenebrae di Paul Celan, Martina Gismondi la fa rivivere smarrendosi nella proiezione al suolo del dettaglio gigantesco e in movimento dei cerchi nella foto. Il buio insegue la luce, e viceversa: un universo del dolore in continua espansione, una sequenza di forza inaudita, perché riesce a unire con poetica evidenza il prima al dopo Auschwitz.
Quel punto di sutura è un coagulo di figure, indistinto e acquoso, sfumato. Siamo noi, riflessi nella pellicola trasparente quando si riaccende la sala. Donato e Cesare Della Pergola, Liliana, Luciano e Roberto Fano, Roberto Bachi, Salomon Papo, Rena Papo, Teresa, si sono mostrati con il volto dei nostri figli, mentre noi ci siamo resi irriconoscibili come padri. Kinder [Bambini] ci ha messo di fronte alla paura e al disgusto di averli uccisi noi e di continuare a farlo, anche solo permettendo che accada: il silenzio è il campo di sterminio che ancora non è stato liberato. Da là cantano i Kinder.


KINDER [ Bambini ]

Testo e imagoturgia Francesco Pititto
Installazione, elementi plastici e regia Maria Federica Maestri
Musica Andrea Azzali
Direzione musicale voci bianche Ars Canto – Maestro Gabriella Corsaro
Consulenza storica Marco Minardi
Performer Valentina Barbarini con Pietro Anelli, Samuele Bellingeri, Matteo Castellazzi, Marcello Costa, Martina Gismondi, Agata Pelosi, Alessandro Poli, Cloe Teodori, Anna Giada Vaccaro e Marco Cavellini
Luci Alice Scartapacchio
Cura Elena Sorbi
Organizzazione Ilaria Stocchi
Comunicazione Valeria Borelli
Ufficio Stampa Michele Pascarella
Produzione Lenz Fondazione in collaborazione con ISREC
Visto lunedì 25 aprile a Lenz Teatro, Parma.