Calderón di Federico Tiezzi - foto di Achille Le Pera .02LAURA NOVELLI | Nella sua lunga, eclettica e felice carriera registica Federico Tiezzi ha affrontato Porcile di Pasolini nel ’94 (e ancora ricordo vividamente alcuni passaggi di quel lavoro, visto al teatro Ateneo di Roma), quando cioè la sua riflessione artistica era incentrata per lo più su opere poetiche dalla lingua forte e carnale che fossero incentrate sul rapporto padre/figli. E’ sempre del ’94 infatti lo straordinario successo di quell’Edipus di Giovanni Testori che si aggiudicò – e a ragione – il Premio Ubu come miglior regia e come migliore interpretazione maschile (in scena c’era un meraviglioso  Sandro Lombardi).

Adesso è la volta di Calderón, tragedia pasoliniana anch’essa in versi e anch’essa scritta di getto in quella furia creativa del ’66 che vide lo scrittore friulano redigere ben dodici opere teatrali, sei delle quali compiute (malgrado le successive e caparbie revisioni). Il regista toscano torna dunque alla complessa drammaturgia di Pasolini, scegliendo un testo non facile che, diviso in sedici episodi e uno stasimo e notoriamente ispirato a La vita è sogno di Calderón de la Barca, gli permette di raccontare il crollo della borghesia, degli ideali sessantottini e della famiglia declinando la profetica visione pasoliniana, attraversata qui da una tessitura dialettica degna di Platone, in uno spettacolo elegantemente sospeso tra metafora e concretezza, visione onirica e geometria architettonica, astrazione e Storia. Dunque in un lavoro che, ora in cartellone all’Argentina, vuole essere anche biografia personale, omaggio esplicito, adesione ideologica e stilistica al pensiero dell’autore.

Siamo nella Spagna franchista del ’67 e una donna di nome Rosaura, personaggio del precedente secentesco così come Basilio e Sigismondo, si sveglia per tre volte in tre ambienti sociali diversi – aristocratico, proletario e piccolo borghese – raccontando ogni volta un sogno. A introdurre il tutto la figura di uno Speaker di cui si fa carico Sandro Lombardi, come sempre ineccepibile, impegnato anche nei ruoli del re (metafora del Potere), del padre, del marito, del deus ex-machina e, in definitiva, del tragediografo, che spiega al pubblico come il teatro sia sempre un rito sociale contraddistinto dalla presenza viva degli attori. Dunque la cornice metateatrale – o se vogliamo straniante – in cui si incastona questa grottesca riflessione storico-politica (precorritrice non a caso di Petrolio) è chiara sin da subito. E la materia onirica successiva si dipana come un ulteriore pretesto drammaturgico di forte valenza epica: nel primo sogno la protagonista è figlia di nobili filofascisti, si innamora del “sovversivo” Sigismondo ma poi scopre che questi è il suo vero padre. Nel secondo sogno Rosaura (l’ottima Lucrezia Guidone che divide il ruolo con Camilla Semino Favro e Debora Zuin) è una prostituta che vive nei sobborghi di Barcellona e si invaghisce di un giovane cliente, un rivoluzionario convinto, il quale è in realtà suo figlio. L’ultimo risveglio riconduce Rosaura a quel mondo borghese che probabilmente le è proprio ma che ella rifiuta somatizzando il disagio in una malattia del linguaggio, un’afasia altamente simbolica a causa della quale le parole si confondono compromettendo la coerenza stessa del “dire”. Capiamo così che è questa terza Rosaura ad aver sognato i precedenti sogni e nella sua quarta visione si concentra il momento più significativo del testo, laddove cioè la protagonista immagina di essere in un lager (la condizione borghese stessa) liberato da una folla di operai con in mano una bandiera rossa. Ma il marito Basilio, incarnazione anch’egli del Potere, la disillude acremente. E dietro/dentro questo Basilio non possiamo che avvertire la voce stessa di Pasolini. Dietro/dentro questi incubi, questi innamoramenti incestuosi, ci sono i fallimenti di un’intera generazione.

Dinnanzi ad una materia drammaturgica tanto contorta, Tiezzi (artefice qui di una riscrittura ad hoc insieme con Lombardi e Fabrizio Sinisi) sembra inseguire innanzitutto la strada del nitore visivo e, contestualmente, quella di un’interpretazione attoriale che sia quanto più possibile a-psicologica, tesa essenzialmente ad illustrare le battute, a comunicare idee e considerazioni, a far affiorare il sostrato ideologico del dialogo. Ovvio quindi che, nella bella scenografia di Gregorio Zurla, siano soprattutto i personaggi ad attraversare stili e registri diversi: le figure tragicomiche e lunari del primo quadro, inchiodate in abiti secenteschi, trucco pesante e parrucche bianche quali ovvi riferimenti a Las Meninas di Velàsquez, assumono in seguito caratteri meno carnevaleschi e diventano via via, pur senza rinunciare a lineamenti fortemente grotteschi, delle voci recitanti a servizio del testo. Deve essere così ed è giusto così. E lo aveva già felicemente dimostrato il primo allestimento dell’opera, quella regia ronconiana del ’78 alla quale questo Calderón guarda, anche stilisticamente, con convinta ammirazione. Tuttavia non sempre si riesce a seguire lo spettacolo con la necessaria partecipazione e forse resta da capire se e quanto questo Pasolini così verboso,  concettoso e ripetitivo sappia ancora smuovere i nostri animi e sappia ancora “parlare” – appunto – alla nostra coscienza politica.

Calderón

 

di Pier Paolo Pasolini

regia Federico Tiezzi

drammaturgia Sandro Lombardi Fabrizio Sinisi e Federico Tiezzi

con (in ordine di apparizione): Sandro Lombardi, Camilla Semino Favro,

Arianna Di Stefano, Sabrina Scuccimarra, Graziano Piazza, Silvia Pernarella,

Ivan Alovisio, Lucrezia Guidone, Josafat Vagni, Debora Zuin, Andrea Volpetti

e con la partecipazione straordinaria di Francesca Benedetti

scene Gregorio Zurla

costumi Giovanna Buzzi e Lisa Rufini

luci Gianni Pollini

movimenti coreografici Raffaella Giordano – canto Francesca Della Monica

assistente alla regia Giovanni Scandella

Produzione Teatro di Roma e Fondazione Teatro della Toscana