RENZO FRANCABANDERA | Quando a metà del decennio passato la mia attività di pensiero critico sul teatro iniziò a strutturarsi, questa cosa avvenne in concomitanza con l’avvento sulla scena italiana di una serie di esperienze, che avevano per lo più la forma del collettivo, di indagine sul linguaggio della scena. Questi gruppi (parlo eminentemente di Santasangre, Città di Ebla, Pathosformel, gruppo nanou, Muta Imago) avevano l’ambizione di sviluppare un codice espressivo non verbale, che approfondisse la forza dell’arte dal vivo al bordo fra teatro fisico, danza, arte installativo-performativa.
Insomma era l’avvento di uno segno scenico che fino a quel momento, in forme libere e destrutturate, si era dato per lo più nelle strade, nella dimensione dell’happening fra fine anni Settanta ed Anni Ottanta.

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We want Miles – foto Daniele Casadio

Questi nuovi gruppi tentavano di dare a quelle esperienze, a quel flusso che si muoveva fra strade, gallerie d’arte, nuova danza, un terreno di incontro e di approfondimento possibile, sviluppando estetiche diversissime: arrivano così la nuova biomeccanica di Pathosformel, la narrativa astratta di Muta Imago e Città di Ebla, “l’installatività” partecipata di Santasangre, e quella che mi pare di poter definire la coreografia simbolico geometrica di gruppo nanou.  

Se devo pensare all’azione e al contributo specifico di gruppo nanou (Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci e Roberto Rettura) all’esperienza di questo decennio, in maniera istintiva mi viene da riferirmi alle indagini che ad inizio secolo scorso si svilupparono con Lo Staatlitches Bauhaus l’istituto di istruzione artistica nato nel 1919 a Weimar, in Germania, chiuso poi nel 1933, quando arrivò al potere Adolf Hitler. Quattordici anni che cambiarono radicalmente il pensiero dell’arte per tutto il secolo a venire (passando fra tre direttori e tre sedi, Weimar, Dessau e infine Berlino) diventando emblema dell’architettura e del design dell’epoca moderna.
L’idea alla base del Bauhaus era quella di formare una nuova classe di artigiani-artisti, unendo la ricerca della forma estetica alla funzionalità pratica, sfruttando anche industria e tecnologia, attraverso quel che lo storico direttore Gropius volle: l’istituzione di un corso di studi in cui il concetto di «interdisciplinarietà» saltava spesso fuori, per arrivare a costruire, sfruttando discipline di ogni tipo, «l’edificio del futuro». 
In queste scuole nacquero e diventarono patrimonio dell’umanità gli studi sulle forme e sul colore, le costruzioni geometriche che popolano ora le nostre città, l’architettura che si diffonde negli spazi metropolitani e non solo. Il gusto e l’estetica formale di oggi vengono di lì, e ogni esperienza artistica, specie con riferimento al rapporto fra corpo, spazio, geometria e colore, porta oggi in sé i segni di questo passaggio.

Basta scorrere con lo sguardo una minima galleria di immagini che si riferisce a spettacoli e periodi diversi dell’esperienza di nanou, per capire l’influenza sullo specifico estetico e programmatico per questo sodalizio di quella lezione (volendo si può approfondire nella ricchissima sezione a ciò dedicata nel sito della compagnia). 

Pochi fotogrammi fanno comprendere come il segno scenico di nanou sia sempre stato quasi maniacalmente spostato e agito in uno spazio semantico di ricerca sul movimento del corpo all’interno di un ambiente scenico cromaticamente e geograficamente molto connotato e geometricamente delimitato.

Una riflessione, questa fra geometria ed azione del corpo, che in particolare trova una sua ulteriore e approfondita indagine nell’ultima creazione, ripresentata in Italia a Danae Festival dopo il debutto a La MaMa ETC di New York e la prima nazionale al  Ravenna Festival: We want Miles, in a silent way, è quello che nanou definisce “un inusuale omaggio al grande jazzista Miles Davis, non tanto attraverso la sua musica, ma ispirandosi al suo procedimento di composizione. Una ricerca di assonanze che mette in campo la coreografia, i corpi, le luci, i colori e i suoni”.

L’indagine si è avvalsa anche dell’aiuto di Daniele Torcellini, docente di cromatologia e della curatela per il suono di Roberto Rettura con Bruno Dorella alle percussioni dal vivo.
Cosa succede in questo spettacolo: cosa vede, sente e percepisce con lo sguardo lo spettatore?
Sul fondo un rettangolo sospeso da terra di ampiezza orientativa di un metro e mezzo di altezza per tre di lunghezza. Sul pavimento le luci esaltano una sorta di crocevia che si determina nel senso delle diagonali della scena. Al lato destro una postazione musicale occupata dalla batteria di Bruno Dorella.

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ph. © Michela di Savino – Dancer: Carolina Amoretti

Dentro questo spazio si muovono, con azioni fisiche piuttosto connotate, entrando e uscendo di scena, i quattro performer impegnati nell’azione danzata, ovvero Carolina Amoretti, Marina Bertoni, Rhuena Bracci, Marco Maretti.
Lui, con un cappello tipo Davies, entra ogni tanto in scena, arriva all’incrocio, si ferma, quasi spettatore di quello che accade, e poi va via. Le tre muse, figure simboliche, prima metaforicamente rinchiuse entro un limite (forse il linguaggio jazz stesso, fino a prima del suo arrivo costretto nelle incrociate vie dell’armonizzazione blues da cui trae origine), dopo l’avvento simbolico di questo musicista rivoluzionario, iniziano a liberarsi nello spazio, rompendo la geometria precostituita in modo inarrestabile e per taluni versi indecifrabile. Paul-Klee-Courtesy-of-Fondation-Beyeler.jpg
La metafora del gioco fisico dentro uno spazio connotato da tonalità fredde ma vivaci (un verde elettrico e un viola acceso le dominanti cromatiche) vuole assimilare forse queste simboliche identità, fisicamente separate e non interattive fra loro, ai portatori della visione eccentrica del virtuosismo improvvisativo jazz che animarono la scena americana e poi europea nel secondo dopoguerra (basti ricordare il Festival di Parigi del maggio 1949, in cui il pubblico potè ascoltare musicisti del calibro di Charlie Parker, Miles Davis, Tadd Dameron e Kenny Clarke), e di poco successivo al tempo del Bauhaus, agli studi sul colore di Paul Klee e  contemporaneo a quelli sui contrasti di Itten.

Come si può immaginare intuitivamente, l’approccio sinestesico al processo creativo di Davies è diventato nel lavoro di nanou un modo per segnare spazi e aree determinanti, e soprattutto azioni di libertà rispetto alle geometrie spaziali che in parte erano già state presenti con le geometrie luministiche ne Il colore si fa spazio o Neverwhere .

Parliamo a questo proposito di spettacoli e creazioni site specific recenti di gruppo nanou i cui segni evidentemente riverberano, in modo determinante, in questa creazione, che assume quindi i crismi della summa aesthetica.

Al di là quindi dello specifico di We want Miles, che ha intuizioni pregevoli come ovviamente anche margini di perfettibilità essendo una creazione che vive di momenti di libertà ed improvvisazione (tipici del jazz), ci troviamo di fronte ad un’estetica che ha una sua leggibilità molto nitida all’interno del panorama nazionale, sia del physical theatre che della danza.
We want Miles ha un suo ritmo interno, una sua viva e voluta sporcizia di segni fisici contrapposti alla rigida scansione formale in cui vengono accolti: geometrie nitide e proprio per questo superate dal gesto scenico, all’interno del quale non si può non segnalare l’azione calamitante per lo sguardo di Carolina Amoretti. 
Seppur non tutto mantenga una cifra poetica limpida, e le sequenze siano passibili di un ulteriore pensiero sull’essenzialità e sulla capacità di incorporare un vibrato narrativo più intenso, la creazione resta originale, nel suo ripetesi canonico con variazioni, evocativa e coerente di frasi musicali, intuizioni, scale, ispirazioni carsiche. Uno spettacolo che ha certamente un inconscio con cui lo spettatore è chiamato a fare i conti.

 

WE WANT MILES, IN A SILENT WAY

progetto Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci, Marco Maretti 
coreografie Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci 
dispositivo scenico e colori Marco Valerio Amico, Daniele Torcellini 
luci Fabio Sajiz, Marco Valerio Amico 
suono Roberto Rettura 
percussioni dal vivo Bruno Dorella 
con Carolina Amoretti, Marina Bertoni, Rhuena Bracci, Marco Maretti 
produzione Ravenna Festival, Nanou Ass. Cult. 
con il sostegno di La MaMa Umbria International, Città di Ebla/Ipercorpo, E Production, Ravenna Ballet Studio 
con il contributo di MIBAC, Regione Emilia-Romagna, Comune di Ravenna

durata 50′

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