MARIA FRANCESCA GERMANO | Si è da poco conclusa a Bari la sesta edizione della rassegna Il peso della farfalla, diretta da Clarissa Veronico per l’Associazione Punti Cospicui. In un sistema teatrale sempre alla ricerca di nuove produzioni, la rassegna, quasi interamente autoprodotta se non per un piccolo sostegno del Comune di Bari, scorre quasi clandestinamente in Città tra i titoli e i nomi in cartellone delle Stagioni,  cercando nel ricchissimo panorama del teatro contemporaneo quegli artisti che, anche quando siano diventati dei nomi importanti e abbiano vinto premi risonanti, hanno ancora il piacere e il merito di praticare processi poetici prima che prodotti. «Una scommessa politica di partecipazione per abitare un territorio disegnandone il paesaggio e non il contrario», come la definisce la direttrice artistica Clarissa Veronico che abbiamo incontrato per PAC.

Come nasce questo titolo?

L’ho rubato a un piccolo libro di Erri De Luca. E’ la storia di un agguato di caccia e di amore. La storia di un uomo e di un cervo. L’uomo con il fucile avrebbe vinto. Lo sapevano entrambi, ma non sapevano che una farfalla avrebbe alterato l’equilibrio. Si sarebbe posata sulle corna del cervo caricato sulle spalle dell’uomo e quel peso leggero avrebbe fatto crollare l’uomo nella neve. Per questo motivo mi piace sottolineare che la rassegna Il peso della farfalla è la sfida di essere leggeri e costituire peso

Che tipo di rassegna è? Chi sono i tuoi artisti?

In sei anni la programmazione ha ospitato teatro, incontri, riflessioni. Ha messo in rete luoghi significativi della città, a volte poco conosciuti, ha ospitato artisti noti e meno noti, molti dei quali fuori dai circuiti più comuni della distribuzione teatrale, e sempre cercando di disegnare intorno al programma un filo rosso di riflessione, una comunanza che mettesse a dialogo saperi e linguaggi.
Sono stati ospiti artisti come Francesca Mazza, Fulvio Cauteruccio, Roberto Latini, Saverio la Ruina, Silvia Battaglio, Officina Orsi, Marco Manchisi, Roberto Abbiati e Lucia Baldini e quest’anno Vittorio Continelli, Lea Barletti, Ilaria Drago, Cuocolo/Bosetti. Persone, prima che artisti, che praticano un’idea di teatro come occasione di incontro, di relazione, di altro sguardo sul presente. E con loro anche attori del territorio cui negli anni passati è stata affidata la lettura a puntate de Il giocatore di Dostoevskji, la drammatizzazione di testi letterari poco noti come il bellissimo La fortuna degli zingari di Ilj’a Mitrofanov raccontato dal Teatro delle Bambole, incontri con le comunità migranti e una “Scuola dello spettatore senza bagaglio” per liberare la visione del teatro contemporaneo dall’idea che sia necessario avere strumenti d’approccio cognitivi prima che esperienziali.

Che ruolo ha la direzione artistica in un progetto come questo?

Una delle cose più antipatiche che tocca fare è firmarsi. Come ti firmi? Direzione artistica? E’ una formula che contiene dentro di sé una tale molteplicità di azioni anche organizzative, gestionali, relazionali, di studio e di passione che ti accorgi subito che una direzione non ce l’hai, vai a braccio, a sentimento, per scommesse e innamoramenti.  Direzione non significa riuscire ad arrivare da un punto A a un punto B. E non significa nemmeno dirigere perché molto spesso dirigi solo te stessa, passi molto tempo da sola quasi senza pensieri e poi i pensieri appaiono tutti insieme e solo allora riesci a condividerli a forse a dirigerli. Quando scrivo direzione quindi non immagino un tragitto, né di dirigere qualcuno. Mi piacerebbe scrivere responsabilità artistica perché ogni anno è come se dicessi agli spettatori e agli artisti: io parto, vado in quella direzione, da quella parte, venite con me. È di questo che mi assumo la responsabilità.

E li accompagni ad ogni appuntamento? Una specie di guida?

Se ti prendi la responsabilità di fare un viaggio ci devi essere sempre. Non sei un drone, sei il pilota di un autobus, insomma sei al volante. Quindi sì, io ci sono sempre e a ogni appuntamento racconto un pezzo del viaggio come se fossi una guida turistico-sentimentale. Se li ho portati fin lì ci deve essere una ragione. Magari li ho portati a vedere un cantiere ancora in costruzione oppure un’opera già compiuta, ma che sia un cantiere o una cattedrale per me c’è una ragione. Per rimanere nella metafora del viaggio in autobus, gli spettatori sanno che non stanno guardando un panorama dal finestrino ma che devono scendere e viverlo, sentirne l’odore. Ciascuno scoprirà qual è il proprio senso di esserci. Io non chiedo di condividere il senso, chiedo di condividere che abbia un senso. Questo è il patto di fiducia che sta alla base di tutto, che ciascun appuntamento abbia un senso, non sia un passaggio ma un attraversamento.

Cosa deve saper fare secondo te un organizzatore culturale?

Ho cominciato a lavorare in teatro a 19 anni. Il primo incontro con un maestro è stato con Paolo Ambrosino. Doveva introdurre noi giovani aspiranti organizzatori in un mondo sconosciuto e ci fece una domanda criptica che sembrava nascondere chissà quale mistica e filosofia. Ci mostrò due copie di un dossier di quelli che raccontano un progetto e finiscono con chiedere un finanziamento. Ci fece portare l’attenzione sulla rilegatura e poi ci chiese: «Che differenza c’è tra un dorsetto nero e un dorsetto bianco?». La lezione finì così, con quella domanda.

Penso spesso alla differenza tra un dorsetto nero e dorsetto bianco. Ora la risposta non serve più perché i dossier si inviano per via telematica e quindi il problema sembrerebbe risolto, ma in realtà ogni volta che penso al valore di una proposta mi chiedo sempre quale sia la differenza, perché so che una differenza c’è e sta nella scelta. Scegliere è un atto di minuziosa cura, è un atto di amore profondo.

Quali sono i luoghi della rassegna?

Il peso della farfalla in questi anni ha avuto diverse ‘case’. Ogni volta la casa dove fai teatro deve corrispondere all’ospite, altrimenti non è una casa, è un luogo come tanti. Prinz Zaum ad esempio è una vera casa. È una libreria ma è soprattutto un presidio culturale. Le sedie sono tutte diverse, ogni tanto la macchina del caffè fa rumore. Le porte sono a vetri. Tante volte durante uno spettacolo o un reading c’è gente che rimane fuori a guardare per tutto il tempo e non ha il coraggio di entrare. Non sente niente ma vede tutto. La seconda volta però entra e si siede. Non deve varcare un confine, solo attraversare una soglia. Questo è importante perché non ce ne accorgiamo ma spesso i “contenitori” sono percepiti come confini. Per cui intanto bisognerebbe abolire la parola contenitore e poi abolire la percezione del confine.
Un’altra casa è la Vallisa. È una chiesa adattata a teatro. Bellissima. Il gestore è anche scorbutico, o meglio fa finta di esserlo. Ma io evidentemente gli sto simpatica perché non ho più trovato da tempo una vera dedizione al teatro come in quel luogo, una disponibilità a trovare soluzioni tecniche, a dire le cose chiaramente, ad abbracciare gli artisti dopo lo spettacolo.

Che cosa ti porta ogni anno a iniziare questa avventura?

Potrei dire di farlo perché gli spettatori me lo chiedono, ed è vero. Ma è ancora più vero che non si sceglie quando cominciare e quando smettere un amore e il teatro è così. È capace di deporre sul piccolo spazio di qualche metro quadro un’intera vita, di mostrare ferite immedicabili per ricordarci che è proprio lì che scorre il sangue. Il Teatro è irredento e io sto sempre da quella parte.

IL PESO DELLA FARFALLA

progetto Punti CospicuiAssociazione per le culture
direzione artistica Clarissa Veronico
collaborazione organizzativa e contenuti critici Francesca D’Apolito
ufficio stampa Marilù Ursi