ANTONIO CRETELLA | Che ci sia un grosso problema culturale nella gestione delle malattie infettive stagionali è abbastanza evidente dalla pletora di spot dei medicinali analgesici e antipiretici in rotazione su tutte le reti: quasi sempre la narrazione del prodotto punta a sottolineare come l’assunzione dello stesso consenta al protagonista di sopprimere i sintomi influenzali e riprendere tranquillamente le sue attività quotidiane dando l’illusione di essere istantaneamente guarito. C’è l’informatico che torna in ufficio a rimettere in sesto i pc dei colleghi, l’uomo sprint di mezza età che moribondo al mattino, di sera va sorridente al corso di chef e affonda il naso infetto nel suo pane deforme appena sfornato ma profumatissimo. Ovviamente nulla, nemmeno una scritta indica che l’effetto del farmaco è solo sui sintomi, non sull’infezione in sé, che fa il suo normale decorso e rende la persona potenzialmente infettiva anche in assenza di segni esterni. Il culmine della contraddizione si è raggiunto in questi convulsi giorni di emergenza per il coronavirus in cui l’affannosa opera di catechesi di giornalisti, virologi e conduttori televisivi sulle buone prassi da applicare per il contenimento del contagio – tra cui anche il modo corretto di starnutire o lavarsi le mani – viene regolarmente interrotta dalle réclame di farmaci da banco che invitano a tenere comportamenti diametralmente opposti, punta dell’iceberg di una situazione culturale molto più complessa. Covid-19 ha portato al pettine i nodi irrisolti della scarsa diffusione di una buona formazione in ambito medico-sanitario in un Paese in cui allignano antivaccinismo, omeopatia, consumo indiscriminato di antibiotici e poca considerazione delle categorie a rischio, quali anziani, bambini e immunodepressi, che di quei comportamenti sconsiderati sono le vittime principali.