ELENA ZETA GRIMALDI | Ho iniziato il mio racconto di Castrovillari parlando di incontri coi classici. Sarebbe stato perfetto saltare nel futuro con Into Latino Roberti, con Roberto Latini e I Sacchi di Sabbia, che prende spunto dal celebre racconto di Isaac Asimov Viaggio allucinante, forse non un classico ma sicuramente un cult: anche chi non l’ha mai letto, grazie alle mille riscritture, parodie e ispirazioni che ha generato, può dire di conoscerlo. La puntata pilota della miniserie web concepita durante la pandemia doveva essere presentata il 13 ottobre nel Chiostro del Protoconvento francescano e in diretta sui canali del Festival, con Latini in presenza e I Sacchi di Sabbia in viaggio nel suo corpo da remoto. Purtroppo a causa della pioggia – e a dispetto dell’iniziale resistenza di attore e spettatori – è stata interrotta a pochi minuti dall’inizio senza la possibilità di essere riprogrammata. Dovremo perciò aspettare un’altra occasione − dal vivo? In remoto? − per scoprire cosa questo curioso dialogo tra compagnie e media ci riserva.
Dopo il non-dialogo dello spettacolo via messaggi Natura Morta di Babilonia Teatri (recensito per PAC da Elena Scolari e Giambattista Marchetto) e l’incontro con la nostra futura vita virtuale, altri due spettacoli ci danno invece la possibilità di parlare di scontro.
Il primo è Mario e Saleh, ultimo lavoro di Saverio La Ruina che, sul palco montato nel cortile del Castello Aragonese insieme a Chadli Aloui, ci racconta per piccoli quadri una storia di confronto mai finito, seppure cambiato radicalmente nei termini passando da naturale convivenza a insanabile conflitto.
All’indomani di un terremoto, nella tenda di un campo allestito dalla protezione civile, Mario, un uomo di mezza età, litiga al telefono con il gestore del campo, chiedendo(si) per quale motivo un musulmano abbia chiesto di essere assegnato in tenda con un cristiano. Identificando fin dall’inizio lo scontro tra diversità come scontro tra religioni, immediatamente la vicenda ci incanala nel solco degli stereotipi, delle etichette e dei pregiudizi. Poco dopo arriva il giovane Saleh che sistema le valigie sulla sua branda e dopo un breve scambio di battute piene di sospetto, esce di scena. Mario, incuriosito e indispettito, fruga tra le sue cose e viene colpito dal tappeto per le preghiere: come se nulla fosse, forte del suo status di “primo arrivato”, lo srotola ai piedi del suo letto e ci accomoda i piedi scalzi. Al ritorno di Saleh, pacato nel suo status di “presunto ospite”, uno strano dialogo s’instaura tra i due sulla proprietà del tappeto, in cui entrambi non vogliono cedere ma nemmeno prevaricare.
Nell’azione diviene subito chiaro che il filo rosso dello scontro tra religioni funge più da provocazione che da prologo, un background di catalogazione a cui nessuno dei protagonisti riesce a sfuggire e che, per quanto invisibile e impalpabile, influenza e vizia ogni loro rapporto: i numerosi dissidi tra i due conviventi attraverso cui procede il racconto scoppiano sempre per causa di qualcosa di pratico, di un oggetto (dopo il tappeto, la radio, la posizione delle sedie, un libro usato come sgabello) ma vengono sempre letti dai protagonisti con le lenti deformanti della religione − che, per sineddoche, diventa la cultura e poi l’etnia.
Quadro dopo quadro, tra uno scontro e l’altro, i due iniziano a incontrarsi davvero, come persone, senza rendersene conto: Mario non riesce a togliersi dalla testa la domanda “perché un musulmano ha voluto essere messo in tenda con un cristiano?” e Saleh rimanda sempre il momento della risposta, giocando con quella curiosità che in fondo non ha senso. Tante piccole cose che le lenti deformanti dell’appartenenza ci fanno catalogare come importanti si scoprono senza senso alla fine dello spettacolo: il posto in tenda di Saleh, chi ha rubato i soldi di Mario (e se effettivamente qualcuno li abbia rubati), chi abbia più diritto a vivere in un determinato luogo e in funzione di cosa, o quale tra le due religioni/culture sia “migliore”: dopo aver individuato quello che per Saleh è il momento di detonazione che ha spaccato in noi e voi un mondo di diversità che hanno sempre convissuto e dialogato, dopo aver ritrovato la conoscenza e riconoscenza di quel rapporto che sembrava perduto, tutto si risolve nella semplice vicinanza, nello stare seduti fianco a fianco a guardare i fiocchi di neve che cadono dal cielo.
Conclude l’edizione autunnale di Primavera dei Teatri una giornata di prime volte: la prima compagnia straniera ospite al Festival, Agrupaciòn Señor Serrano con l’applauditissimo spettacolo The mountain (di cui ha scritto per PAC Renzo Francabandera) e la prima nazionale di Madre, risultato della collaborazione di Ermanna Montanari e Marco Martinelli con il disegnatore Stefano Ricci e il contrabbassista e compositore Daniele Roccato.
Niente artifizi per Madre (o Dream, come si potrebbe leggere in un altro verso la scritta sulla locandina), solo gli interpreti, ognuno col suo strumento, disposti sul palcoscenico avvolto nel buio, squarciato dai buchi (uno dove vengono proiettati i disegni di Ricci e l’altro un disco di ferro alle spalle della Montanari) che sono poi i veri protagonisti della storia: una madre è caduta dentro un pozzo che sembra infinito e attraverso il buco dell’imboccatura dialoga col figlio sul da farsi. Un dialogo in forma di monologo, anzi di due monologhi, a comporre un dittico dove ognuno parla all’altro in un flusso di parole che sembrano avere significato solo per chi le pronuncia.
Il figlio ci appare, un tratto di gessetto dopo l’altro, affacciato al pozzo, appoggiato al bordo con aria quasi seccata: «Madre! Ma cosa ci fai laggiù in fondo? Madre! Ma com’è successo? Quando ci sei caduta lì dentro, quando? Oh santa madonna! Ma ti sembra, alla tua età ti sembra che ti devi affacciare al pozzo e sporgerti e alla fine caderci dentro? Madre! Cosa ci sarà mai da vedere laggiù in fondo?». Seccato e accusatorio, a sua detta impotente di tirare fuori la madre dal quel profondissimo pozzo tutto da solo, il figlio sa però di poter trovare una ‘tecnologia’ capace di fare il lavoro al posto suo. Il centro del monologo sembra un catalogo di attrezzeria: morsetti, cavi, bracci meccanici, Baldassarri Neoprene Super flessibile, Newton BPC-H12, ma van bene anche i Farengo GH-201-B… e intanto il buio cala anche al di fuori del pozzo. Senza stare a sentire la madre che non vuole altro aiuto all’infuori del suo, si allontana correndo in cerca di qualcosa da usare.
L’atmosfera cambia, Ermanna Montanari rientra in scena, gira il grande disco di metallo che da buco nero diventa spiraglio di luce lunare e con una semplice parrucca prende vita la madre, i suoi flebili lamenti e le sue parole misurate: non sa com’è caduta là dentro, ma le è sembrato di sentire una spinta, non è che è stato suo figlio? Non di proposito, certo, ma lui è sempre così di fretta, così distratto, con la testa piena di così tante cose che alla fine non ci vede più…
L’abisso che separa i due personaggi si fa evidente nella seconda parte del dittico, la voce è melodiosa e calma, gentile ma imperterrita nell’affermare che quel figlio gigante l’ha abbandonata, rinunciando a scendere nel pozzo che va giù come un imbuto, per cui bisogna farsi sottili sottili e non abbattersi mai per arrivare al fondo, liberarsi dall’assuefazione di facili soluzioni date da «la tecnologia adatta».
Siamo di fronte all’inesistente dialogo tra due generazioni ormai così distanti da essere due modi di pensare, due modi di essere, di vivere, due culture differenti, due mondi alle estremità di un tunnel. Senza ausilio di tecnologie, lo spettacolo ci interroga sull’utilità e le conseguenze della frenesia del nostro tempo, sulle trasformazioni dei rapporti, sulla possibilità di incontrare davvero qualcuno, sia esso un essere umano, un albero di melograno o una bisciolina dagli occhi di rubino.
Un favola nera costruita con la complicità di parole, note e disegni, da cui vorremmo di nuovo farci rapire già appena finito lo spettacolo. Un sogno forse, che apre un buco nel tempo da cui guardare in tutte le direzioni, non tanto per capire come ci siamo precipitati nel pozzo, ma per aprire bene le orecchie, ascoltare i lamenti di ciò che abbiamo distrutto e rispondere, finalmente, alle invocazioni della Madre.
«Testarda io? No che non sono testarda. È che se non mi tiri fuori te di qui non può tirarmi fuori nessuno»
MARIO E SALEH
scritto e diretto da Saverio La Ruina
con Saverio La Ruina e Chadli Aloui
collaborazione alla regia Cecilia Foti
produzione Scena Verticale
con il sostegno di MIBACT, Regione Calabria
in collaborazione con TMO – Teatro Mediterraneo Occupato di Palermo
13 ottobre 2020 | Primavera dei Teatri, Castrovillari
MADRE
di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci, Daniele Roccato
poemetto scenico di Marco Martinelli
produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro
in collaborazione con Primavera dei Teatri, Associazione Officine Theatrikés Salénto
14 ottobre 2020 | Primavera dei Teatri, Castrovillari