ANTONIO CRETELLA | Milan Kundera definiva il kitsch come “rimozione dell’intollerabile”, tentativo di allontanare dalla vista il male del mondo. La categoria del trash, che è cosa diversa ma collegata, eredita questa tendenza all’estetica anestetica, ma su un piano differente: laddove il kitsch opera per rimozione del contenuto e riempimento dei vuoti da esso lasciati con un grottesco simulacro, il trash opera per cosmesi. Il kitsch nasconde il cadavere in uno spesso sarcofago dorato, il trash lo trucca pesantemente da clown. Di fronte ad esso si manifesta un occultamento interiore del dolore mediato dal “sentimento del sentimento”, una forma ammaestrata e deterministica di espressione del sentimento stesso: piangere a comando quando è previsto il pianto da prefica, ridere sguaiatamente dove è prevista la grassa reazione corporale. Il tutto davanti allo stesso cadavere ridotto a oggetto tragicomico di una simulazione di autenticità, costretto ad autonegare l’essenza della profondità del dolore esibendola a comando. Il videoclip della negazionista siciliana assurta a riuscitissima icona del divismo d’accatto è l’apoteosi della tassidermia etico/estetica del trash: nulla di catartico, nulla di umoristico, ma neanche nulla di crassamente liberatorio o antiliturgico, nonostante gli accenni di rivalsa sociale e il tentativo di costruzione di un’eroina popolare. Solo una patologica scatofilia, come icasticamente ritratta da un videoclip di qualche anno fa di Alison Goldfrapp, Ride on a white horse: lei perfettamente truccata e seducentemente vestita intenta ad occultare una mummia in un water o a mangiare una fetta di pizza guarnita di mozziconi di sigaretta, tra immondizia patinata, decomposizioni organiche chic e sozzure ammiccanti.