MATTEO BRIGHENTI | La seduzione autoritaria è un inganno di parole vorace di consenso: raggira la logica manipolandola. La mia battaglia di Elio Germano e Chiara Lagani è il meccanismo perfetto e volutamente provocatorio che in teatro ha messo a fuoco il raffinato congegno ideologico alla base dell’ascesa di una dittatura.
La feroce e allucinata narrazione ha un ritmo serrato che rimane intatto tra le pagine del libro omonimo che ne raccoglie il testo per Einaudi, con un’intervista di Rodolfo Sacchettini agli autori. «La nostra idea – afferma Lagani – era creare una trappola linguistica. Per questo, abbiamo costruito un dispositivo manipolatorio, in cui in un’ora si assiste alla trasformazione di un personaggio da attore comico ad Adolf Hitler, il dittatore più feroce della nostra storia».
Durante uno spettacolo che si presenta come di puro intrattenimento, Germano con il suo sorriso complice coinvolge tutti i presenti in quella che pare una riflessione sulle questioni che affliggono la società civile, tra slogan politici sul senso di comunità e sulla meritocrazia, e proclami sulla patria e sulla sicurezza. A poco a poco, in un crescendo di autocompiacimento, porta il pubblico dall’adesione alla deriva, dal sentirsi liberi e responsabili all’avvertirsi in trappola (qui la recensione di Francesca Giuliani).

La mia battaglia. Foto di Enrico De Luigi

Un esperimento sociale che assomiglia a ciò che ci è successo tra il primo e il secondo confinamento, tra l’“andrà tutto bene” di inizio pandemia e l’Italia a zone di oggi. «Il sentirsi in trappola è certo un sentimento che stiamo sperimentando – riflette Lagani – siamo anche in grado di dettagliare questo strano stato in cui, a tratti, ci sentiamo quasi  cavie da laboratorio, però La mia battaglia – precisa – è pur sempre un dispositivo teatrale, e in più si riferisce a una fase storica cupissima del nostro passato come il nazismo. Speriamo proprio che le varie forme di persuasione e retorica cui ci espone il nostro apocalittico presente non arrivino a provocare conseguenze altrettanto fatali!».
Attrice e drammaturga, fondatrice e direttrice artistica di Fanny & Alexander insieme a Luigi De Angelis, Chiara Lagani risponde a Pac in un momento di pausa dal suo lavoro di traduzione del terzo romanzo di Lewis Carroll, Sylvie e Bruno, che porterà a uno spettacolo in estate al Ravenna Festival. «Le opere sono attuali e nutritive per noi contemporanei quando riescono a toccare una nervatura del presente. Il tema del sogno, con la sensazione di una vita parallela che ci scorre attorno e davanti, al di fuori dell’esperienza diretta dei corpi, che giacciono, come fossero addormentati, in un limbo d’attesa, mi sembra molto vicino al nostro presente».

La prima è una domanda semplice, ma credo necessaria, oggi più che mai: come stai?

Se uno non si è ammalato e non ha perso persone vicine si ritiene già fortunato. Quando passerà questo uragano rivaluteremo gli aggettivi bene e male, cercheremo di rifare il punto. Forse prima li usavamo in maniera troppo leggera. Non credo che un fenomeno di questo tipo possa lasciare indenni l’immaginario e il linguaggio, anche in campo artistico. C’è la sensazione diffusa di un cambiamento epocale, di un’apocalisse globale, probabilmente la più grossa che sia mai capitata da quando io sono al mondo. Lo scatenarsi della pandemia ci ha lasciati esterrefatti e continua a toglierci il fiato. È impossibile stare davvero bene in una situazione così difficile. Uno sta bene nel senso che è ancora vivo, che va avanti. Non riesco a risponderti diversamente da così.

Cosa ti manca del teatro? Come stai provando a colmare questa mancanza?

La cosa che mi manca di più in assoluto, e che penso manchi alla maggior parte delle persone, è il contatto, la relazione con gli altri. Nell’ultimo anno mi sono resa conto che tutte le attività, anche le più solitarie, le più eremitiche, come tradurre un libro – lo fai in solitudine e in reclusione autoeletta, diciamo così – sono depotenziate di qualcosa, è come se mancasse la freschezza, la vivacità di pensiero che viene generata dall’attrito con la vita. E la vita sono gli altri. È un lutto grave, incolmabile, possiamo avere solo dei surrogati di ciò che avevamo e infatti siamo sempre attaccati a queste inappaganti finestrelle mediali per tentare di portare avanti i progetti, di restare in contatto. Però la relazione è un fatto insostituibile, non vedo l’ora che torni, in qualunque forma, anche intermedia e piena di precauzioni, perché questa idea di non potersi incontrare è molto lesiva, tanto per la vita quanto per il lavoro.

Chiara Lagani con Elio Germano al termine di una replica de La mia battaglia. Foto di Margherita Cenni

Quale tempo stiamo vivendo o meglio non vivendo? C’è qualcosa che stiamo “guadagnando”?

Difficile dirlo in questo momento di esasperazione. All’inizio della valanga che ci si è riversata addosso riuscivamo a pensare che una pausa dai nostri ritmi forsennati poteva anche essere momentaneamente “salutare”. Qualche indicazione positiva ci sarà anche stata, ad esempio una certa semplificazione pratica del nostro lavoro quotidiano, che sicuramente era molto dispersivo. Adesso, dopo un anno di “prigionia”, c’è molta insofferenza, c’è grande stanchezza e si fatica a vedere i lati positivi di questa situazione. Quello che non stiamo vivendo è appunto la relazione, che è vivificante, ma le conseguenze di questo vivere a distanza di sicurezza dalla vita sono più pesanti di quel che sembra: è mutata addirittura la relazione con il nostro corpo. È come nei sogni, lo dicevo prima: il tuo corpo esiste, ma la tua azione, la tua proiezione vitale è in una dimensione separata da te, come accade nella dimensione onirica. Ci vediamo vivere, affacciati ai nostri dispositivi, ma c’è una non coincidenza con il corpo quasi in tutto quello che facciamo. Ora come ora pare impossibile la sincronia: per sopravvivere ci proiettiamo in un futuro che non siamo in grado nemmeno di determinare temporalmente. È molto, molto dura.

La mia battaglia possiamo definirlo un incubo a occhi aperti?

Nello spettacolo si arriva a una sorta di terribile impasse per cui ogni spettatore alla fine si sente tradito per il solo fatto di aver creduto e applaudito a gran parte delle prime affermazioni di Elio Germano. Il titolo è la traduzione letterale di Mein Kampf, il saggio del futuro Führer, e allude a un’idea, una forma di lotta, di battaglia che viene proposta al suo pubblico da questo attore comico (poi sedicente politico, o attivista), però è anche la battaglia che ciascuno dovrà combattere contro se stesso. È un’ora bella tosta, per chi la fa, ma anche per chi assiste.

Quali sono le parole, le espressioni, le avvisaglie a cui dobbiamo fare attenzione per non cadere in trappola?

Quando abbiamo cominciato a leggere Mein Kampf siamo rimasti sconcertati dal fatto che ci sono alcune parti, soprattutto all’inizio, persino condivisibili. Vengono i brividi a dirlo. Quando si parla di giustizia sociale, ad esempio, del diritto di tutti – al di là della classe sociale – a essere istruiti perché la scintilla del genio travalica il concetto di classe, tu pensi: beh, sono d’accordo. Poi ci rifletti e ti rendi conto che è solo la matrice socialista del pensiero nazionalsocialista. C’è una parte del suo ragionamento, tolta dal contesto, senza cioè guardare alle conseguenze a cui Hitler lo porta, con cui si può essere d’accordo: è la parte più perigliosa, a cui ci siamo aggrappati per creare le basi di una condivisione sentita da parte del pubblico, che si fida da subito di Elio. Così lui presenta una serie di argomenti ragionevoli che, a poco a poco, vengono infestati, minati, da parole che normalmente mi diverto a chiamare parole “a doppio riflesso”, perché mi ricordano quelle figurine che usavamo da bambini e a seconda di come le inclinavi prendevano la luce diversamente e il lupo, per esempio, si trasformava in Cappuccetto Rosso. Inizialmente hanno un aspetto benigno o almeno neutro e poi diventano insidiose: penso a merito, interesse, competenza, tutte parole adottate anche dalla retorica populista. Interesse è una parola positiva, è bellissimo l’interesse, no? È una passione, una predisposizione estrema verso qualcosa. Però, la parola ha anche un altro significato, quello di fare qualcosa in cambio di qualcos’altro, per interesse appunto. Lo stesso discorso ambivalente vale per competenza o per merito.
Simili parole sono in grado di costruire, in una trappola linguistica teatrale come La mia battaglia, zone franche che diventano snodi emotivi fondamentali per l’adesione del pubblico. È lì che ti incagli, è lì che si crea quella zona “grigia” di allerta, che poi diventa di terrore e che ti spinge a pensare che magari sei tu a non aver capito bene, che Elio effettivamente non sta dicendo cose così gravi come può apparentemente sembrare. Alla fine, però, realizzi che invece sono proprio cose gravissime, e ti spaventi molto perché due secondi prima applaudivi discorsi che si stanno trasformando sotto i tuoi occhi senza che tu riesca più a opporti, a fermarli. Adesso che c’è il testo scritto, uno può anche divertirsi, per gioco, a sottolineare queste espressioni insidiose, può essere un buon esercizio critico. Credo sia difficile sfuggire alla trappola della retorica populista che usa forme di manipolazione sottili e molto seduttive, è difficilissimo arginarle, siamo forse ancora poco attrezzati. Però è vero che nel nostro lavoro c’è anche l’intento di far nascere una risposta critica a questo tipo di tranelli.

Foto di Enrico De Luigi

Elio Germano è un attore famoso, noto tanto per il suo talento quanto per il suo impegno politico di o comunque a sinistra. È questo che ha permesso al meccanismo de La mia battaglia di essere così perfetto e provocatorio?

Sì. Se questo testo lo fai fare a un altro attore, magari bravissimo, ma che non ha il profilo di Elio, non funziona altrettanto bene. Il pubblico viene a teatro per lui, qualunque cosa avesse fatto la gente sarebbe venuta ad ascoltarlo. All’inizio dice: “Sfido qualsiasi persona a capire il significato delle cose che abbiamo scritto sulla brochure di presentazione”. E tutti ridono. Questa è un’altra delle battute benigne che, a posteriori, ti fanno capire che la base dell’inganno risiede nell’assenza totale di giudizio critico, nell’adesione incondizionata a qualcosa: è vero che sei andato lì senza sapere nulla, sulla fiducia, è vero che non ti interessa nemmeno ora saperne di più, vuoi solo restare ad ascoltare le battute di Elio Germano, ridere con lui.
Appena entra c’è un’ovazione, prima ancora che cominci a parlare. Gli tendono le mani, vogliono toccarlo, Elio ha un’aura di popolarità e ci ha abituato a considerarlo capace di sostenere in prima persona tante battaglie, si è esposto in prima persona politicamente rispetto a molte questioni. La gente lo riconosce e si riconosce, e ha bisogno di questo riconoscimento. Quando comincia a dire tutta una serie di cose gli spettatori si sentono traditi, non possono credere che il loro beniamino stia dicendo davvero quelle atrocità. Prima della catarsi finale – la discesa della svastica, paradossalmente, è un momento di agnizione e dunque consolatorio – c’è quella fase intermedia terrificante in cui non capisci se quello che accade stia succedendo realmente. Senti il terreno che ti frana sotto i piedi. Ci sono state persone che hanno reagito perfino con grande violenza: insulti, urla, pianti sfrenati.
Se al posto di Elio ci fosse stato un attore meno riconoscibile sarebbe stato meno immediato conquistare la fiducia del pubblico e dunque più difficile tradirla. Stanno arrivando alcune richieste per traduzioni e rappresentazioni all’estero. Si tratta di temi universali, che possono essere riproposti dappertutto, non solo in Italia, ma occorre sempre fare attenzione alla scelta dell’interprete, che deve avere determinate caratteristiche per poter arrivare a creare negli spettatori una crisi così potente seguita da una discesa così verticale. Nella mia esperienza il testo è sempre l’attore: La mia battaglia, in particolare, è proprio scritto sulla pelle di Elio Germano.

“Eccomi signori, buonasera. (Applausi). Entro alle vostre spalle, come il peggiore dei vostri incubi”. È la prima battuta di Elio Germano, è l’inizio, ma c’è già scritta anche tutta la fine. Manipolare è mostrare l’orrore come se fosse normale, scherzandoci sopra? Quell’inciso – Applausi – è davvero raggelante. Quanto conta la liturgia nella ricerca del consenso?

Nello spettacolo la sensazione iniziale di “normalità” e, più ancora, di piacevolezza estrema è fondamentale. Elio entra alle spalle degli spettatori, la luce resta a mezza sala per molto tempo, quello che c’è all’inizio sembra un prologo infinito, che però nessuno sembra aver troppa fretta di superare: tutti si sentono perfettamente a proprio agio, il loro “idolo” è lì, davanti a loro, in carne e ossa. “Entro alle vostre spalle, come il peggiore dei vostri incubi” già prefigura che qualcosa di sinistro stia per avvenire, che una minaccia incombe, ma in fondo nessuno prende troppo sul serio quella che è anche una battuta di spirito per sciogliere il ghiaccio.
La “navicella” della comicità è un cavallo di Troia per introdurre a poco a poco l’inganno e per alimentare il dispositivo di trappola linguistica perché è un meccanismo fagocitante, che si autogenera a valanga: più ridi e più vuoi ridere. Si innesca un vero e proprio contagio, se ride il tuo vicino, ridi anche tu, è un effetto di manipolazione a catena. Non è più solo Elio e quello che dice a manipolarti, ma anche il contesto: applaudi a quello che viene detto, ti diverti e ne vuoi ancora, sempre di più.
Quando sei all’apice di questa salita emotiva c’è la rottura: Elio all’improvviso non è più quel bravo attore che tanto ammiri e che sei venuto a vedere ma un insospettabile esaltato che ti scaglia addosso frasi che non riesci più capire, a classificare. Una volta a Follonica una signora si è alzata urlando: “Ma è realtà o finzione?”. È la domanda che molti si fanno: mi sta prendendo in giro o dice sul serio? È la sentinella che è in noi, il giudizio critico che si risveglia, ma senza quella navicella insidiosa, il virus dell’adesione crescente, non si arriverebbe mai a quel punto, non si proverebbero mai simili sentimenti di delusione e incredulità.

Foto di Enrico De Luigi

L’uomo forte, solo al comando, si muove sempre sul crinale tra potere e ridicolo, tra vero e verosimile? Perché, se lo riconosciamo per quello che è, com’è accaduto a quella signora di Follonica, è comunque troppo tardi?

Li abbiamo visti tante volte, senza fare per forza nomi e cognomi, uomini di spettacolo, scrittori, opinionisti, comici iniziare a far politica dalla tv, cominciare a fare discorsi su tutto, tenere in mano l’uditorio grazie a dispositivi retorici prevedibili e super collaudati, che la gente ama, ha bisogno che si ripetano. Sono rimasta impressionata dai racconti di Elio, le prime volte che ci vedevamo, mi diceva che aveva cominciato a provare terrore di fronte a spettatori che, quando lo incontravano, gli chiedevano: “Perché non ti metti in politica? Io ti voterei subito!”. Si riconoscevano in lui, in quello che credevano lui fosse e quindi pensavano che avesse il dovere rappresentarli. Anche solo un frammento di frase, un’affermazione in un’intervista, bastava a convincerli di conoscere il suo pensiero più profondo e a convincersi di esserne pienamente rappresentati. La mia battaglia è diventata  anche un modo per “castigare” questa richiesta che gli veniva rivolta e che riteneva abbastanza perversa.
C’è sicuramente una tendenza innata del popolo italiano a riconoscersi in un uomo forte, carismatico, un leader, un Padre a cui delegare ogni potere, l’eterno fascismo italiano, come diceva Leonardo Sciascia. Ancora oggi siamo qui ad aspettarci che la salvezza venga da un uomo forte che scende dall’alto a rimettere le cose a posto, non vogliamo essere governati, vogliamo essere salvati.
Talvolta ci chiedono: ma questa discesa così vertiginosa, la deriva precipitosa di senso, la degenerazione etica dei principi basilari del vivere civile democratico, è davvero ancora una minaccia? È possibile imboccare di nuovo quella strada terribile che quando ti accorgi di averla presa è troppo tardi? Possiamo davvero chiamare passato quella storia così cupa o siamo ancora esposti a meccanismi altrettanto minacciosi? Beh, io dico che la storia non si ripete mai uguale ma l’umanità è mossa da meccanismi quelli sì, che si ripetono con spietata precisione. Primo Levi diceva: “Dove attecchisce un fascismo, dove attecchisce un nuovo verbo come quello che amano i nuovi fascisti di Italia: non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo gli stessi diritti… allora alla fine c’è il lager, questo io lo so con precisione”.
Quando abbiamo scritto questo lavoro c’era ancora il governo giallo-verde, con Matteo Salvini ministro e vicepremier, e certe affermazioni del testo sono molto simili a quelle che si sentivano pronunciare in quei giorni, con estrema disinvoltura, dai nostri governanti, in parlamento, in piazza o in spiaggia che fosse.

Salvini ha fatto il giro ed è di nuovo al governo. Sono le “meraviglie” della politica italiana…

Sono pirotecnie così incredibili che il teatro non le può nemmeno ripetere. La realtà è molto più fantasiosa di noi autori.

L’eterodirezione, ossia la somministrazione di ordini di movimento e parola con gli auricolari dalla regia al performer, vera e propria cifra distintiva di Fanny & Alexander, quanto ha inciso sulla costruzione de La mia battaglia?

Il discorso sulla manipolazione negli ultimi anni è diventato per noi preponderante. A livello scenico rappresenta proprio la grammatica dei nostri dispositivi, con l’introduzione, da quindici anni a questa parte, di uno dei filoni di sperimentazione più importanti per Fanny & Alexander: l’eterodirezione, appunto. A livello tematico l’abbiamo affrontata soprattutto in West (l’estremo dei punti cardinali della storia del Mago di Oz) con lo spettatore “imprigionato” insieme a Dorothy in un monologo-trappola che parlava di manipolazione e dell’impossibilità di scegliere; poi in Discorso grigio, un lavoro non totalmente dissimile da La mia battaglia, anche se lì parlavamo di berlusconismo e di tutta un’altra fase politica, ma che comunque diventava uno specchio opaco in cui era il pubblico a riflettersi.
Questo è sempre il punto: ciò che scatena lo spavento è che questi spettacoli diventano uno specchio in cui rivedi la tua immagine e questo non lo riesci ad accettare. Elio è venuto a chiedere la mia collaborazione dopo aver visto il nostro Him al Teatro Valle Occupato, con Marco Cavalcoli che doppia dal vivo il film Il mago di Oz, versione di Fleming del 1939, nei panni di Hitler rivisitato da Maurizio Cattelan. Il solco su cui ci siamo mossi non è tanto distante da quello che ho esplorato in questi lavori: è l’approfondimento di ragionamenti ancora in atto.

Chiara Lagani in Discorso giallo di Fanny & Alexander. Foto di Enrico Fedrigoli

Quale lavoro avete fatto sul testo per renderlo pubblicabile? Come siete riusciti a fermare sulla carta un’operazione che si è imbevuta sera dopo sera del contatto con il pubblico e delle sue reazioni?  

Per Elio La mia battaglia è stato un corpo a corpo che è continuato per tutta la trentina di repliche che abbiamo fatto e che poi abbiamo voluto fermare, perché per noi questo progetto era quasi un esperimento sociale più che una rappresentazione. Per cui, finita la sua parabola naturale, è stato trasformato in un evento in realtà virtuale, per la regia di Elio e di Omar Rashid, che tuttora sta girando con un altro titolo, Segnali d’allarme. Ci tenevamo però anche a trasferirlo sulla pagina, perché fosse la tappa scritta di un progetto che non si ferma e non vuole fermarsi e continua a camminare.
Ma come riuscire a far sì che quel canovaccio così preciso, rigoroso, con appuntamenti dettagliatissimi, sulla carta, ma allo stesso tempo così naturale e “parlato”, mantenesse la stessa freschezza, restituisse la stessa sensazione di oralità? Abbiamo comparato le tante versioni di quel copione e abbiamo ricostruito un testo che ha una forma in un certo senso “consuntiva”.
Per me in realtà quello non è un monologo, è un dialogo. E il secondo attore è il pubblico. Le sue battute, le sue reazioni, questa cosa degli applausi che tu dici fa rabbrividire, sono solo la seconda voce di un dialogo che è andato avanti per trenta serate. Il testo edito è come se facesse una media di tutte le cose più forti che sono successe: è l’inedita descrizione di questo esperimento sociale, pur avendo una forma drammaturgica, quella di un testo teatrale.
È anche il nostro modo di raccontare che cosa è accaduto davvero in quel mese di lavoro dal vivo su un testo che, se l’avessimo continuato a replicare – e secondo me, ripeto, è giusto che invece ci siamo fermati – probabilmente sarebbe cambiato ancora.
Con il libro abbiamo anche affrontato la difficoltà di fissare sulla pagina un testo caratterizzato da una mobilità estrema, un testo che sembrava refrattario a una forma definitiva. Io dico sempre che i testi teatrali sono cose vive, dotate di una loro autonomia e che ci danno delle indicazioni, se sappiamo ascoltarli. Questa è un’altra delle mie ossessioni: un testo vivo, che muta di continuo.
Spesso mi chiedono come faccio a depositare alla Siae i testi in cui usiamo, ad esempio, l’eterodirezione, che in un certo senso è un meccanismo di scrittura live. Mi viene da ridere. Ovviamente una forma finale la si dà, ma comunque sarà una forma provvisoria. Mi viene sempre in mente Raymond Queneau, i suoi Centomila miliardi di poemi, una serie di sonetti scritti su dieci fogli, ciascuno diviso in quattordici bande orizzontali, stampate su entrambe le facciate. Il lettore può, girando le bande orizzontali come fossero pagine, scegliere una delle dieci versioni della poesia. Abbiamo dunque 1014 (100.000.000.000.000) di potenziali poesie. Queneau nella prefazione scrisse che nemmeno la sua stessa vita, la vita cioè dell’autore, sarebbe bastata a completarne la lettura. La vita è così, non si fissa, è sempre in movimento e il teatro, che è forse l’arte più simile in assoluto alla vita – arte dal vivo la chiamiamo, no? –, è giusto che non si fissi mai, che sia fatta di testi sempre mobili e in corsa.

Chiara Lagani in Kansas di Fanny & Alexander. Foto di Enrico Fedrigoli

Con Fanny & Alexander hai provato a Ravenna L’isola disabitata di Haydn, che andrà in scena in autunno. Sei poi in procinto di consegnare a Einaudi la traduzione del terzo romanzo di Lewis Carroll, Sylvie e Bruno. Come raccontano il nostro tempo presente?

Il sogno è un macro tema che attraversa questi due progetti ma anche altri che stiamo affrontando e pianificando per il futuro, sempre che ci sia un futuro prossimo in cui sperare! L’isola disabitata è una storia d’amore travagliata: due donne vengono abbandonate su un’isola e attendono per anni di essere recuperate.
Abbiamo lavorato in parallelo evocando continuamente la situazione di oggi, in cui tutti noi siamo in un’isola disabitata che sono le nostre case, le nostre città vuote: siamo “isole” perché siamo tremendamente soli e siamo “disabitati” perché, al di là dei ristretti nuclei familiari, non possiamo più avere contatti se non mediati dai dispositivi elettronici, che per fortuna abbiamo a disposizione.
Sylvie e Bruno è un racconto lungo costituito da due storie incastrate l’una nell’altra: una è un romanzo borghese, una storia d’amore realista, l’altra è una favola di fate. La cerniera è la voce di un vecchio narratore che si addormenta di continuo e sogna una delle due storie (che disturba e interrompe l’altra). Il lettore è così sbalzato da una parte all’altra del racconto con la strana sensazione che si ha nei sogni di non coincidere mai con sé stesso, con il proprio stesso corpo nella moltiplicazione infinita di piani.
La sperimentazione sul linguaggio è vertiginosa: se Alice parla di sogni ed è scritto nella lingua del non senso, questo terzo romanzo di Carroll è scritto direttamente nella lingua del sogno, anticipando Sigmund Freud che dopo qualche anno uscirà con L’interpretazione dei sogni. Non a caso il libro affascinerà James Joyce, che vi si ispirerà per Finnegans Wake, altro sogno famosissimo della letteratura.
Ma i punti di contatto col presente non finiscono qui: nel secondo dei due libri viene raccontata a un certo punto un’epidemia (con sintomi molto simili a quelli del Covid-19) che stermina un intero villaggio. La malattia è uno strano trampolino nel racconto: il narratore soffre di un’affezione cardiaca, che forse è anche ciò che gli permette di stare sempre in uno stato a cavallo tra i due mondi romanzeschi e, a poco a poco, si ammala il suo mondo. Naturalmente ci sarà una catarsi, una “guarigione” finale, che non voglio anticipare, ma la malattia è insomma un tema importante.
Quando traducevo il romanzo – eravamo nel lockdown più duro, il primo – mi venivano i brividi. Quest’opera di fine Ottocento ci dice cose molto precise sull’oggi, anche proprio a livello linguistico, e lo fa in maniera così sperimentale! È un libro che con Luigi De Angelis vogliamo trasformare in spettacolo da quando siamo “bambini”, per così dire. E finalmente lo faremo, a metà giugno, al Ravenna Festival.

Come hai lavorato sulla lingua di Carroll dopo quella di L. Frank Baum di cui hai tradotto e curato tutti i quattordici romanzi per i Millenni? 

Carroll è un “mostro sacro”, e in più questa è la sua ultima sfida con il linguaggio, è quasi un duello finale all’ultimo sangue! Bruno, il protagonista maschile, è un bambino che parla in una maniera assurda, come i bimbi piccoli, quindi con una serie di infantilismi divertentissimi; in più il suo discorso non regge il livello metaforico del linguaggio, per cui si assiste continuamente a paradossali letteralizzazioni di senso, scivolamenti, giochi di parole. La lingua qui è un rebus vivente. Questo spinge il traduttore a una girandola infernale: per essere fedele totalmente a questo testo devi continuamente tradirlo, se lo traduci alla lettera, risulta incomprensibile. Perciò tutte le volte devi inventarti un’immagine, una soluzione enigmistica corrispondente nella nostra lingua, che si avvicini il più possibile allo spirito di quello che Carroll realizza magicamente con l’inglese. Carroll è un vittoriano doc, ma anche totalmente fuori dagli schemi: al contempo è esperto di linguaggio, di logica, di filosofia, di letteratura, di religione… se non cogli tutto il suo retroterra perdi la comprensione fondamentali. È stato un bell’agone, da cui credo di aver imparato molto. Baum, invece, è americano, la sua lingua è piana, anche lui dissemina di giochi di parole succosi la sua prosa però è molto più semplice da tradurre: la sua grande risorsa sono le immagini così brillanti, fantasiose, generose e che proliferano a dismisura e per cui vanno trovati i colori giusti nella tavolozza delle parole.

Come Alice, Sylvie e Bruno è tutto fuorché un libro per bambini…

Carroll aveva l’utopia di scrivere un racconto per adulti e per bambini al contempo, intreccia una storia d’amore a una storia di fate ma in realtà il libro ha una dimensione molto adulta. Anche Alice, secondo me, è un libro per adulti. Walt Disney ne ha fatto la sua famosa riduzione e quindi siamo abituati a pensarla come un’opera per bambini, ma se poi l’andiamo a rileggere davvero capiamo bene che non lo è affatto. Sono tutte storie di fantasmi per adulti.

Chiara Lagani con Fiorenza Menna in Storia di un’amicizia di Fanny & Alexander da L’amica geniale di Elena Ferrante. Foto di Enrico Fedrigoli

Il teatro, la letteratura, l’arte in generale, in che modo ci aiutano a capire il nostro tempo e noi stessi? 

L’editoria pare essere l’unica industria culturale a non essere andata in crisi. Le persone chiuse in casa non si sono date solamente a Netflix ma hanno cominciato a comprare libri. Non è solamente la noia che ti spinge a rifugiarti nelle storie, credo, ma il bisogno di tirare fuori, anche in un momento così angoscioso, chiavi importanti che ti aiutino a vivere. È una forma di sopravvivenza intellettuale, è l’espressione di una vitalità interiore. La mia generazione teatrale è da sempre legata quasi più al romanzo (e al cinema) che alle opere drammatiche. Il romanzo è un micromondo abitato da “fantasmi familiari”: un universo che somiglia alla vita e finisce per darti indicazioni consistenti per invadere gli spazi più sottili delle tue giornate.
La voglia di lettura che ci ha presi in questo momento di isolamento coatto ha forse anche a che fare con la necessità di circondarci proprio di quelle presenze così intense, a volte così potenti da competere con la forza della realtà, proprio in un momento in cui ci è negato stare in mezzo agli altri. La narrativa poi è in un momento di grande fertilità, si scrive tantissimo, escono milioni di libri di nuovi scrittori: poi certo, quando hai una così ampia quantità di opere naturalmente non sempre trovi qualità e, come ha detto l’editore Antoine Gallimard, forse dovremmo cercare tutti di leggere un po’ di più e di scrivere un po’ di meno. Comunque, è anche il sintomo che c’è ancora un grande bisogno di storie. Mi sembra una cosa complessivamente molto bella.

La domanda delle domande che si rincorre sulle pagine culturali di tutto il mondo è: chi scriverà il grande romanzo della pandemia?

Mah. Come fare a rispondere a un quesito così? Le opere importanti riescono a mettere in moto qualcosa di archetipico, di profondo, che si riversa nel presente. Forse, il grande romanzo della nostra crisi presente è già stato scritto: abbiamo tutti riletto Alessandro Manzoni e Albert Camus… e traducendo Sylvie e Bruno sono stata còlta da una vertigine. Gli artisti veri sono spugne, si imbevono di tossine, delle ferite che attraversano la loro epoca. Non so quanto tempo occorrerà per vedere davvero quello che ci sta capitando, per leggerlo così a fondo da poterlo riversare in un romanzo. Non è nemmeno detto che il romanzo della nostra pandemia lo sarà in senso descrittivo, chissà. E chissà cosa farà il teatro…
Nei prossimi anni, questo me lo aspetto, troveremo tracce profonde di ciò che stiamo passando, non solo a livello tematico, ma soprattutto tracce linguistiche. Quello che stiamo vivendo è un trauma collettivo di tale portata che si inciderà profondamente nel nostro immaginario. Le opere oggi trascorrono molto veloci, leggiamo leggiamo e spesso dopo pochi mesi già abbiamo dimenticato. È molto difficile che nasca un romanzo che sappia incidere gli immaginari, che sappia superare questa dimensione così volatile e durare nel tempo, diventare già in vita un classico contemporaneo. L’amica geniale di Elena Ferrante, per esempio, secondo me è uno dei pochi a esserci riuscito.
Tornando a La mia battaglia, pensa se tornassimo in scena adesso: il discorso sulla diffidenza, sul diverso che Elio fa al principio (nell’escalation che da estraneo arriva a diverso, poi a straniero, fino all’irruzione del discorso sulla razza) si ammanterebbe subito della paura del contagio, del timore di questo virus che si trasmette con la vicinanza, respirando il respiro altrui. Senza cambiare il testo di una virgola, è già cambiato il valore di certe parole. Questo intendevo prima dicendo che sono in atto profonde mutazioni linguistiche, indipendentemente dalla nostra volontà. Sono molto, molto curiosa di vedere come tutto questo precipiterà in quello che vedremo a teatro e leggeremo nei libri.

Foto di Roberto Baldassarre. Progetto grafico di 46xy